Intervento del Patriarca al Convegno internazionale “Il più santo dei dotti, il più dotto dei santi. Prospettive sul pensiero di san Tommaso d’Aquino” (Venezia – Scuola Grande di S. Marco, 13 novembre 2025)

Convegno internazionale “Il più santo dei dotti, il più dotto dei santi. Prospettive sul pensiero di san Tommaso d’Aquino”

(Venezia – Scuola Grande di S. Marco, 13 novembre 2025)

 

Intervento del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

sul tema “Un’inesausta risorsa per la Chiesa. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, pensatori esemplari per una teologia viva che si fa preghiera”

 

 

“Il più santo tra i dotti e il più dotto tra i santi”: in apparenza un gioco di parole o poco più, in realtà è l’espressione che la tradizione fa risalire al cardinal Bessarione, ripresa da Papa Pio XI, successivamente, e da Papa Paolo VI nella Lettera apostolica Lumen Ecclesiae del 1974[1].

Una frase ad effetto, dentro la quale si cela la verità profonda del richiamo fra teologia e santità, tra intelligenza della fede e preghiera, ossia che fa la verità della filosofia e della teologia insieme. E restituisce la verità della preghiera stessa che necessariamente sussiste in forza di un orizzonte di senso, concepibile nel pensiero e verbalizzabile nella parola.

L’autentica vocazione del sapere è a quella “sapienza” filosofica che si apre alla capacità di pensare anche nella forma della preghiera, di spingere, cioè, il pensiero sino alla consegna piena di sé alla relazione con Dio.

Allo stesso modo, la santità si compie integrando in sé l’ ”intelligentia fidei”, al di là del grado di qualità e finezza concettuale al quale detta intelligenza possa spingersi, per cui la stessa fede dei semplici è lucido intelligere, quando la fede è semplicemente pensata, portata entro un orizzonte di senso chiarito dalla coscienza alla coscienza stessa, e letta dentro tutta la realtà che la stessa fede trasfigura: intus legere, intelligere appunto.

E nella storia della Chiesa sorgono figure, come Tommaso, che compiono questa circolarità portando alla massima espressione, resa possibile dalla cultura del tempo, l’integrazione della ragione nell’orizzonte della fede e il ripensamento della fede in una consonanza armonica con la ragione.

Per il grado di estensione in ampiezza di vedute e di concezione organico-sistematica raggiunti nell’elaborazione teorica del pensare la fede, possiamo riconoscere le grandi personalità di sant’Agostino per la tarda antichità, di san Tommaso per l’età medievale e del beato Antonio Rosmini per l’età moderna. Quello che accomuna queste figure è anche l’aver raccolto le grandi sfide del loro tempo e avervi risposto attraverso una geniale rigenerazione delle tradizioni precedenti, senza rompere col portato autentico delle loro acquisizioni teoriche.

Comprensione autentica delle questioni urgenti del proprio tempo, con un solido radicamento nel passato e lo sguardo coraggiosamente proteso al futuro: è così che Tommaso rigenerò Agostino, e Rosmini Tommaso, ma il discorso si pone per tutti coloro che tennero il passo sui sentieri della continuità, senza per questo rinunciare a camminare e procedere oltre.

Della logica della continuità e tenuta dottrinale nel tempo fece un punto di forza della propria riflessione anche il santo cardinale John Henry Newman, recentemente proclamato Dottore della Chiesa.

Pensare la fede, dunque, e fecondare il pensare nella fede, affinché fiorisca in tutta la sua ampiezza: ecco il senso di tale circolarità di cui l’Aquinate è un sommo testimone.

L’intellettualizzazione dei contenuti della Rivelazione, della fides quae creditur, non si smarrisce in una sterilizzazione della fede, non la raffredda, non la irretisce nelle briglie di un vano razionalismo, se l’organismo della sintesi del pensato e creduto, e del creduto come – anche e necessariamente – pensato, è capace di elevarsi e trasfigurarsi in preghiera ed è capace per questo di offrirsi al popolo di Dio in strumento di elevazione e di esperienza integrale della fede.

Per questo, possiamo riconoscere che l’opera teologica di Tommaso è a servizio della vita e della missione pastorale della Chiesa, e non deve meravigliare di ritrovare il Sommo Aquinate intento nell’opera di predicazione popolare, a Napoli, in dialetto napoletano.

Il suo contributo rappresenta, nella storia della riflessione filosofica e teologica, un momento fondamentale della messa a punto dei rapporti tra ragione e fede e, di qui, tra filosofia e teologia, dove spicca comunque il primato della fede, trovandosi la ragione finalizzata alla comprensione della fede stessa, ma anche posta a protezione della sua esigenza non contraddittoria di senso e perciò, al tempo stesso, preservata nella sua necessaria autonomia.

