S. Messa in occasione dei Giubilei sacerdotali
(Venezia / Basilica della Salute, 22 maggio 2025)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Cari presbiteri,
l’annuale appuntamento dei Giubilei sacerdotali non è un momento formale ma, piuttosto, l’occasione per esprimere gratitudine al Signore per il dono del presbiterato e per il dono di confratelli che con il loro generoso, disinteressato e competente ministero hanno servito e servono, hanno fatto e fanno crescere la Chiesa che è in Venezia.
Quest’anno, in particolare, don Luigi Chitarin e don Giuseppe Manzato giungono ai 60 anni di sacerdozio mentre don Giacomo Ridolfi, tra un mese esatto, compirà il suo primo anno di sacerdozio. Ricordiamo anche fra Emanuele (Vincenzo) Guerrini dell’Ordine Domenicano che festeggia i 50 anni di ordinazione.
Saluto i diaconi permanenti che ringrazio della loro gradita presenza.
Carissimi, ora lasciamoci guidare dal Vangelo che abbiamo appena ascoltato (Gv 15,9-11). Le parole di Gesù sono chiare: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15,10).
Tali parole rimandano alla prima lettura (At 15,7-21) in cui l’apostolo Pietro prende la parola, nell’assemblea della prima comunità cristiana, e afferma: “Fratelli, voi sapete che, già da molto tempo, Dio in mezzo a voi ha scelto che per bocca mia le nazioni ascoltino la parola del Vangelo e vengano alla fede” (At 15,7).
Qui è dichiarato, tramite la figura dell’apostolo Pietro, il compito affidato in maniera particolare e specifica – anche se non esclusiva – ai ministri ordinati: annunciare la parola del Vangelo affinché le genti possano credere. Noi, quindi, siamo soltanto messaggeri: annunciamo ciò che, a nostra volta, abbiamo ricevuto. In Pietro, però, troviamo espressa la successione apostolica: è l’apostolo scelto e “mandato” che, a sua volta, “manda”.
Si tratta allora – come recita il testo – di osservare i comandamenti, rimanere nell’amore di Cristo e annunciare la parola del Vangelo che risuona sulla “bocca” – ossia nella testimonianza – dell’apostolo.
Papa Leone XIV ha sottolineato pochi giorni or sono, nell’udienza alla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice e parlando dell’annuncio cristiano, il legame tra “dialogo” e autentica “dottrina” dicendo che tali realtà sono chiamate a stare insieme. Così la dottrina – anche quella sociale – è altro dall’indottrinamento che è qualcosa di chiuso, non dinamico, contrario alla libertà di coscienza. La dottrina cristiana “non equivale a un’opinione, ma a un cammino comune, corale e persino multidisciplinare verso la verità”. Emerge, quindi, come “riflessione seria, serena e rigorosa” che “intende insegnarci, in primo luogo, a saperci avvicinare alle situazioni e prima ancora alle persone” (Leone XIV, Udienza ai membri della Fondazione “Centesimus Annus Pro Pontifice”, 17 maggio 2025).
Saper stare nella dottrina, nel cuore dell’annuncio cristiano, osservare i comandamenti del Signore e rimanere nel suo amore ci conducono alla serietà, al rigore e alla serenità che Papa Leone attribuisce all’autentica dottrina che è capace, anche, di “aiutare nella formulazione di un giudizio prudenziale”. Il discernimento è il frutto di questo percorso.
Pochi giorni fa, su invito dell’Arcivescovo, mi trovavo a Praga, una delle città più secolarizzate d’Europa e che tuttora risente di quell’ideologia comunista che, per oltre quarant’anni, è stata la guida egemone della società per poi essere frantumata dalla stessa storia; tale ideologia, come ogni ideologia – per riprendere l’espressione del Papa –, è consistita in un indottrinamento e fu tutt’altro che un’autentica dottrina.
Nonostante ciò, nella società ceca – in particolare in Boemia – è ancora viva la memoria e – nelle comunità cristiane – la devozione per il patrono san Giovanni Nepomuceno che ha legami con Venezia e rappresenta un luminoso testimone della fedeltà alla Chiesa e al ministero sacerdotale, nel contesto travagliato del suo tempo e in particolare di fronte al potere politico, allora rappresentato dal re Venceslao IV.
San Giovanni Nepomuceno fu, prima di tutto, un sacerdote fedele, obbediente e coraggioso, anche nella tutela e nell’amministrazione dei beni ecclesiastici; esercitò le funzioni di parroco e di vicario generale unendo nella sua persona doti spirituali, pastorali e amministrative, necessarie per un reale e concreto servizio alla Chiesa.
Come vicario generale – ufficio che lo rendeva corresponsabile del governo della Chiesa praghese – seppe mantenere ferma la fedeltà e l’obbedienza ecclesiale all’arcivescovo di fronte alle pretese di re Vencenslao IV che lo fece torturare e poi gettare, in catene, dal ponte Carlo nel fiume Moldava, procurandogli un glorioso martirio.
