Intervento del Patriarca ad introduzione della quinta serata del ciclo organizzato dalla Biennale di Venezia per il Progetto Speciale dell’Archivio Storico “Expositio Sancti Evangelii secundum Johannem” (Commento al Vangelo di Giovanni) del teologo e mistico domenicano Johannes Eckhart (Venezia / Scuola Grande di San Marco, 9 marzo 2025)

Quinta serata del ciclo organizzato dalla Biennale di Venezia per il Progetto Speciale dell’Archivio Storico “Expositio Sancti Evangelii secundum Johannem” (Commento al Vangelo di Giovanni) del teologo e mistico domenicano Johannes Eckhart

(Venezia / Scuola Grande di San Marco, 9 marzo 2025)

Intervento introduttivo del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia “Meister Eckhart – Commento al Vangelo di Giovanni. Anima e corpo”

 

 

È mercoledì 6 dicembre 1273 in una cappella oggi incorporata nella basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli. Tommaso d’Aquino, il teologo che più di altri ha valorizzato il rapporto fede/ragione, vive un’esperienza mistica: un incontro col Cristo crocifisso. «Hai scritto bene di me, Tommaso. Quale ricompensa dunque riceverai?». E Tommaso risponde: «Nient’altro che Te, Signore!».

Tommaso d’Aquino e Maestro Eckhart – tutti e due figli di san Domenico – esprimono due modi diversi di far teologia. Alla fine l’esperienza mistica li unirà.

In un solo istante, dinanzi all’abisso del Mistero, Tommaso intende l’inadeguatezza della sua speculazione teologica, ossia far conoscere e amare Dio. Ed esclama: “Tutto quello che ho scritto è paglia!”.

Tale esperienza mistica portò Tommaso oltre l’intelligenza della fede, non ripudiando però quanto aveva scritto. Le parole del Crocifisso sono chiare. Gesù, infatti, non avrebbe detto “Hai scritto bene di me, Tommaso” se l’esperienza mistica fosse stata in contrasto con la sua teologia.

La mistica cristiana non è astratta e non risponde a logiche estranee al corpo; anzi, per il cristiano, nulla è più reale dell’esperienza mistica.

San Benedetto da Norcia – il patriarca del monachesimo occidentale – conosce, tra gli altri, due tipi di monaci: quelli che vivono nel cenobio (in comunità) e quelli che vivono nell’eremo (in solitudine). Anche nel monachesimo, oltre che nella teologia, si danno perciò modi diversi di incontrare Dio.

Maestro Eckhart fu un grande mistico, ma ebbe pure le competenze del grande teologo. Solo lui e Tommaso per due volte furono invitati all’università di Parigi come Magistri. La mistica di Eckhart suppone, quindi, una teologia e anche un’esegesi dotta, come attesta il Commento al Vangelo di Giovanni, provvidenzialmente messo a tema in una riflessione che va al di là di quel tempo e penetra gli uomini di ogni generazione. Modi diversi di relazionarsi a Dio che, però, entrambi muovono dall’empirico che ne costituisce la solida base di partenza: la scala che sale al Cielo.

Eckhart si serve del pensiero neoplatonico mediato dall’agostinismo e il suo cammino si caratterizza per un perseguito e insistito distacco dal corpo e da ogni legame con la vita terrena; si pone, appunto, come teologia mistica apofatica, ossia negativa, per cui non si può dire nulla di positivo su Dio. Così il Maestro renano considera il mistero di Dio soprattutto oltre le capacità della ragione, nella tensione tra anima e corpo, dove l’anima deve distaccarsi dal corpo e dove l’anima deve raggiungere quel fondo che è l’abisso, in cui Dio guarda l’anima e l’anima guarda Dio nell’unità.

Come domenicano, Eckhart certamente non ignora gli strumenti teorici dell’aristotelismo; conosce i grandi maestri dell’ordine – Alberto Magno e Tommaso d’Aquino – e la dottrina filosofica dell’analogia entis, perfezionata proprio da Tommaso e con cui si coglie e distingue l’essere.

Ma Eckhart mette in questione un dire su Dio a partire dall’essere, rifacendosi a quelle frasi del Vangelo di Giovanni in cui Dio dice: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). Il Verbo, ossia il logos, l’intelligenza, il senso. E Gesù, nei testi della Passione, dirà: “Io sono la verità” (Gv 14,6).

La rivelazione cristiana non afferma, ci dice Maestro Eckhart, “Io sono l’ente”. Ma afferma piuttosto: “Io sono il logos, io sono la verità”.