Ed è, questo, un fatto costante nella vita ed esperienza storica della Chiesa: possiamo evocare al riguardo, in quest’anno in cui cade il 1700esimo anniversario del Concilio di Nicea, la messa a punto del linguaggio teologico che nei primi secoli si avvalse di ampia parte della concettualità filosofica del pensiero greco, senza per questo subirne le restrizioni semantiche ma, anzi, liberando quelle stesse categorie e il linguaggio in cui si esprimevano.

All’indomani del Concilio di Calcedonia del 451 – che precisò l’esistenza delle “due nature”, umana e divina, nella stessa persona di Cristo – l’imperatore Leone I inviò a tutti i padri conciliari una lettera per chiarirsi sul significato della formula di fede cristologica e il vescovo Euippos rispose che l’assunzione di quei termini era da intendersi “piscatorie et non aristotelice”, cioè “alla maniera piscatoria” – il riferimento è chiaramente a Pietro, pescatore di anime, quale pietra angolare della struttura apostolica della Chiesa – anziché “alla maniera di Aristotele”[2].

Il ricorso alla terminologia filosofica, quindi, andava inteso come una scelta dettata da ragioni di opportunità pastorale, secondo un’accezione allargata dei termini, e non nel senso di una forzatura del dato teologico della realtà del Verbo incarnato entro le restrizioni dei termini assunti stricto sensu nella loro accezione aristotelica.

Lo stesso vale, retrospettivamente, quando più di un secolo prima, a Nicea, si ritiene di risolvere le controversie relative alla crisi ariana con l’introduzione del termine homooúsios a chiarificazione della consustanzialità del Verbo divino rispetto al Padre, fatto che non rappresenta un’indebita ingerenza filosofica nella teologia, ma il ricorso alla filosofia a difesa della teologia e a protezione da derive irrazionalistiche. Tanto più che quel termine risaliva alle dottrine dell’emanatismo sviluppatesi in ambito gnostico tra II e III secolo, per cui va anzi riconosciuta la straordinaria libertà di spirito dei Padri niceni nel ricorso a una terminologia che mutuavano riconsiderandola nel loro significato etimologico e letterale in ciò che sapeva esprimere della piena identità di sostanza delle persone divine, liberandola dal portato culturale cui pareva storicamente legata[3].

Al tempo di Tommaso si gioca una partita culturale che è fondamentale e che la Cristianità medievale non può permettersi di perdere. Nei primi decenni del XIII secolo vengono riscoperti i testi di Aristotele, che giungono in Europa nella mediazione delle traduzioni e dei commentari dei filosofi arabi, insieme a numerosi altri testi scientifici.

Va ad Alberto Magno il merito di aver intercettato per primo questa ricchezza testuale e di averne colto le straordinarie potenzialità, sia sul piano della riflessione filosofica che su quello dello sviluppo scientifico. Alberto Magno – che Étienne Gilson rappresenta come un gigante famelico «gettatosi su tutto il sapere greco-arabo con il gioioso appetito di un colosso di buonumore», «straordinario enciclopedista» preso da un’«avidità eroica di tutto il conoscere accessibile all’uomo», il che gli meritò il titolo di Doctor Universalis, e dall’intento di «mettere alla portata dei Latini tutta la fisica, la metafisica e la matematica, cioè tutta la scienza accumulata fino ad allora dai Greci e dai loro scolari Arabi o Ebrei»[4] – preparò il terreno alla riflessione del suo grande discepolo Tommaso.

Nel contempo, però, la messa in circolazione del pensiero di Aristotele, soprattutto nell’interpretazione di Averroè, poneva seri problemi di compatibilità con le prospettive della teologia cristiana, a cominciare dalla questione dell’unità e individualità della persona, e della sopravvivenza dell’anima come entità individuale. Le intemperanze dell’averroismo latino, in ciò che a molti appariva come lo sviluppo coerente delle dottrine aristoteliche, parevano irrimediabilmente compromettere l’operazione tentata dai due maestri domenicani di avvantaggiare la riflessione teologica della Chiesa di queste risorse convogliandole entro l’alveo dell’ortodossia dottrinale. Ciò non poteva essere fatto senza sensibili adattamenti che Alberto e Tommaso produssero con coraggio speculativo, sino a creare una sintesi originale che è decisamente improprio e ingiustamente riduttivo considerare come una mera riproposta del pensiero di Aristotele.

