Omelia del Patriarca nella S. Messa per l’apertura diocesana dell’Anno giubilare (Venezia, 29 dicembre 2024)

S. Messa per l’apertura diocesana dell’Anno giubilare

(Venezia, 29 dicembre 2024)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo raggiunto in pellegrinaggio la chiesa cattedrale, cuore della Chiesa che è in Venezia, dopo aver compiuto un breve ma significativo pellegrinaggio che ci ha condotti dalla chiesa di San Zaccaria alla basilica dell’evangelista e martire Marco; questo pellegrinaggio è stata l’antifona dei tanti pellegrinaggi che segneranno la nostra Chiesa veneziana in questo anno di grazia.

San Zaccaria e san Marco sono due santi che bene ci introducono in questo cammino giubilare nel segno della speranza. Col primo, Zaccaria, si conclude l’attesa che si dischiude nel canto di gioia per la nascita di Giovanni Battista, il precursore, Colui che indicherà fisicamente presente Gesù in mezzo al suo popolo; il secondo, Marco, invece, fa risuonare l’evento Gesù, la Buona Notizia, con il suo Vangelo che inaugura questo stile d’annuncio ecclesiale.

Abbiamo camminato insieme, cari fratelli e sorelle, come quei “pellegrini di speranza” che Papa Francesco richiama all’inizio della bolla di indizione dell’Anno giubilare e inaugurando così i pellegrinaggi nella nostra Chiesa diocesana. “Per tutti possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza»” (Papa Francesco, Bolla di indizione dell’Anno giubilare “Spes non confundit”, n.1).

L’augurio, per questo Anno giubilare, è che incontriamo più profondamente e in modo nuovo il Signore Gesù.

Sì, siamo pellegrini di speranza che vogliono riconfermare il desiderio e la volontà di aggrapparsi – come ancora scrive il Santo Padre – “alla speranza che non tramonta, quella in Dio” sapendo che Lui è “un’àncora sicura e salda per la nostra vita” (Eb 6,19), come dice la lettera agli Ebrei, e cogliendo l’invito che viene dal Giubileo “a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio” (Papa Francesco, Bolla di indizione dell’Anno giubilare “Spes non confundit”, n.25).

Siamo pellegrini di speranza, come lo fu anche la Santa Famiglia secondo l’odierno Vangelo (Lc 2,41-52) in cui ci è detto che “ogni anno” Giuseppe e Maria, i genitori di Gesù, si recavano a Gerusalemme, al Tempio, per la festa di Pasqua per adempiere quanto richiedeva la Torà che prescrive, appunto, di recarsi in pellegrinaggio al Tempio in occasione delle grandi feste (Pasqua, Settimane, Capanne). Sono, appunto, le tre feste del pellegrinaggio affinché Israele non si dimentichi di vivere perennemente l’esodo.

Tutto questo ci introduce al senso autentico del pellegrinaggio. L’invito a recarsi più volte nell’anno al Tempio era, per il popolo d’Israele, il richiamo a non fermarsi, ad andare oltre se stessi e continuare ad essere sempre in cammino verso Dio, come popolo dell’Alleanza, verso una più grande conoscenza (che è amore) di Lui ed una maggiore consapevolezza della propria identità di popolo che gli appartiene.

La famiglia di Gesù e lo stesso Gesù vivevano una religiosità, ad un tempo, autentica e intensa, fatta di obbedienza e fedeltà quotidiana, personale e comunitaria. Nella Chiesa – lo ricordiamo – non c’è nulla di individuale perché la persona è relazione. L’Anno giubilare è riappropriarsi, in bene, della propria relazione con Dio e con i fratelli: ama Dio e ama il prossimo.

