Omelia del Patriarca durante la S. Messa nella solennità di Sant’Agostino (Pavia – Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, 28 agosto 2025)

S. Messa nella solennità di Sant’Agostino

(Pavia – Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, 28 agosto 2025)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

 

Ringrazio il vescovo Corrado per il cortese invito e per le sue parole. Un cordiale saluto rivolgo alle autorità civili, militari e religiose qui presenti, in special modo alla famiglia religiosa agostiniana.

Inizio questa riflessione nella festa – qui celebrata col grado di solennità – di sant’Agostino richiamando alcune delle parole riecheggiate lo scorso 8 maggio in Piazza San Pietro: ”La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il Buon Pastore, che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, tutte le persone, ovunque siano, tutti i popoli, tutta la terra. La pace sia con voi! Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente… Sono un figlio di Sant’Agostino, agostiniano, che ha detto: “Con voi sono cristiano e per voi vescovo”. In questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria che Dio ci ha preparato” (Primo saluto del Santo Padre Leone XIV, 8 maggio 2025).

Ho desiderato cominciare l’omelia citando le primissime parole che il Santo Padre Leone XIV ha rivolto alla Chiesa e al mondo, subito dopo la sua elezione a Sommo Pontefice della Chiesa universale.

Mi è sembrato opportuno farlo, questa sera, proprio dinanzi alle reliquie di sant’Agostino, vescovo e dottore della Chiesa, e nel giorno in cui ne celebriamo la memoria liturgica. Con queste parole il Santo Padre ci ha ricordato la vera sorgente della pace, ossia Gesù risorto, vincitore della morte; in quella stessa occasione si è presentato alla Chiesa e al mondo, in modo umile, dichiarandosi semplicemente figlio di sant’Agostino.

Il nostro grazie, quindi, va al Santo Padre per la semplicità e la schiettezza che l’hanno reso subito gradito e poiché ci ha nuovamente indicato – con l’autorità del successore dell’apostolo Pietro – da dove viene la pace, richiamandone la sorgente e il centro che è sempre il Signore Gesù.

Sant’Agostino – come pochi altri santi – risponde con la sua stessa vita alle domande, alle attese e alle angosce degli uomini di tutti i tempi, anche del nostro. Agostino è, insomma, un “gigante” che – sotto l’influsso della grazia di Dio – si è lasciato interpellare da ogni domanda, sollecitazione e provocazione che abita il cuore, oltre che la mente, dell’uomo di ogni epoca, anche della nostra.

Dovendo scegliere fra i tanti spunti che la vita e la figura di Agostino ci offrono, vogliamo oggi lasciarci guidare dalla prima lettura e, in particolare, dal suo primo versetto che delinea la struttura della Chiesa primitiva, di coloro che vivevano la comunione fraterna, ascoltavano la predicazione degli Apostoli, pregavano insieme e, insieme, spezzavano il pane eucaristico.

Il testo – nella sua essenzialità – accompagnò sempre il vescovo di Ippona e ne ispirò l’azione pastorale: ”Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2,42).

Era, perciò, logico che Agostino, in un momento di grave divisione ecclesiale quale fu la crisi “donatista”, volendo ad ogni costo perseguire il bene sommo dell’unità della Chiesa, per superare la divisione era disposto anche a rinunciare al ministero episcopale se questo avesse contribuito a ristabilire la comunione ecclesiale e senza cedere, ovviamente, sulle questioni essenziali della fede cristiana.

I donatisti – come sappiamo – negavano la riammissione alla comunione ecclesiale a chi, nelle persecuzioni, era venuto meno; è la tendenza al rigorismo che portava anche a non considerare validi i sacramenti e, quindi, anche le ordinazioni episcopali. I donatisti volevano, insomma, una Chiesa di “puri”, una tendenza ricorrente. Agostino, invece, a partire anche dalla propria esperienza personale, sosteneva che coloro che erano caduti (i traditores), se convertiti e dopo giusta penitenza, dovessero essere riammessi alla comunione.

Si erano così create due Chiese parallele, in lotta fra loro ed anche con atti di reciproca violenza, perché la divisione porta facilmente alla violenza. Qui era in gioco qualcosa d’essenziale: infatti, se i sacramenti dipendono dalla santità di chi li amministra, allora è messa in questione l’origine stessa della salvezza, ossia il dono della grazia.

Per ricomporre l’unità della Chiesa, Agostino giunse a proporre ai vescovi cattolici di rinunciare al loro ufficio se la loro posizione fosse risultata erronea e, invece, d’associare a loro i vescovi donatisti se questi si fossero convertiti. Tale era il prestigio di Agostino che i vescovi cattolici – tranne due, ed erano quasi trecento (analogo era il numero dei donatisti) – accettarono la proposta. I numeri dicono le proporzioni di quella crisi.

Il previsto Sinodo, poi, non si tenne ma, innanzi alle argomentazioni teologiche e pastorali di Agostino, molti vescovi donatisti ritornarono alla comunione della Chiesa cattolica.

Il richiamo ad Agostino nella lotta contro i donatisti – in un periodo per certi versi come il nostro, in cui le tensioni e le spinte centrifughe si fanno sentire nella Chiesa – ci vuole ricordare l’importanza del ministero episcopale per l’unità della Chiesa e come la Chiesa – anche nell’odierno Cammino sinodale – non possa limitarsi a proporre un generico “camminare insieme” ma debba costruire, con fede e pazienza, una forte comunione a partire dal Signore Gesù, fondandosi su di Lui e guardando di più a Lui.