Certo, l’Aristotelismo venne immesso nel pensiero occidentale e ciò rivoluzionò a fondo la cultura filosofica dell’Europa cristiana e la stessa teologia, ma originando una nuova sintesi che conferì alla riflessione teologica una più chiara lucidità della sua tenuta veritativa e concettuale. Scrive ancora Gilson: «il XIII secolo è l’epoca in cui il pensiero cristiano ha preso finalmente coscienza delle sue implicazioni filosofiche più profonde ed è riuscito par la prima volta a formularle distintamente»[5].

Alberto Magno e Tommaso, dunque, non riprendono pedissequamente ma creano una filosofia all’altezza del loro tempo, al servizio della fede. All’altezza del loro tempo, beninteso, nella capacità di risposta alle questioni allora emergenti, ma non vincolata al loro tempo, al punto da rimanere in esso confinata. Vi è, anzi, un tema di “classicità” del pensiero dell’Aquinate e del suo maestro, che ci chiama a comprendere e riscoprire l’animus di Tommaso in quanto perdura nel tempo e rimane, anche una volta che sia spogliato di quelle forme che han fatto il loro tempo.

Possiamo innanzitutto cogliere questi tratti di viva classicità che rendono Tommaso una preziosa ed esemplare risorsa ancora nel nostro tempo innanzitutto nel metodo, nello spirito critico capace di problematizzare le questioni sotto tutte le angolazioni, ascoltando tutte le voci, ammettendo nell’agone tutte le posizioni possibili, per poi rivalutare criticamente quanto da ritenere e da respingere vi è in esse.

È il metodo della quaestio, che deriva dalla pratica della discussione nelle università medievali e va a costituire l’ossatura delle grandi architetture delle Summae e di altri trattati. E nel susseguirsi degli articuli che compongono le quaestiones si pongono sui piatti della bilancia le ragioni a favore e contro, tra le quali non di rado Tommaso assume una posizione intermedia, valutando e accogliendo le ragioni di entrambe le parti dapprima in opposizione dialettica, ma nella relatività di accezioni diverse che rendono quelle parziali verità complementari le une alle altre.

È, più in generale, il metodo che si fa carico sino in fondo del compito didattico spinto sino all’esaurimento di ciò che non si può presupporre nel principiante. E per quanto possa sembrare paradossale – considerata l’eccezionale ampiezza raggiunta dall’opera – è proprio ai principianti che, nel Prologo della Summa theologiae, l’Aquinate si rivolge con l’intenzione dichiarata di offrire loro un libro di testo dove nulla sia dato per acquisito o scontato.

Tale preoccupazione, animata da uno spirito genuinamente pastorale, genera come fatto innovativo la configurazione sistematica delle Summae, le cui trattazioni sono disposte in ordine progressivo in cui non vi è nulla, di quanto viene di volta in volta trattato, che presupponga nozioni che non siano state chiarite in precedenza. Si abbozza così anche l’idea moderna di “teologia sistematica”, dizione ancora in uso nell’insegnamento accademico delle materie teologiche, e sotto questi e altri aspetti è difficile trovare qualcosa di più “moderno” – nel senso più positivo del termine, di avanzato e adeguato a una riflessione aperta a tutte le sollecitazioni, e tale da permettere di aprirsi alla totalità – del pensiero degli scolastici domenicani del Duecento.

L’incedere argomentativo di Tommaso, come del suo maestro, testimonia un’assunzione critica delle questioni trattate in uno stile autenticamente dialogico, condotto all’insegna di una libertà intellettuale difficile da concepire anche ai nostri giorni, in un contesto culturale che in nome di una libertà fraintesa, sovente e in molte realtà e istituzioni formative della stessa Chiesa, ha ritenuto opportuno emarginare un tale patrimonio di pensiero e una tale miniera di riflessioni, nonché una vera palestra di alto esercizio dell’intelletto critico, ritenendola frettolosamente obsoleta, con un giudizio, per non dire, a volte, un vero e proprio spirito di sprezzante repulsione, frutto più di pregiudizi e di una figurazione immaginaria, che di un franco e diretta conoscenza dei testi.

Paolo VI già ne lamentava gli effetti nel 1974, affermando che «spesso, la diffidenza o l’avversione a San Tommaso dipendono da un superficiale e saltuario accostamento e, in alcuni casi, da una completa assenza di diretta lettura e studio delle sue opere»[6].

