L'omelia del Patriarca alla Messa del Crisma del Giovedì Santo

“Oggi – in un contesto di vasta secolarizzazione – il prete, il diacono ed ogni battezzato deve pregare di più e studiare di più”

S. Messa del Crisma

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 17 aprile 2025)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

Cari confratelli del sacerdozio,

mi riferisco innanzitutto a voi e vi rivolgo uno speciale augurio per questa giornata; un saluto cordiale va ai nostri carissimi diaconi e ai fedeli oggi presenti. Il nostro sacerdozio ha senso se è a servizio della Chiesa e se è a servizio del sacerdozio comune – ossia universale – dei nostri fedeli, i quali sempre devono essere associati nel servizio ecclesiale.

Con questa celebrazione giunge a termine il tempo quaresimale durante il quale, insieme alle nostre comunità, ci siamo preparati alla Pasqua.

Ora abbiamo dinanzi il Triduo Pasquale: tre giorni che, per la liturgia della Chiesa, costituiscono un’unità. Sì, un tutt’uno di morte e risurrezione, tant’è che Gesù risorto, entrato nella gloria, continua a portare in sé i segni della passione. Il libro dell’Apocalisse così si esprime: ”…vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato” (Ap 5,6).

Come spunto scritturistico, per la nostra riflessione, prendiamo il richiamo cristologico ed ecclesiologico della seconda lettura: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli” (Ap 1,5-6).

Sì, la Chiesa è la comunità del Risorto, di Colui che ha vinto il peccato e la morte ma per noi, pellegrini sulla terra, comporta ancora il camminare lungo le strade del mondo, tra fatiche e tribolazioni, consolazioni e gioie, cadendo e risollevandoci, sostenuti non dalle mani degli uomini ma dallo Spirito Santo, dono pasquale del Risorto.

La costituzione dogmatica Lumen gentium ci ricorda: “…la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora, la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio” (Lumen gentium n. 48).

Queste parole ci riportano al Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia e al più ampio percorso del Sinodo della Chiesa universale. Siamo, pertanto, invitati a far nostre le parole – oggi attualissime – di san Pier Damiani, dottore della Chiesa, che visse come noi in un cambiamento d’epoca; era il secolo XI, quello – per intenderci – che precede il secolo in cui nacquero Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman.

Un bel testo di Pier Damiani ci aiuta a percorrere il Cammino sinodale e ci offre una migliore comprensione della Chiesa. Lo scritto, in forma di lettera, è una meditazione sulla Chiesa e ne evidenzia la realtà intima: la Chiesa è, indissolubilmente, comunione e sacramento.

Il riferimento è a Gesù Cristo e ai fratelli. Scrive Pier Damiani: “La Chiesa di Cristo è unita dal vincolo della carità a tal punto che, come è una in più membri, così è tutta intera misticamente nel singolo membro; cosicché l’intera Chiesa universale si denomina giustamente unica Sposa di Cristo al singolare, e ciascuna anima eletta, per il mistero sacramentale, viene considerata pienamente Chiesa”. Sì, Pier Damiani evidenzia: “…non solo che l’intera Chiesa universale sia unita, ma in ognuno di noi dovrebbe essere presente la Chiesa nella sua totalità. Così il servizio del singolo diventa espressione dell’universalità” (San Pier Damiani, Ep 28, 9-23). Universalità che è un altro modo di dire Cristo, perché la caratteristica è il tutto e il tutto qui non è una dimensione geometrica ma è il Cristo.

Oggi, in questo cambio d’epoca, è essenziale che la Chiesa non solo rimanga unita ma che, in ogni suo membro, viva la Chiesa nella sua totalità; così ogni discepolo va oltre il particolare ed è “espressione d’universalità” del Cristo totale, ossia di cattolicità.

Queste parole hanno un valore universale; valgono per la Chiesa di ogni tempo che, però, come ci insegna la storia, non di rado sceglie di dividersi. È una questione che interpella a fondo coloro che comprendono il valore della comunione ecclesiale: una Chiesa fondata, attraverso la testimonianza apostolica, sul Vangelo di Gesù. Ritorna il tema della comunione con i fratelli e con Cristo; la nostra pastorale ha questi riferimenti.

Non viviamo più – e lo sappiamo bene – in un contesto di cristianità e dobbiamo tirarne le conseguenze, sia a livello personale sia comunitario. E non possiamo fermarci ad un’esegesi che su questioni fondamentali – come pace, guerra, rispetto della vita, famiglia o matrimonio – vada a rimorchio del senso comune e di quello che viene definito il “politicamente corretto”.

Il linguaggio, infatti, è la cultura nella forma più personale; dietro a certe parole o sigle ci sta un’antropologia incompatibile con quella cristiana. Chiediamoci, quindi, dopo tante esegesi: la Parola di Dio rimane o non è più il criterio e il riferimento? La Parola di Dio è la persona stessa di Gesù e non un semplice libro.

