Omelia del Patriarca nella S. Messa con il mondo dell’Università per l’inizio dell’anno accademico (Venezia – Basilica S. Marco, 15 ottobre 2025)

S. Messa con il mondo dell’Università per l’inizio dell’anno accademico

(Venezia – Basilica S. Marco, 15 ottobre 2025)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

state per iniziare un nuovo anno accademico e sarebbero tanti i temi da trattare. Il Vangelo ci dice quale uomo secondo Gesù. E questo è particolarmente importante in un’epoca in cui parliamo di transumano e di postumano.

È importante rispondere alla domanda o cercare di rispondervi: chi è l’uomo? Chi sono io? Perché è da lì nascono le relazioni. E capite bene che se diciamo che la relazione con Dio c’è o non c’è, tutto è diverso. Sartre diceva: se Dio non c’è, tutto è possibile.

“Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5): il Signore ci invita a essere fecondi ma questa parola oggi risuona poco nell’Occidente che ha sposato l’inverno demografico. L’altro ci spaventa e ci può disturbare. L’altro ci può limitare nelle nostre potenzialità. E questa logica diventa anche un modo di intendere la fecondità.

Sono reduce da un incontro di cui voglio rendervi partecipi. Per un’ora e mezza ho dialogato con 60/70 liceali ed universitari ucraini, palestinesi, cristiani e musulmani. Ho detto loro: “Parliamo liberamente. Quali sono i vostri desideri più intimi e più intensi? Voi che vivete a Gaza e nella parte orientale dell’Ucraina e, quindi, nelle zone più colpite dalla guerra…”.

Alla fine ho creduto di lasciar loro il messaggio per me più importante: “Questa guerra devasta le città e i territori. Fate in modo che non vi renda prigionieri dell’odio”. Ma poi ho aggiunto, riprendendo alcune loro parole: “Amare la propria terra. Una pace che sia giusta. Non odiare non vuol dire dimenticare”.

Ci sono dei coetanei vostri che sì alzano al mattino e cercano di vivere la loro giornata normale ma non sanno se arriveranno alla sera; il mondo oggi è fatto in questo modo.

Entrando nel merito delle cose che vorrei dirvi all’inizio dell’anno accademico, prendendo lo spunto da S. Teresa d’Avila che è donna e dottore della Chiesa. Vogliamo affidarci a lei, all’inizio di questo anno accademico in cui siamo chiamati a crescere nei saperi ma soprattutto nel sapere. Ci sono degli idioti che sanno tutto… Ma sono degli idioti. I saperi e il sapere.

Chi è un dottore della Chiesa? Un dottore della Chiesa è un santo. Deve essere santo, ossia essere una persona che vive quello che crede e quello che dice. Non è un teorico, è un santo che ha curato in modo eccezionale alcune parti del sapere della fede e lo ha diffuso.

Riflettendo su questo punto mi veniva in mente quello che era e può essere oggi la mission dell’università: la ricerca dell’eccellenza del sapere, la diffusione del sapere, la didattica e il rapporto contro il territorio. Un’università che è fedele a se stessa e a quello che la società tende ad avere non può ignorare questi ambiti.

E vorrei aprire una breve parentesi: tra pochi giorni la Chiesa riconoscerà un nuovo dottore della Chiesa – John Henry Newman -, un accademico / un professore universitario.  Nasce nella fede anglicana e a 15 anni, ha una prima conversione: io e il mio Dio. Veniva dalle letture di Voltaire ma ora sente il bisogno di qualcosa di più.

La nostra società e la nostra cultura devono ricominciare da Dio, perché il primato di Dio garantisce il rispetto dell’uomo. E tutte le volte che noi non rispettiamo l’uomo abbiamo perso il rapporto con Dio o lo stiamo perdendo; quando si perde il rapporto con Dio è perché non ama la comunità di fratelli.

Vorrei soffermarmi poi su un tema che mi sta a cuore: l’università è un luogo fisico e spirituale e oggi, come anche per il passato, la cultura è il motore della società. Le leggi sono figlie di una cultura e possono essere anche inique, perché non è detto che ogni legge sia giusta; il giusto non coincide automaticamente con la legalità e noi abbiamo conosciuto e conosciamo tuttora delle leggi inique.

Ecco perché l’università è il luogo in cui si gioca il futuro di una società. E allora il compito è quello di coltivare l’intelligenza insegnando a ragionare in modo retto, in ogni ambito del sapere. Bisogna ricercare e cogliere la verità.

Ma, Patriarca, mi potrà dire qualcuno, lei non è aggiornato e non conosce le ultime istanze della filosofia e del pensiero debole o timido, cosa del genere. Per me negare la possibilità di raggiungere la verità è un’affermazione forte. E, molte volte, chi nega la possibilità del vero dovrebbe dirci a che cosa attacca la sua visione del mondo e le sue scelte etiche. Questo è il punto fondamentale.

