Omelia del Patriarca nella S. Messa durante la Visita “ad limina” con i Vescovi del Triveneto (Roma / Basilica S. Paolo fuori le Mura, 9 febbraio 2024)

S. Messa durante la Visita “ad limina” con i Vescovi del Triveneto (Roma / Basilica S. Paolo fuori le Mura, 9 febbraio 2024)

Omelia del Patriarca e Presidente della Conferenza Episcopale Triveneto Francesco Moraglia

 

 

Sorelle e fratelli carissimi,

è un momento di gioia poter completare questa settimana di Visita “ad limina” celebrando insieme l’Eucarestia e celebrarla in questo luogo simbolo e che ci riporta all’apostolo Paolo il quale, nella sua vicenda storica, ci dice bene che cosa è la fede.

La fede – il dono della fede – è l’inizio della relazione personale con Dio e noi non possiamo dimenticare che, per Paolo, il dono della fede nasce dal sangue e dalla preghiera di Stefano. L’apostolo Paolo, però, ci dice anche qualcosa sulla responsabilità della fede, sull’annuncio della fede.

Paolo VI ci ricordava che una comunità è evangelizzata nel momento in cui inizia ad evangelizzare e sente il bisogno di evangelizzare. Per noi pastori, poi, la fede è aver cura della porzione del gregge di Dio che ci è stata affidata.

In Paolo la fede è sempre incontro con il Signore, è incontro personale con Cristo – “io credo” -, ma in lui troviamo anche la dimensione ecclesiale della fede. Pensiamo alla voce che gli viene rivolta lungo la strada per Damasco: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9,4).

La fede non è un approfondimento intellettuale; è un condividere un modo di vivere la salvezza. L’agnosticismo – che non è ateismo – non solo lascia inevasa la domanda su Dio ma anche la domanda sull’uomo. La fede risponde, invece, alle domande: chi sono io, cosa è il bene, cosa è il male, da dove vengo, dove vado? Ci aiuta a rispondere alla domanda antropologica fondamentale sul senso della vita; l’uomo agnostico, alla fine, non sa chi è.

“Io credo”, “noi crediamo”: solo dando spazio a queste due dimensioni dell’atto di fede noi viviamo la fede di Gesù, la fede secondo Gesù. Il credente non è mai un battitore libero, magari più intelligente, più colto degli altri o più capace di relazionarsi agli altri; il credente vive con gli altri, crede con gli altri e grazie agli altri perché la fede l’ha ricevuta, crede per gli altri.

Possiamo anche dire che le vie del Signore sono infinite. Il libro di Rut, nell’Antico Testamento, ci dice che Rut giunge alla fede attraverso un atto di carità – il non lasciare la suocera – ed entrerà a far parte della genealogia di Davide, quella genealogia che – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura di oggi (1Re 11,29-32), si interrompe con Geroboamo il quale diventa, per eccellenza, il re negativo; seguire i pensieri di Geroboamo, le strade di Geroboamo, diventerà nell’Antico Testamento sinonimo di essere colui che disattende l’Alleanza.

La fede è fatta di fedeltà, di dono, di gioia e ci sono tante pagine di san Paolo in cui vediamo come tutti questi elementi appartengano alla vita del credente, alla vita della comunità credente: “…riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, a voi è stata data la grazia non solo di credere ma anche la grazia di soffrire per il Vangelo” (Fil 1,29).

Soffrire per il Vangelo e gioire per il Vangelo vuol dire essere veramente credenti e la struttura del sacramento che ci rende veramente Chiesa – il Battesimo – è, secondo la testimonianza esplicita di Marco, una fede che domanda il segno sacramentale e che vive la realtà sacramentale: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16).

Come operai ed operaie della vigna del Signore sentiamo la gioia di questa celebrazione eucaristica in cui l’essere Chiesa è legato al nostro impegno, al nostro sì, alla nostra fede, alla nostra speranza, alla nostra carità, ma nasce soprattutto dal sentirci tralci dell’unica vite; l’unica vite è la vita di Gesù e la Chiesa è proprio rendere visibile la Sua vita.

Il Vangelo di oggi (Mc 7,31-37), infine, ci suggerisce di iniziare laddove il contesto è meno favorevole. Tiro, Sidone, la pagana Galilea, la Decapoli: i luoghi più “lontani” sono proprio quelli in cui Gesù inizia a compiere i gesti più impegnativi del Regno di Dio e poi chiede il silenzio; noi siamo molte volte alla ricerca dei gesti – e a ragione perché i gesti parlano – ma questo Vangelo ci ricorda che la vera energia è il Signore Gesù che va coltivato e assunto come criterio di vita.

È quel kerigma che dobbiamo ritrovare in ogni nostra parola, in ogni nostro gesto, in ogni nostra scelta ecclesiale.

09/02/2024
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