Oggi – in un contesto di vasta secolarizzazione – il prete, il diacono ed ogni battezzato deve pregare di più e studiare di più; la cultura è l’aggancio con chi non ha fede. E bisogna saper discernere – come insegna il Papa – tra un cristianesimo genuino e uno mondanizzato che riduce tutto al buon senso comune del tempo. Non sottovalutiamo poi l’azione che potenti lobby e influencer hanno soprattutto sui nostri adolescenti, prima e dopo la cresima. Ho appena terminato la Visita pastorale e ripenso con vera gratitudine all’azione eroica delle nostre catechiste; non lasciamole sole!

Il Battesimo – con le sue promesse – è incompatibile con una visione “politicamente corretta” del mondo, incominciando dalla realtà antropologica: l’uomo, la donna, la famiglia, la vita, la morte. La parabola della vite e dei tralci che non possono separarsi dalla vite (Gesù) è un’immagine viva – assolutamente non consolatoria o disincarnata dall’antropologia che nasce dalla creazione – da meditare di continuo con le nostre comunità (cfr. Gv 15,1-8); Gesù, nella sua persona, nel suo vivere e nel suo morire, è la Parola di Dio. Questa è la visione di fede!

Le seguenti parole, scritte ormai quarant’anni fa da Wolfgang Beinert, sono attuali più che mai. “Oggi – scrive Beinert – il destinatario della predicazione ecclesiale è in linea normale l’uomo secolarizzato. Anche quando egli è nominalmente cristiano, di solito non si ispira più, nella sua condotta, a modelli cristiani. Non si tratta quindi di apportare delle correzioni di tiro alla sua presunta spiritualità cristiana per renderla più genuina e più cristiana, ma semplicemente di infondergli tale spiritualità” (W. Beinert, Il culto di Maria oggi. Teologia, liturgia, pastorale, Edizioni Paoline, 1987, p. 15). Sì, si tratta di infondere tale spiritualità!

Come riferimento biblico possiamo riprendere un testo di Marco – l’invito a non mettere pezze nuove su un vestito logoro (cfr. Mc 2,21) – ed anche le prime parole di Gesù che lo stesso evangelista ci consegna all’inizio del suo Vangelo, ovvero il richiamo alla conversione (cfr. Mc 1,15).

Romano Guardini, poi, ci ricorda che la conversione non è mai solo un fatto morale; si fa poca strada col moralismo che, se è il fondamento ultimo di tutto, allora conduce prima o poi, all’autoassoluzione; la conversione – ribadisce questo grande teologo – è un fatto intellettuale, spirituale ed anche morale (cfr. Romano Guardini, I Novissimi, Vita e pensiero 1951, pp.11,40,67).

Nel corso della sua storia, la Chiesa comprende molto presto che il cristiano battezzato rimane fragile e chiederà perciò la conversione e il sacramento della Penitenza che, proprio nella Chiesa antica, è denominato “secondo Battesimo” o “Battesimo delle lacrime”, poiché prevede un cammino penitenziale anche doloroso. Chiediamoci: come valorizziamo e celebriamo questo sacramento?

Tutti portiamo, in noi e nelle nostre comunità, il desiderio di testimoniare Gesù con carità e verità, mettendoci nei panni degli altri, senza giudicare e, nello stesso tempo, senza cadere nel “politicamente corretto”. Forse può essere utile tornare a rileggere, nel Vangelo di san Giovanni, il dialogo fra Gesù e la donna samaritana (cfr. Gv 4, 4-42)

La storia ci dice come la Chiesa abbia attraversato molti cambi d’epoca (non siamo gli unici a viverlo!), venendone sempre a capo, anche se non sempre nel modo migliore e di certo, nel futuro, ne attraverserà ancora. Nel IV secolo Ario ed Atanasio hanno risposto in modo opposto, dividendo la Chiesa, alla domanda: chi è il Logos/ il Verbo? Un secolo dopo – quando la crisi dell’Impero romano era oramai un fatto conclamato – Pelagio ed Agostino hanno risposto in modo opposto alla questione fondamentale: come ci si salva? È la questione della grazia. Poi, nel XVI secolo (inizio della modernità), Lutero, Calvino, Zwingli, Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola e Filippo Neri hanno risposto ancora in modo diverso a domande fondamentali circa la fede, la Chiesa e i sacramenti.

Unica è la Rivelazione di Dio, molti i modi d’intenderla: come la intendo io? Importante è ricordarsi: “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”, frase presente nell’enciclica Ad Petri Cathedram di Giovanni XXIII, nostro antico Patriarca.

Nella prefazione all’edizione italiana di un prezioso volume di Roger Schutz (Priore di Taizé) e Max Thurian, intitolato La parola viva al Concilio, De Lubac rassicura i fratelli riformati che il Magistero non si pone sopra la Scrittura e scrive: “Rispondiamo con Francesco di Sales, che secondo noi, non è la Scrittura ad aver bisogno di regole o di luce estranea, bensì le nostre glosse (ossia le nostre interpretazioni); noi – continua de Lubac – non poniamo un giudice tra Dio e noi, ma tra un uomo come Calvino e un altro come Tommaso Moro” (R. Schutz, M. Thurian, La parola viva nel Concilio, Morcelliana Brescia 1967, p.11).