Anche da questa emarginazione di un metodo e di uno stile teologico, caratterizzato da una fede che trasuda ragione, e ragionevolezza, ci troviamo a scontare oggi i limiti di certa pastorale del nostro tempo, laddove sembra aver perso di vista la dimensione razionale e culturale, e di lì essersi votata alla riduzione dell’annuncio a un messaggio morale, o, peggio, moraleggiante, e all’investimento di un piano meramente emozionale del vissuto di fede.

Sul piano dei contenuti, poi, menzioneremo tra gli apporti più originali dell’Aquinate alla riflessione filosofico-teologica, l’epocale distinzione di essenza ed esistenza, che apre a una migliore comprensione metafisica della realtà creata, insieme al consolidamento della bontà della natura tramite la più rigorosa deduzione delle proprietà trascendentali dell’essere nella notissima prima Quaestio De Veritate.

Sotto tale aspetto, nel più limpido realismo naturalistico, la positività del finito e la stima della dimensione creaturale – già tematizzato da Agostino e più compiutamente rigorizzato da Tommaso – ci offre oggi la più solida indicazione su come concepire la cura dell’ambiente naturale, trattenendoci tanto dalla sua riduzione a risorsa da assorbire per soddisfare l’edonismo consumistico del nostro tempo, quanto dalla sua ecologistica elevazione fuori e contro l’umano, permettendo di chiarire a noi stessi il significato dei recenti sviluppi del magistero ambientale della Chiesa e della nozione di ecologia integrale, indirizzata – per via mediata – alla cura e tutela della salute e qualità della vita dell’uomo.

E di qui va considerata l’ampiezza data all’elaborazione dell’antropologia, nella visione integrata della profonda unità di anima e corpo, e dell’ambito dell’agire morale nei suoi principi e nella complessa articolazione delle virtù, in vista della costruzione del vivere sociale e del bene comune.

Ancora meritano di essere ricordate le splendide pagine di equilibratissima chiarificazione dei rapporti tra natura e grazia, la cui sola comprensione approfondita e adeguatamente ponderata avrebbe evitato tante controversie che in età moderna lacerarono il corpo della Chiesa, e la messa a punto della dottrina della transustanziazione, guadagnata non senza un sensibile adattamento della teoria aristotelica del rapporto sostanza – accidenti, e ancora una volta in risposta all’urgere epocale di una solida comprensione della presenza reale, a seguito della crisi del simbolismo e realismo eucaristici dell’VIII e IX secolo, che si era trascinata fino all’istituzione della festa del Corpus Domini a Liegi nel 1246 e alla sua successiva estensione alla Chiesa universale con Urbano IV, a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena nel 1263.

A riguardo del Corpus Domini, si attribuisce a Tommaso la composizione del relativo Ufficio, mirabile sintesi di spiritualità e teologia, e con esso dei più noti inni eucaristici.

Per questi e molti altri motivi, sin dal 1317 gli fu assegnato il titolo di «Doctor Communis Ecclesiae»[7], e ben nota è l’enciclica Aeterni Patris, con la quale Leone XIII esortava, nel 1879, «a rimettere in uso la sacra dottrina di San Tommaso e a propagarla il più largamente possibile, a tutela e ad onore della fede cattolica, per il bene della società, e ad incremento di tutte le scienze»[8].

E non si imputi alla riforma del Concilio Vaticano II l’accantonamento del pensiero dell’Aquinate. Il decreto conciliare sulla formazione sacerdotale Optatam totius espressamente dichiara: «per illustrare quanto più possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a vederne il nesso con un lavoro speculativo, avendo san Tommaso per maestro»[9].

Siamo nel 1965, e appena l’anno precedente Paolo VI aveva raccomandato: «[I docenti]… ascoltino con riverenza la voce dei Dottori della Chiesa, tra i quali il Santo Aquinate ha un posto preminente; è tanto grande infatti la forza dell’ingegno del Dottore Angelico, tanto sincero l’amore alla verità e la sapienza nell’investigare, spiegare e raggruppare secondo uno schema appropriato le verità più alte, che la sua dottrina è uno strumento efficacissimo, non solo per mettere al sicuro i fondamenti della Fede, ma anche per ricavare utilmente e fiduciosamente frutti di sano progresso»[10]. E lo stesso Paolo VI, dieci anni dopo designava l’Aquinate «guida autorevole e insostituibile degli studi filosofici e teologici»[11].

Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, ha poi ricordato che san Tommaso «è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia»[12] (n. 43).

Il 6 dicembre 1273, in una cappella oggi incorporata nella basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli, Tommaso vive un’esperienza mistica, un incontro col Cristo crocifisso, che così gli si rivolge: «Hai scritto bene di me, Tommaso. Quale ricompensa dunque riceverai?». E Tommaso risponde: «Nient’altro che Te, Signore!». In una tale risposta è condensato tutto: la ricompensa di una vita d’amore per Dio, in Tommaso espresso anche attraverso sì tanto e profondo sforzo di comprensione di intelligentia fidei, è Dio stesso.

