Omelia del Patriarca nella S. Messa per la celebrazione d’apertura del Giubileo Teodoriano 2025 nella memoria di tutti i Martiri della Chiesa di Aquileia (Trivignano Udinese – Pieve di S. Teodoro Martire, 5 novembre 2025)

S. Messa per la celebrazione d’apertura del Giubileo Teodoriano 2025 nella memoria di tutti i Martiri della Chiesa di Aquileia

(Trivignano Udinese – Pieve di S. Teodoro Martire, 5 novembre 2025)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

Autorità civili e militari, cari fratelli e sorelle convenuti in occasione di questo importante momento giubilare, a tutti il mio cordiale saluto.

In particolare ringrazio l’Arcivescovo Riccardo per l’invito a presiedere questa celebrazione e il parroco e il vicario parrocchiale.

Diversi elementi arricchiscono l’odierna solenne Eucaristia. Abbiamo iniziato percorrendo un breve tratto di strada e, come “pellegrini di speranza”, ci siamo incamminati verso questa chiesa parrocchiale per la celebrazione di apertura del tempo in cui la Pieve sarà chiesa giubilare nel contesto del Giubileo Teodoriano, la festa venticinquennale in onore di S. Teodoro martire (Todaro per i Veneziani che lo hanno avuto primo patrono).

L’augurio che rivolgo a tutti, per la durata del tempo giubilare, è di incontrare più profondamente e in modo nuovo il Signore Gesù. Sì, siamo “pellegrini di speranza” che vogliono rinnovare il desiderio e la volontà di aggrapparsi “alla speranza che non tramonta, quella in Dio” sapendo che Lui è “un’àncora sicura e salda per la nostra vita” (Eb 6,19), come dice la lettera agli Ebrei, e accogliendo l’invito che viene dal Giubileo della Chiesa universale – indetto dal Santo Padre Francesco ed ora continuato da Papa Leone – “a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio” (Papa Francesco, Bolla di indizione dell’Anno giubilare “Spes non confundit”, n.25).

Il tempo giubilare che ci è offerto sia, soprattutto, tempo di grazia per farci crescere nella santità – ossia nella realtà di figli di Dio, a partire dal Battesimo – ed aiutarci, così, a “stare” insieme presso il Padre e ad abitare “nel” Padre, come fu per Gesù, il Figlio Unigenito. E, in tal modo, potremo abitare anche i luoghi di sofferenza e le periferie della nostra società, gli ospedali, le carceri, come pure i luoghi di lavoro e di divertimento e le scuole; per il cristiano nulla eccede l’umanità.

Ma cos’è la santità? Ci viene in aiuto la luminosa figura di san John Henry Newman che, solo pochi giorni fa, Papa Leone ha proclamato “Dottore della Chiesa”. Nel suo famoso “discorso del biglietto” (il testo pronunciato in occasione della nomina a cardinale), Newman osservava: “Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l’assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo: la mia retta intenzione, l’assenza di scopi personali, il senso dell’obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa…”.

La santità non si identifica con la perfezione di chi non ha mai sbagliato. E’ proprio così: “i santi non sono «caduti dal cielo». Sono uomini come noi, con problemi anche complicati. La santità non consiste nel non aver mai sbagliato, peccato. La santità cresce nella capacità di conversione, di pentimento, di disponibilità a ricominciare, e soprattutto nella capacità di riconciliazione e di perdono” (Benedetto XVI, Udienza generale del 31 gennaio 2007). Chiedere il perdono e donare il perdono: questo è un altro nome del Giubileo. Anche la pace, tanto invocata eppure tanto calpestata ogni giorno, è possibile solo in questo orizzonte: lotta contro il male, conversione, riconciliazione e perdono.

Ma da Newman impariamo anche un’altra cosa: “Chi ha fede in Lui, ha fede in una speranza che rende positiva anche la morte. Il santo è proprio colui che, in mezzo ai suoi errori e ai suoi difetti, non smette di avere fede: e con questa fede affronta di petto e con determinazione ogni situazione che gli si presenta davanti” (Andrea Gianelli e Andrea Tornielli, John Henry Newman. Fermate quel convertito, Milano 2010, p. 119).

Lo testimoniano tutti i santi martiri della Chiesa universale e con essi quelli dell’antica Chiesa di Aquileia di cui noi siamo, in qualche modo, eredi e debitori e di cui oggi facciamo la memoria liturgica. I santi martiri, che abbiamo invocato con il canto delle litanie per ottenere da loro aiuto e soccorso, ci fanno apprezzare la verità e la forza delle parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani appena proclamata: niente e nessuno ci può separare dall’amore di Dio perché “Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! (…) Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,34.38-39).