Il Vangelo ci introduce bene nella realtà della comunione ecclesiale che, ovviamente, ha la sua origine e il suo fondamento in Gesù Cristo – vero Dio e vero uomo -, come insegna il Concilio di Nicea di cui, quest’anno, celebriamo il diciassettesimo centenario.

Il Vangelo di Giovanni indica tutto ciò con un’immagine plastica ma accessibile a tutti, un’immagine che è chiara ed eloquente anche per i cristiani semplici ma, non per questo, meno credenti: ”Io sono la porta delle pecore… se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo… Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare… Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10, 7.9.14-18).

Oggi, più che mai, la Chiesa ha bisogno di vivere la carità di Cristo, mettendo i poveri al primo posto e, non di meno, ha bisogno della fede in Lui; l’ “io credo” del singolo deve innestarsi nel “noi crediamo” della Chiesa.

A 1700 anni dal Concilio di Nicea, nel contesto del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia e del Sinodo della Chiesa universale, sulle orme di sant’Agostino, dobbiamo stimare e perseguire di più il bene della comunione ecclesiale e, soprattutto, chiedere il dono di pastori che abbiano lo sguardo rivolto a Cristo e siano a servizio dell’unità come guide sagge e miti ma, anche, coraggiose e attente al bene del gregge loro affidato, ascoltando la voce di tutti ma, innanzitutto, quella di Cristo Buon Pastore.

Sì, bisogna amare il Signore per essere buoni pastori e buoni fedeli, non pensando ai propri beni (“di’ che queste pietre diventino pane…”) o ad accrescere la propria visibilità (“gettati giù…”, dal pinnacolo del tempio…) o, ancora, al proprio prestigio personale (“tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai…”). Sono – le abbiamo riconosciute – le tentazioni che Satana pone a Gesù all’inizio della sua vita pubblica (cfr. Mt 4,1-11) e che, anche oggi, turbano e provocano le nostre comunità.

Oggi la Chiesa – in un contesto di crescente secolarizzazione, simile per certi versi all’epoca di Agostino (IV e V secolo) – ha bisogno di pastori e fedeli che abitino la carità di Cristo che mai prescinde dalla verità. Per questo è necessario porre la preghiera al primo posto, voler e saper stare con i poveri, con gli umili e con quanti hanno smarrito il senso della vita. Sì, perché carità materiale e spirituale vanno insieme, mai una a scapito dell’altra, sempre insieme; è questo il grande e attuale monito di Agostino.

La Chiesa, oggi, ha più che mai bisogno di pastori e fedeli come Agostino. Ricordiamo allora quelle sue parole citate da Papa Leone XIV, dopo la sua elezione, dalla loggia esterna della basilica di San Pietro: “Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano” (Agostino d’Ippona, Discorso 340 nell’anniversario della sua ordinazione).

La Chiesa necessita di pastori e fedeli che dicano, con la loro vita, la bellezza della fede perché è anche con il bello – oltre che con la verità e il bene – che si trasmette la fede cristiana, la quale non è mai grigia uniformità ma neanche affermazioni generiche di tipo filosofico o religioso, a prescindere dalle promesse battesimali.

A tal proposito ricordiamo anche come Agostino, prima del battesimo, fosse stato profondamente colpito dalla vitalità e dal dinamismo della Chiesa di Milano, una comunità che era profondamente radicata in Cristo. I fedeli di quella Chiesa – che dal loro grande vescovo poi sarà denominata “ambrosiana” – si ponevano come comunità ben visibile e attiva. E in essa non vi era solo il grande vescovo Ambrogio che, pure, era la figura di riferimento assolvendo, fino in fondo e sempre, alla sua missione di unità nella Chiesa particolare ma, anche, fra le Chiese sorelle e con la Chiesa di Roma.

Vedevo – scriveva Agostino – la Chiesa popolata di fedeli che avanzavano, l’uno in un modo, l’altro in un altro; invece mi disgustava la mia vita nel mondo. Era divenuta un grave fardello… Ormai tutto ciò mi attraeva meno della tua dolcezza e della bellezza della tua casa, che ho amato…” (Agostino d’Ippona, Confessioni, 8, 1,2).

Agostino ci dice quindi, in questo passo delle Confessioni, quanto una Chiesa viva e radicata nella fede sia già una Chiesa capace di evangelizzare.

Non possiamo, infine, non dire una parola su Monica, la madre di Agostino, che tanto si adoperò perché quel figlio – così impegnativo – abbracciasse la fede e, finalmente, quando lo vide battezzato, confessò di non aver più scopo in questa vita terrena. Santa Monica ricorda, così, alle mamme di ogni tempo che i figli si generano anche nella fede e che, quindi, la famiglia non è mai solo realtà biologica ma è luogo di trasmissione della fede; la famiglia è, davvero, la prima Chiesa (cfr. Agostino d’Ippona, Confessioni, 9, 10-11).

Auguriamo alle nostre Chiese, in quest’Anno giubilare, di essere per tutti un segno gioioso di speranza.

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