In un istante, dinanzi all’abisso del Mistero, Tommaso intende l’inadeguatezza della sua speculazione teologica, ossia far conoscere e far amare Dio Trinità e la salvezza. “Tutto quello che ho scritto – esclamerà – è paglia!”.

Di questa dimensione contemplativa vissuta sono testimonianza gli inni eucaristici attribuiti a Tommaso, tra i quali spicca l’Adoro Te devote, sublime espressione di elevazione mistica, nel quale si addensano e sono ben riconoscibili i princìpi della teologia filosoficamente integrata di Tommaso, che da autentica intelligentia fidei si eleva con una sciolta naturalezza sino alle vette più alte della contemplazione. Un fatto importantissimo, questo: è l’animazione interiore di una fede non astrattamente o intellettualisticamente intesa, ma a servizio dell’adorazione. Una fede che è anche, sì, un certo sapere, quel sapere rivelato che colma la distanza infinita del Dio che si rende presente nel volto di Cristo, ma che è anche, insieme, affidamento e consegna. Una fede a misura di una Chiesa che spera, ama, evangelizza, e che allora esprime il sì credente rapportato a quello che Cristo desidera per la sua Chiesa.

In Maria – che è figura e modello della Chiesa e che è, quindi, la Chiesa – convergono la pietà e la preghiera personale tanto di Alberto che di Tommaso.

«O beatissima et dulcissima Virgo Maria, Mater Dei, omni pietate plenissima»: così esordisce un’estesa quanto intensa preghiera mariana attribuita a san Tommaso. «O beatissima e dolcissima Vergine Maria, Madre di Dio, ricolma di ogni pietà, io affido al tuo cuore misericordioso tutta la mia vita… Ottienimi, o mia dolcissima Signora, carità vera, con la quale possa amare con tutto il cuore il tuo santissimo Figlio e te, dopo di lui, sopra tutte le cose, e il prossimo in Dio e per Dio».

E alla Vergine Maria sant’Alberto Magno rimetteva tutto l’impegno dei suoi studi, facendo degli stessi un continuum di preghiera e di lode: “O santa Maria, o luce del cielo e della terra, come indica anche il tuo nome, di questa terra che hai rischiarato coi misteri del tuo Figlio, il Verbo divino; tu, che hai dato luce all’illuminato splendore degli angeli, concedimi un’intelligenza splendente, concetti giusti, scienza sicura, fede solida insieme a una parola che ti corrisponda e procuri la grazia a quanti mi ascoltano; una parola che sia di conferma alla fede, di edificazione della Santa Chiesa e di lode del nostro Signore Gesù Cristo, vostro Figlio. Che questa parola dica e ridica, divina Maria, che non cessi di ricolmare dei tesori della tua misericordia un peccatore qual io sono, e di manifestare per la mia bocca i prodigi della divina onnipotenza”.

 

[1] «Sanctissimus inter doctos et doctissimus inter sanctos», Paolo VI, Lett. Ap. Lumen Ecclesiae nel VII Centenario della morte di san Tommaso d’Aquino (20 novembre 1974), AAS 66 (1974), p. 701.

[2] Cfr. A. Amato, Gesù il Signore. Saggio di cristologia, EDB, Bologna 2003, p. 305.

[3] Su tale questione, cfr. A. Peratoner, Della stessa sostanza del Padre. Il Concilio di Nicea e il nostro Credo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2025, pp. 90-95.

[4] É. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 605-606, passim.

[5] Ivi, p. 604.

[6] Paolo VI, Lett. Ap. Lumen Ecclesiae, cit., 3.

[7] PIO PP. XI, Encicl. Studiorum DucemAAS 15, 1923, p. 314. Cfr. J.J. BERTHIER, Sanctus Thomas Aquinas «Doctor Communis» Ecclesiae, Romae 1914, p. 177.

[8] Leone XIII, Lett. Enc. Aeterni Patris (1879).

[9] Concilio Vaticano II, Decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 16.

[10] PAOLO VI, Discorso pronunciato nella Pont. Univ. degli Studi Gregoriana, 12 marzo 1964 – AAS 56 (1964), p. 365.

[11] Paolo VI, Discorso al Comitato promotore dell’“Index Thomisticus”, «L’Osservatore Romano», 20-21 maggio 1974.

[12] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et ratio, 43.

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