Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario del Tribunale Ecclesiastico Regionale Triveneto (Zelarino / Centro pastorale Card. Urbani, 10 febbraio 2025)

S. Messa in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario del Tribunale Ecclesiastico Regionale Triveneto

(Zelarino / Centro pastorale Card. Urbani, 10 febbraio 2025)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Saluto e ringrazio tutti Voi che, quotidianamente, svolgete uno specifico servizio a favore del Tribunale Ecclesiastico Regionale Triveneto che rappresenta, per le nostre Chiese, un importante segmento della pastorale familiare e del sacramento del Matrimonio.

Saluto il Vescovo Moderatore mons. Pierantonio Pavanello che viene proprio dalle vostre fila e, quindi, unisce in sé autorevolezza e competenza. Insieme a lui, saluto anche gli altri Vescovi oggi presenti.

Un ringraziamento speciale rivolgo a mons. Adolfo Zambon che, per lungo tempo e con cura, ha svolto il compito di Vicario giudiziale. Grazie, infine, all’attuale Vicario giudiziale mons. Tiziano Vanzetto per l’opera attenta che ha intrapreso da alcuni mesi nel suo nuovo ruolo e in costante collegamento con la nostra Conferenza Episcopale.

Celebriamo la S. Messa in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario del nostro Tribunale nel giorno in cui la Chiesa ricorda santa Scolastica, la sorella gemella di san Benedetto che fu legata a lui non solo da questa speciale parentela ma anche e soprattutto nello spirito.

Tutti conosciamo, perché è entrato a far parte dell’Ufficio delle letture, quel passo che la riguarda dei Dialoghi di san Gregorio Magno – primo agiografo di san Benedetto – il quale oltre a delineare la figura spirituale di Benedetto ha anche, di volta in volta, descritto i soggetti che entravano in dialogo con lui e, quindi, anche l’incontro con la sorella.

Nei Dialoghi c’è una frase che sintetizza la personalità volitiva, forte e tutta protesa verso il Signore di Scolastica. Si dice infatti che ”poté di più colei che amò di più”.

L’episodio raccontato avviene verosimilmente alcuni giorni prima del 10 febbraio, giorno della morte di Scolastica. Benedetto e Scolastica avevano la consuetudine di incontrarsi un giorno all’anno per poter parlare di temi spirituali. Ma quel giorno il dialogo si protrae più a lungo e, arrivata la sera e consumato il pranzo, Benedetto fa per alzarsi e ritornare al monastero. A quel punto “la pia sorella perciò lo supplicò, dicendo: «Ti prego, non mi lasciare per questa notte, ma parliamo fino al mattino delle gioie della vita celeste». Egli le rispose: «Che cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero». Scolastica, udito il diniego del fratello, poggiò le mani con le dita intrecciate sulla tavola e piegò la testa sulle mani per pregare il Signore onnipotente. Quando levò il capo dalla mensa, scoppiò un tale uragano con lampi e tuoni e rovescio di pioggia, che né il venerabile Benedetto, né i monaci che l’accompagnavano, poterono metter piede fuori dalla soglia dell’abitazione, dove stavano seduti”.

Quel cambio atmosferico così repentino costrinse Benedetto e i monaci che lo accompagnavano a rimanere lì, non potendo più uscire. E, quindi, quello che non concesse Benedetto fu concesso da Dio a Scolastica. Gregorio Magno commenta: “Non fa meraviglia che Scolastica abbia avuto più potere del fratello. Siccome, secondo la parola di Giovanni, «Dio è amore», fu molto giusto che potesse di più colei che più amò”.

La prima lettura di oggi (cfr. Gen 1,1-19) parla della creazione; Dio crea e nella sua creatura più alta – l’uomo e la donna – pone una fiamma della Sua presenza che è la libertà ed è la coscienza. Oggi, con voi, vorrei soffermarmi proprio sul tema della coscienza, un tema fondamentale per ogni uomo ma che assume un valore particolarissimo per chi è chiamato – con un compito particolare e proprio – a far sì che il giudizio si costituisca, in tutti i suoi momenti, secondo verità e giustizia. E un operatore della giustizia, a qualunque livello si muova, è tenuto a formarsi una coscienza retta e vera.

La prima cosa necessaria per costituire una coscienza retta e vera è la preghiera. Per questo iniziamo e, quindi, inauguriamo questo nuovo anno giudiziario con una celebrazione eucaristica in cui chi è chiamato a giudicare si ritrova davanti all’altare del Signore e chiede aiuto per poter avere una coscienza capace di un giudizio vero.

Non basta essere coscienti, bisogna anche avere una coscienza. Concretamente vuol dire che esiste il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia; questa è la prima percezione da avere.

Seconda cosa: bisogna sempre considerare e aver presente, nel giudizio, la persona concreta e la sua storia perché la persona è il termine a cui dobbiamo guardare.

Terza cosa: esiste il senso del dovere e questo vuol dire, in concreto, che il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, mi impegnano.

La coscienza, poi, come sappiamo, è maestra ma è anche discepola ed è la bussola nella via di una persona. Ricordiamo, allora, che esistono buoni maestri e cattivi maestri, che esistono buoni discepoli e cattivi discepoli. E una bussola, per funzionare bene, deve essere tarata a partire dal Nord.

Ciò vuol dire che la coscienza, certamente, educa ma va anche educata, soprattutto da parte di chi è chiamato a ricostruire la verità dei fatti. La coscienza retta, vera e sincera, per chi è chiamato a cooperare (a qualunque livello) a formare il giudizio in un ambito così delicato come quello sacramentale, è qualcosa di fondamentale per la comunità ecclesiale. La coscienza, quindi, va continuamente e di nuovo educata.

Il vero giudizio, in tal modo, comporta il giudizio dell’intelligenza e della libertà del cuore perché ognuno di noi è schiavo dei suoi pregiudizi, è schiavo del suo carattere, è schiavo delle sue simpatie e antipatie. Il giudizio del giudice, perciò, deve essere intellettuale ed insieme morale.

Ogni uomo, ma in particolare l’operatore della giustizia, è responsabile dell’educazione della propria coscienza. Si è, così, responsabili dinanzi alla propria coscienza ma anche della propria coscienza; in altre parole, dobbiamo non ascoltare semplicemente la nostra coscienza ma dobbiamo ascoltarla ponendoci sulle orme della verità che sempre va ricercata, perché la coscienza non crea la verità ma è eco della verità.

Soprattutto per chi opera nella giustizia, non basta cogliere le ispirazioni della propria coscienza ma bisogna verificarle e far risuonare in essa la verità sapendo di essere chiamati a cooperare a qualcosa di cui gli uomini e la comunità hanno assoluto bisogno, ossia la verità, il bene e la giustizia.

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