La risposta di Gesù, dodicenne, al Tempio, alla Madre angosciata non è una presa di distanza da Maria e Giuseppe; piuttosto è – e ciò vale anche per noi, con le dovute distinzioni – espressione della novità e della libertà del rapporto che unisce l’uomo a Dio – Gesù dodicenne al Padre – e che il bambino nato a Betlemme ha inaugurato e svelato. Se l’Anno Santo non realizzerà anche in noi questa “abitazione” presso Dio, allora, si tradurrà solo in una serie di gesti “esterni”.

L’episodio narrato nel Vangelo odierno ci dice che “la libertà di Gesù (…) è la libertà del Figlio e di colui che è veramente pio. Come Figlio, Gesù porta una nuova libertà, ma non quella di colui che è senza alcun legame, bensì la libertà di Colui che è totalmente unito alla volontà del Padre e che aiuta gli uomini a raggiungere la libertà dell’unione interiore con Dio” (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano 2012, pp.139-140).

È l’affermazione della divina figliolanza, di cui Gesù dodicenne mostra piena consapevolezza; nello stesso tempo è la libertà del Figlio che emerge in particolar modo nel fatto – sconcertante – narrato nel Vangelo di oggi e che sorprende e turba non poco Maria e Giuseppe.

Questo episodio è anche, per noi, un esame di coscienza. Che cosa chiediamo ai nostri adolescenti? Li scusiamo sempre o, invece, da loro pretendiamo troppo? Certe cose non le chiediamo illudendoci che poi le faranno o che è troppo presto? Gesù ha dodici anni ed è già limpido testimone di una comunione reale e particolarissima nei confronti di Dio.

Ogni azione pastorale deve iniziare da un rapporto personale del discepolo con Dio. Fare l’Anno Santo significa “abitare” in Dio, “traslocare” in Lui, vivere la relazione filiale con Dio.

Gesù non era con loro, non era nella “comitiva” della carovana di pellegrini che ritornava da Gerusalemme ed è interessante notare come qui l’evangelista Luca utilizzi il termine greco synodìa per indicare quella “comunità in cammino”. Quando viene ritrovato, dopo tre giorni, mentre conversava al Tempio con i “maestri”, la risposta di Gesù non è ribellione o insofferenza; rimanda, piuttosto, alla libertà più grande e piena di Colui che è il Figlio dell’eterno Padre e che in ciò rivela la sua missione fondamentale da cui viene la nostra salvezza.

“Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). Il Figlio deve ritrovarsi, cioè, “stare” e ”abitare” nelle cose del Padre; il suo posto – il nostro posto – è là dov’è la casa del Padre e nello stare con Lui, presso di Lui, perché è a Lui che il Figlio appartiene totalmente.

Gesù è sempre presso il Padre e, in tal modo, vuole ricondurre anche noi là dove è Lui. Pensiamo alle parole che rivolge all’uomo che incontra per strada e lo chiama “Maestro buono” e a cui Gesù risponde: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18), intendendo, così, richiamare quell’uomo all’unicità e all’origine che è il Padre, alla relazione fondamentale che rende “buoni”.

L’Anno Santo è conversione nella fede e, quindi, diventa anche vita nuova. Quest’Anno Santo che oggi si apre sia per noi l’anno della libertà dei figli di Dio. La nostra vera ricchezza non sono i nostri conti in banca o le nostre proprietà o il posto che ricopriamo, non sono queste le cose che ci realizzano; è godere di essere figli di Dio, sentirne la gioia intima.

Come avvenne anche per Giuseppe e per Maria, condotti da Gesù lungo un percorso non facile e non immediatamente comprensibile (“essi non compresero ciò che aveva detto loro”, annota il Vangelo – Lc 2,50), anche noi siamo sollecitati a compiere un cammino di crescita e maturazione di fede e di speranza.

Così è stato, in modo particolarissimo, anche per Maria, la Madre, che “custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51), perché quelle parole del Figlio erano talmente grandi da risultare anche per Lei incomprensibili e, perciò, bisognose d’essere custodite per arrivare alla loro comprensione piena. “Anche la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede”, insegna il Concilio (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, n. 58).