Oggi siamo nell’epoca dell’intelligenza artificiale: è l’inizio. Bisogna imparare a ragionare rettamente. Oggi, sempre più, mentre si afferma l’intelligenza artificiale, diventa essenziale essere persone e comunità scientifiche in grado di ragionare e di porsi le questioni di una ragione percettiva, capace di senso. Non basta un’intelligenza strumentale.

Non dobbiamo accontentarci della domanda: come si fanno le cose? Ma perché si fanno o non si fanno? È la domanda previa a come si fanno le cose e a come ottenere lo scopo. Ci vuole un’intelligenza capace di mettere in questione il sistema all’interno del quale noi ci muoviamo, un’intelligenza capace di riconoscere i limiti dei singoli saperi, un’intelligenza che mai assolutizza il sapere, qualunque esso sia, anche il sapere teologico che è sempre e rimane comunque un sapere umano e dell’uomo.

Cosa ha creato – dal punto di vista politico, dal punto di vista sociale, dal punto di vista culturale – la mentalità positivista in cui la scienza è diventata un idolo, anzi… dovrei dire Dio, ma un Dio reso idolo. Ecco perché la Chiesa, che oggi celebra S. Teresa d’Avila dottore della Chiesa, riconosce su un piano ben più contralto dei teologi – che sono degli accademici – i dottori della Chiesa.

Traducendo tutto in termini un po’ più semplici, una delle caratteristiche essenziali per essere riconosciuti dottore della Chiesa è la santità, essere delle belle persone, coltivare il sapere (nessuno di noi studia per il vuoto…) e gioire di capire oggi, meglio di una settimana fa, quella questione che ho ripreso a studiare.

Una delle esperienze che mi stupiva di più, nei trent’anni in cui ho fatto l’insegnante, è che alla fine della lezione avevo una comprensione dell’argomento superiore rispetto a quando l’avevo studiata da solo, in preparazione di quella lezione.

Il dottore della Chiesa parla di un sapere eminente, di gioia del sapere, di sentirlo nostro e di smettere di ripetere qualcosa, ma di essere entrato in un mistero.

Io consiglierei la lettura di un testo di Heisenberg, fisico ma anche filosofo: i suoi dialoghi con gli amici (???). Cosa dice della materia? E cosa dice della comprensione della materia? Mi ha sempre colpito quello che Einstein diceva: uno dei misteri più grandi è capire il rapporto tra l’intelletto e la realtà. San Tommaso dà una risposta, Kant ne dà un’altra, l’idealismo ne dà un’altra ancora e così anche per la fisica moderna.

Heisenberg arriva a pensare della cifra orientativa del tutto. Un sapere, dicevo, che sì avvicini di più al vero, di chi non si pone come un teorico, ma come un testimone della verità; vive cioè quello che afferma.

L’epoca della intelligenza artificiale richiede di interrogarsi, di più e meglio, sul piano filosofico circa l’intelligenza umana. L’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana sono due realtà profondamente diverse, in cui però sì gioca il futuro dell’umanità.

Bisogna interrogarsi di più e meglio, circa l’intelligenza umana, circa la coscienza di sé, circa la differenza tra la quantità dei dati, la velocità nell’elaborare i dati, nell’organizzarli e il perché sono stati scelti e selezionati e organizzati secondo quale determinato criterio o programma. Qui c’è il futuro della nostra libertà, è in gioco la nostra libertà. Sì parla molto di etica dell’intelligenza artificiale e si parla poco di epistemologia dell’intelligenza artificiale eppure queste due questioni – etica e intelligenza artificiale, epistemologia e intelligenza artificiale – sono tra loro strettamente connesse.

Dell’etica dell’intelligenza artificiale, noi lo sappiamo, si è occupata la Commissione europea in quel documento strategico che ormai data già qualche anno e che, state attenti bene, è stato molto criticato dalle lobby delle piattaforme, perché lo hanno giudicato un possibile freno alle loro iniziativa, mentre gli attivisti dei diritti umani lo hanno considerato troppo timido, troppo debole, troppo generico. Questo scontro ci dice che qui è in ballo qualcosa di fondamentale. Gli algoritmi non possono prescindere dai valori etici. Ma allora quali valori etici entrano nell’algoritmo? E anche se diciamo che prescindiamo da essi, abbiamo fatto una scelta.

Qui abbiamo una grande sfida per la ricerca. Sappiamo che i progressi della scienza medica e della scienza farmaceutica saranno enormi grazie all’intelligenza artificiale, ma sottovalutiamo quanto l’intelligenza artificiale cambierà l’ambito della formazione delle persone. Il grande problema è, allora, elaborare dei criteri che siano capaci di esprimere il vero rispetto dell’uomo. Più ci addentriamo nella tecnoscienza e più abbiamo bisogno di un sapere che sia percettivo, capace di senso e di fondare i saperi dell’uomo, indicando anche i suoi limiti.

E qui varrebbe la pena veramente di studiare questo ambito così delicato, perché c’è in gioco la nostra libertà. E quando si vuole catturare una persona, quando sì vuole avere il dominio sul territorio, quando si vuole avere un’influenza geopolitica, si manipolano le opinioni delle persone – attenti bene! – facendo credere loro che scelgono liberamente.

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