Di Eckhart non si può fare il teorico di una mistica che disgrega i rapporti natura /grazia in una prospettiva accessoria del corporeo e dell’unità ilemorfica della persona; la sua, piuttosto, è una riflessione teologico-spirituale radicata nel pensiero cristiano e nel solco platonico-agostiniano.

Così egli interpreta lo spirito umano in rapporto a Dio inteso come Spirito, come riferimento principe. Egli ne enumera le diverse accezioni e scrive: «[citando Isidoro di Siviglia] “si chiama spirito l’anima dell’uomo, come in Gv 19,30: ‘chinato il capo, rese lo spirito’”». E subito dopo propone altri due significati – lo “spirito degli animali” e il “soffio del vento” – concludendo: «Tuttavia in senso proprio, in sé e principalmente, spirito va inteso come Dio, nel senso in cui qui si dice: “Dio è spirito”. Per tutti gli altri casi la parola spirito si usa in quanto essi hanno il sapore e partecipano della proprietà – sapiunt et participant proprietatem – di Dio stesso. Ciò è chiaro nel Liber de causis (commento alla prop. 2425), dove le tre cose, “spirito”, “uno o unità” ed “eternità”, sono intese come un’unica cosa, in opposizione a corpo, moltitudine e tempo, che ne rappresentano il contrario» (Commento al Vangelo di Giovanni, IV, 376).

Il corpo è in opposizione allo spirito non tanto per una visione dualistica della persona, ma per la naturale contrarietà dello spirito – che ha la sua piena realizzazione in Dio – nei confronti del carattere molteplice e sottoposto al divenire del mondo corporeo che costituisce la condizione creaturale di oggi, del nostro contesto storico e di ciò che – con un termine ormai desueto – definiamo natura.

Tale opposizione si riferisce ad una natura ferita, ad una corporeità alienata rispetto ad una creaturalità integra, inizialmente concepita da Dio e che ora, invece, si pone come filtro che distorce l’esperienza.

Commentando le parole di Gesù – «È bene per voi che me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore» (Gv 16,7) – Eckhart osserva: «L’amore dell’umanità e la presenza corporea frenava la sincerità dell’amore per la divinità, e questo è simboleggiato… nel cieco che, toltosi il fango da gli occhi, “ritornò vedendo” (Gv 9,7)».

Il corpo è considerato – platonicamente, neoplatonicamente e agostinianamente – “incrostazione” dei sensi spirituali, e quindi dell’anima stessa che ne attende perciò la rimozione per acquisire la limpida visione di Dio. Così poco dopo aggiunge: «L’anima separata, per la naturale inclinazione che prova verso il corpo, secondo le parole di Agostino, viene impedita di godere pienamente della contemplazione di Dio, prima della resurrezione» (XVI, 655).

Ma in Eckhart rimane presente la concezione ilemorfica (materia/ forma) che per Tommaso è prezioso strumento per comprendere l’unità di anima e corpo, tanto che Eckhart propone un’altra metafisica che potremmo definire dell’intelletto e della spiritualità (e che apre alla modernità).

Commentando il Prologo di Giovanni – alle parole «era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9) – scrive infatti: «In quanto forma sostanziale del corpo, l’anima è immediatamente presente con tutta sé stessa a ciascuna delle membra, e così dà ad ognuna l’essere e la vita. […] e dato che vivere ed essere sono luce, è certo che l’anima illumina con la sua essenza, per la quale essa è forma e in qualche modo luce, ogni parte del corpo e tutto ciò che, sotto questa forma e in questo corpo, viene in questo mondo del corpo animato» (I, 93).

Tutto ciò ritorna, considerando il duplice senso della Scrittura, quando Eckhart scrive: «In Cristo stesso c’è il Verbo nascosto sotto la carne, e in noi l’anima o lo spirito nascosto nel corpo» (VIII, 433).

Ritorniamo a Benedetto: il monaco, oltre la vita cenobitica, può giungere alla contemplazione nell’eremo, supponendo e non disprezzando la vita cenobitica. Così Tommaso – in quella visione del 6 dicembre 1273 – non nega lo studio della teologia ma va oltre; ne coglie la piccolezza di fronte al mistico affacciarsi sull’abisso del Mistero di Dio. In Eckhart, infine, anima e corpo non si fermano al dualismo antropologico perché la mistica del Maestro renano intende superare un orizzonte sotteso che ne rimane evoluzione esperienziale di crescente intensità.

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