Torniamo così a dire quella parola che Gesù fa risuonare, nel Vangelo di Marco, all’inizio della sua predicazione: conversione (cfr. Mc 1,4). Dobbiamo, cioè, ragionare diversamente e non potremo farlo se non avremo un cuore più libero. Il nostro essere cristiani non dipende solo dalla ragione, dalla volontà, dalla nostra storia o sensibilità; dipende da tutto questo ma lasciando che il Signore ci prenda per mano, ci faccia alzare, ci renda pellegrini e ci porti – come la Santa Famiglia e il popolo d’Israele – là dove Egli abita.

A noi, piuttosto, capita di ridurre le parole di Gesù, di manipolarle secondo quanto ci sembra vero, buono e giusto, portandole al nostro livello, al livello della cultura dominante che poi è il politicamente corretto. Insomma, siamo tentati di “mondanizzare” la fede ed anche la Chiesa, rendendola un’organizzazione umana con finalità sociali in cui l’aggancio con l’unico Signore si riduce ad un ripiego in occasione di Gesù Cristo.

Dobbiamo, invece, avere la pazienza e l’umiltà – e qui entra in gioco la nostra conversione – di non “abbassare” le parole di Gesù e, piuttosto, di lasciarci condurre da esse, crescendo nella loro accoglienza. Come fece, appunto, la Vergine Maria che, anche in questo, è immagine vera della Chiesa che custodisce nel cuore le parole e gli avvenimenti del suo Signore in modo da poter vivere e trasmettere tutto con amore e fedelmente.

Abbiamo pellegrinato seguendo il Crocifisso e il libro della Parola di Dio e, allora, lasciamo un po’ da parte il buon senso degli uomini per impossessarci, per quanto possibile, della verità di Dio.

L’Anno Santo è opportunità di grazia data per compiere un itinerario spirituale di conversione e – come ci indica san Giovanni della Croce – di una progressiva purificazione per abbandonare ogni forma di attaccamento contraria alla volontà di bene che viene da Dio e per far sì che sia Lui il centro e il fine della nostra vita. C’è tanto da purificare in noi, in molti e diversi ambiti, per essere davvero liberi e poter alzare il nostro sguardo al cielo: c’è la purificazione dell’intelligenza, della volontà, della memoria, dello sguardo, della parola e delle varie forme di linguaggio, arrivando anche a riscoprire il valore del silenzio.

Ma cos’è la speranza cristiana? La speranza cristiana nasce e si fortifica nel cammino di purificazione, come ci insegna proprio san Giovanni della Croce, il doctor mysticus: “Questo infatti è l’ufficio [il compito] che compie la speranza nell’anima: quello di far sollevare gli occhi e guardare a Dio solo” (Notte oscura, Libro 2, 21,7). E ancora: “Pertanto quanto più la memoria si spoglia, tanto più acquista speranza; quanto maggior speranza possiede, tanto maggiore unione con Dio raggiunge, poiché, relativamente a Lui, quanto più essa spera, più ottiene” (Salita al Monte Carmelo, Libro 3, 7,2).

L’Anno Santo che stiamo aprendo sia, soprattutto, anno di grazia per farci crescere nella santità – ossia nella nostra realtà di figli, a partire dal Battesimo – ed aiutarci, così, a “stare” insieme presso il Padre e ad abitare “nel” Padre, come fu per Gesù, il Figlio Unigenito. E abitare così anche i luoghi di sofferenza e le periferie della nostra società, gli ospedali, le carceri, come pure i luoghi di lavoro e di divertimento e le scuole; per il cristiano nulla eccede l’umanità.

Ma chiediamoci, proprio oggi, inizio dell’Anno Santo: cos’è la santità? Ci viene in aiuto il santo cardinale John Henry Newman, una figura luminosa e travagliata. Nel suo famoso “discorso del biglietto” (il testo pronunciato in occasione della nomina a cardinale), Newman osservava: “Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l’assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo: la mia retta intenzione, l’assenza di scopi personali, il senso dell’obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa…”.