Essere Chiesa in comunione con le altre Chiese, rendendo così presente l’unica Chiesa universale, vuol dire percorrere insieme il Cammino sinodale seguendo Gesù, Maestro e Signore.

Ma chi è Gesù per noi? È questa la domanda fondamentale che Gesù stesso pone agli Apostoli e da cui dipendono tutte le altre domande e le relative risposte; non basta, infatti, porsi delle domande considerando le risposte irrilevanti. Non è vero che far domande è sinonimo d’intelligenza e libertà di spirito, mentre dare risposte indica rigidità mentale ed insicurezza. Le cose, nonostante taluni indirizzi psico-pedagogici, non stanno così; ogni nostra domanda, infatti, è l’esito di risposte che, più o meno consapevolmente, portiamo dentro di noi.

Così il sacerdote sa che una vera preparazione al ministero richiede studio serio, secondo le proprie doti, e preghiera prolungata; non si può, infatti, parlare di Dio senza essersi intrattenuti a lungo con Lui. E, infine, serve una vita austera – anche di penitenza – poiché solo un cuore libero dal proprio io, e non gravato da interessi personali, può annunciare in libertà e verità e, quindi, in carità la Parola di Dio.

Concludo con un’altra riflessione di Henry de Lubac tratta da “Meditazione sulla Chiesa”, un testo a cui dobbiamo continuamente ritornare per ritrovare le motivazioni di una fede che sia realmente cristiana ed ecclesiale e non una sorta di “fai da te”.

“Io credo”, infatti, non può prescindere dal “noi crediamo” della Chiesa, perché la fede cattolica cristiana è questa: dentro il “noi crediamo” della Chiesa c’è l’ “io credo”. E poi c’è la convinzione che il discepolo non può essere più del suo Maestro (cfr. Mt 10,24) e che la parola di Dio non è circoscritta al momento storico in cui è stata proferita, pena il suo decadere ad una delle tante parole umane. La parola di Dio è Colui che ha dato la vita per me.

Se il mondo perdesse la Chiesa – scrive de Lubac –, perderebbe la redenzione. Il Nuovo Testamento ha fondato la Chiesa affidandole l’eredità di Israele e anche il “Testamento ultimo”. La Chiesa non è, come la legge, un pedagogo necessario all’adolescenza ma superfluo per l’età matura… ha la stessa durata del tempo, e quindi noi abbiamo in essa non un annuncio soltanto, una preparazione… ma tutto l’avvento del Figlio dell’uomo (cfr. Gv 14,7-9)… Chi volesse scuotere la Chiesa come un giogo o volesse eliminarla, come un intermediario ingombrante, ben presto non abbraccerebbe più che il vuoto o finirebbe per abbandonarsi ai falsi dei…” (Henry de Lubac, Meditazioni sulla Chiesa, Jaka Book 1979, pp. 136-137).

È un pensiero molto attuale, oggi, in cui siamo impegnati a riscoprire la realtà sinodale della Chiesa come dialogo nello Spirito per cui non si vuole affermare il proprio personale punto di vista con le proprie sensibilità, piantando la propria bandierina o quella del proprio gruppo ma, piuttosto, s’intende essere semplicemente – nella preghiera e nella penitenza – voce dello Spirito dal quale incessantemente, per volontà del Padre, in Cristo, cresce la Chiesa.

Ed è ciò che confessiamo, ogni domenica, con le nostre comunità, quando professiamo la fede “nella” Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica. Davvero, con De Lubac – un teologo che ha anche molto sofferto per incomprensioni ecclesiali – diciamo: “Se il mondo perdesse la Chiesa, perderebbe la redenzione”.

In questa celebrazione del Crisma ogni presbitero è chiamato a rinnovare le promesse sacerdotali e, insieme, come presbiterio – vescovo e presbiteri – confermiamo la nostra appartenenza alla Chiesa, ossia la nostra comunione con Gesù, eterno Sacerdote.

Continuiamo a pregare per Papa Francesco, di cui vediamo i segni di una ripresa tangibile e ringraziamo per questo il Signore. Appena un anno fa lo abbiamo accolto a Venezia celebrando con lui l’Eucaristia qui in Piazza San Marco.

Affidiamo, infine, il nostro presbiterio e soprattutto il nostro Seminario – comune ricchezza della nostra Chiesa particolare – all’amatissima Madonna della Salute.

Aiutiamo le nostre comunità e chiediamo il loro aiuto; tutti, infatti, senza eccezioni, abbiamo bisogno gli uni degli altri e d’immergerci insieme, con speranza e come ci chiede il Giubileo, in Gesù il Risorto. Buona Pasqua!

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