Sono proprio i santi martiri che ci hanno preceduto – testimoniando la fede, la carità, la speranza – ad affidarci oggi, ancora una volta, le parole di Gesù: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28). Rimaniamo, a nostra volta, fedeli al Signore, affidati alla sua Provvidenza. E distaccati da ogni sorta di male, anche se lieve, disposti ogni volta a convertirci e a ripartire per riprendere la strada della santità che loro incessantemente ci indicano.

Tra poco procederemo anche alla benedizione del nuovo altare e pregheremo affinché “sia il centro della nostra lode, del nostro rendimento di grazie (…), e beviamo al calice dell’unità; sia la fonte da cui sgorga perenne l’acqua di salvezza”.

L’altare non è solo un elemento importante per una chiesa; è il luogo più sacro insieme al tabernacolo, che ne costituisce il prolungamento – perché ci riconduce a Gesù Cristo, pietra viva (cfr. 1Pt 2,4; Ef 2,20). E, affinché l’edificio sacro sia in grado di svolgere al meglio la sua funzione spirituale e sacramentale, tutto in esso deve esser disposto in maniera che la sacralità del luogo, degli arredi e delle celebrazioni sia percepibile.

Per tale motivo l’impegno dei pastori e dei fedeli sempre più dovrà far sì che questa chiesa, il suo altare, il suo tabernacolo siano luoghi “frequentati” e che la comunità di fedeli sappia ripartire ogni volta da essi per annunciare la “buona notizia” del Signore risorto. La celebrazione eucaristica e l’adorazione, infatti, sono i gesti “portanti” per il cristiano; ogni altro gesto, nella vita del discepolo, è reso possibile da questi e riceve il suo peculiare senso a partire proprio da questi e avendo come riferimento tale luogo sacro. Sì, perché nell’edificio-chiesa si entra per pregare Dio e se ne esce per stare con gli uomini considerati fratelli.

Colpisce, nella vita del Santo Curato d’Ars, quel noto episodio in cui si comprende come la chiesa, l’altare e il tabernacolo non siano spazi riservati soltanto ai preti, ai frati e alle suore ma siano destinati a tutti coloro che ricercano Dio e vogliono tenerne vivo il ricordo nella loro vita quotidiana.

“Conosciamo l’episodio del coltivatore Chaffengeon al quale il curato d’Ars, vedendolo regolarmente posare i suoi attrezzi ed entrare in chiesa, domandò: ‘Che fate amico mio?’ ‘Eh! Signor curato, guardo il Buon Dio ed Egli guarda me…’. E Monsieur Vianney concludeva ammirato ogni volta che raccontava il fatto: Egli guardava il Buon Dio e il Buon Dio guardava lui! E tutto qui!” (André Dupleix, L’insistenza dell’amore. Il curato d’Ars, pagg. 116-117, Jaca Book 2009).

Una chiesa parrocchiale, posta tra le case degli uomini e delle donne del nostro tempo, dedicata a Dio e che ne richiama il primato su tutte le cose, ci invita perciò a ricentrare continuamente la vita su di Lui, il Signore Gesù, l’Eterno Sacerdote, l’unico vero Mediatore tra Dio e gli uomini. Guardando ogni volta questo altare dobbiamo ricordare che è da Lui, il Signore, che tutto assume senso e compimento, è Lui che ci raduna in unità, pur nelle tante distinzioni, e ci fa crescere e riconoscere come comunità ecclesiale.

Ogni edificio-chiesa, come sappiamo, veniva sempre posizionato da Occidente ad Oriente, verso il sorgere del sole, perché Cristo è il “sole del mondo”. La chiesa, infatti, non è solo spazio funzionale, pensato per accogliere il maggior numero possibile di fedeli; è spazio teologico in cui tutto ha un valore simbolico che aiuta ad entrare e a vivere il mistero della liturgia.

E proprio qui – in questo spazio sacro – si intrecciano, per dirla con le parole di Romano Guardini, le direzioni dell’anima umana e di Dio. La direzione dell’anima è quella “dell’anelito, della preghiera e dell’offerta”; la direzione di Dio è quella “della grazia, della pienezza, del Sacramento… Verso il sole sorgente che è Cristo. Qui si dirige lo sguardo del credente; di qui penetra nel nostro cuore il raggio della luce divina. È la grande orientazione dell’anima e la linea della discesa di Dio”. È, insomma, un movimento ed uno spazio che eleva l’uomo “dalle profondità della propria miseria al trono dell’altissimo Dio” per raggiungere il compimento in Dio “nella grazia, nella benedizione, nel sacramento” (R. Guardini, I santi segni, Brescia 1960, pp. 98-99).

Nell’edificio-chiesa – davanti all’altare e al tabernacolo – si entra per pregare Dio, per ricevere e adorare Lui nei segni sacramentali della sua amorevole presenza in mezzo a noi e se ne esce per amare di più tutti gli uomini, senza distinzioni, ed annunciare ancora la “buona notizia” che il Signore è risorto, è vivo e ci accompagna, con verità e amore, ogni giorno.

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