La santità, insomma, non si identifica con la perfezione di chi non ha mai sbagliato. Sì, è proprio così: “i santi non sono «caduti dal cielo». Sono uomini come noi, con problemi anche complicati. La santità non consiste nel non aver mai sbagliato, peccato. La santità cresce nella capacità di conversione, di pentimento, di disponibilità a ricominciare, e soprattutto nella capacità di riconciliazione e di perdono” (Benedetto XVI, Udienza generale del 31 gennaio 2007). Chiediamo il perdono e diamo il perdono: questo è un altro nome dell’Anno giubilare.

Così è stato per molti santi: pensiamo alla vita disordinata di sant’Agostino o anche ad una figura poco nota come Jacques Fesch (di cui è in corso il processo di beatificazione), un criminale francese del secolo scorso, reo di omicidio per aver ucciso un poliziotto, che si convertì in carcere e venne giustiziato alla ghigliottina. E ritorniamo ancora allo stesso cardinale Newman il quale ammetteva di avere tanti difetti e un brutto carattere e diceva anche che con lui non era facile vivere ma, nello stesso tempo, era pronto sempre a ripartire, a riconciliarsi, a “convertirsi” ossia – letteralmente – a cambiare la direzione del proprio cammino, superando anche le difficoltà e le sofferenze che, non di rado, si incontrano e che rappresentano le “croci” che ognuno deve affrontare.

“Ma Newman ha anche fornito la chiave per superare questi momenti: la fede nella presenza concreta di Dio. Chi ha fede in Lui, ha fede in una speranza che rende positiva anche la morte. Il santo è proprio colui che, in mezzo ai suoi errori e ai suoi difetti, non smette di avere fede: e con questa fede affronta di petto e con determinazione ogni situazione che gli si presenta davanti” (Andrea Gianelli e Andrea Tornielli, John Henry Newman. Fermate quel convertito, Milano 2010, p. 119).

Sì, davvero “Spes non confundit”, “la speranza non delude” (Rm 5,5). E, allora, come augura a tutti Papa Francesco, “possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza”, quella speranza che “nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce”, quella speranza che si riverbera “nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo. È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita” (Papa Francesco, Bolla di indizione dell’Anno giubilare “Spes non confundit”, nn. 1,3).

Vi consegno, infine, la bolla d’indizione del Giubileo: leggiamola e meditiamola personalmente, in piccole comunità e in gruppi più ampli. Vi affido anche il piccolo vademecum diocesano; in esso sono presentate le differenti opportunità per sostare nelle chiese giubilari e percorrere come pellegrini i percorsi che uniscono una chiesa all’altra, modellati sulle diverse possibilità delle età e delle persone; ci sono poi i luoghi di carità dove compiere opere di misericordia come visitare i malati, i carcerati ecc.

Le condizioni sono quelle richieste dalla Chiesa: proclamare la propria fede in Gesù crocifisso, morto e risorto, recitare il Credo, pregare l’orazione che ci ha insegnato – il Padre Nostro – e ricordare le intenzioni del Santo Padre. Tali pratiche richiedono la condizione senza della quale tutto rimane una vuota parola, ossia la volontà di distaccarsi da ogni forma – anche lieve – di male.

Con l’aiuto di Dio, pregando gli uni per gli altri, sentendoci un popolo che cammina dietro il Crocifisso e ascolta la Parola di Dio, sono convinto che questa grazia la otterremo per noi e per gli altri dalla Vergine Santissima, la donna forte e coraggiosa che è ai piedi della croce.

“Spes non confundit”: questa speranza ha un solo nome che è Cristo Gesù, la nostra unica speranza. Buon Anno Santo a tutti!

 

 

 

 

 

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