Giovanni Nepomuceno, per noi, oggi, riveste un grande valore come difensore della libertas Ecclesiae, per quanto ardua possa risultare. La sua vita – fino al martirio – attesta che il sacerdote è un uomo fedele a Dio e alla Chiesa. La sua libertà e la sua fedeltà al ministero sacerdotale lo portarono al martirio che è tratto distintivo di Cristo Gesù – il Crocifisso Risorto – e della sua Chiesa; ogni battezzato che voglia essere cristiano non può non confrontarsi con questa realtà e metterla in conto nella sua vita.
La fedeltà e la libertà portano al martirio, sia pure in modalità e forme diverse: è la storia della Chiesa che passa attraverso i secoli e le vicende storiche fino ai nostri giorni resistendo ad ogni forma di potere arbitrario, di persecuzioni e di ingerenze.
Nell’omelia pronunciata nella cattedrale di Praga ho sottolineato che questo coraggioso e fedele sacerdote – originario di Nepomuk e considerato patrono dei confessori, oltreché di barcaioli e gondolieri – oggi si troverebbe a difendere la libertas Ecclesiae fronteggiando l’imperante “dittatura” del pensiero dominante, veicolato dai meccanismi della comunicazione e dai vari canali social e dalla rete, ove verità e carità faticano ad entrare e a proporsi, mentre facilmente agiscono e dominano i criteri e le modalità della manipolazione, della menzogna, della volontà di influenzare la vita delle persone e della società.
Cosa dire, ad esempio, sull’informazione circa le guerre combattute oggi nel mondo? Noi sentiamo qualcosa (come!) su Ucraina, Gaza, Myanmar… ma le guerre oggi combattute nel mondo sono più di cinquanta!
C’è un altro aspetto, singolare, che mi ha particolarmente colpito di questo santo; il fatto è narrato da un’altra tradizione che lo indica non solo come testimone della libertas Ecclesiae, ma come difensore e custode, sino al martirio, del “sigillo sacramentale” per non aver violato – anche qui pressato dalle minacce del re – il segreto confessionale.
Col tema del “sigillo sacramentale” si giunge a toccare un punto fondamentale del nostro ministero di presbiteri su cui varrebbe la pena riflettere in modo approfondito perché grazie ad esso il penitente mantiene un rapporto di totale fiducia col Signore. Pensiamo solo a questo: se un penitente venisse sfiorato dal dubbio che quanto ha detto in confessione – circa i propri peccati – possa essere divulgato, allora si rischierebbe, davvero, di impedire la via della grazia e della misericordia di Dio attraverso il sacramento della penitenza, ostacolando la conversione del penitente. È un’altra forma di libertas Ecclesiae che non va sottovalutata o dimenticata, ma valorizzata e difesa continuamente.
Siamo custodi dei sacramenti che amministriamo e dobbiamo, allora, tornare all’origine e al senso di ogni sacramento; qui, in modo speciale si parla del sacramento dell’ordine. Per ogni sacramento il fondamento è nelle parole di Gesù: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30) – “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21) – “Senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5).
“Per bocca mia”, diceva l’apostolo Pietro nella prima lettura: con lui ogni uomo di Chiesa è chiamato a dire il nome di Dio. È un compito non facile in una società che ha messo Dio da parte o che lo considera questione privata, oppure ancora una tra le tante cose della vita e lo accetta solo se non ostacola ogni sua emancipazione e progresso.
Il nome di Dio, oltretutto è, in sé, “indicibile” ma lo si rende presente annunciando Gesù e mostrandolo nella propria vita; chi vede Lui vede il Padre (cfr. Gv 14,9). Ritorna qui il tema del Vangelo e della “dottrina” a cui si faceva riferimento all’inizio.
Nella fede in Gesù Cristo svanisce ogni forma d’individualismo e nella Chiesa tutto risulta personale e, insieme, comunitario. La Chiesa trasmette ciò che ha ricevuto e, quindi, è in sé contraddittoria una fede “fai da te”. La Chiesa non è, infatti opera dell’uomo o di un gruppo o di una associazione; la Chiesa è dono che sgorga dal cuore di Cristo trafitto sulla croce e così l’acqua e il sangue sono simboli vivissimi dello Spirito e dei sacramenti.
Il sacramento dell’Ordine è dono di Cristo, grazie al quale è lo stesso Cristo che serve la Chiesa. I sacramenti, allora, ricordano alla Chiesa (vescovo, presbiteri, diaconi, consacrati, fedeli) che l’uomo non si salva da sé e non è l’artefice della grazia. Pastori e fedeli sono tutti, nessuno escluso, una comunità di salvati.
Guardiamo, infine, a questo santo boemo, ma in qualche modo anche “veneziano” – Giovanni Nepomuceno –, che ha mostrato nel suo ministero sacerdotale (e fino al dono della vita) di non pensare a se stesso “ma solo alla salvezza delle anime, sapendo che anche le più belle parole sono inefficaci se non sono fondate sulla testimonianza della vita” (San Giovanni Paolo II, Lettera all’Arcivescovo di Praga per il 250° centenario della canonizzazione di san Giovanni Nepomuceno, 2 marzo 1979).
Ringrazio tutti coloro che si spendono quotidianamente, nel silenzio, con umiltà e coraggio e in contesti non facili, gravati anche da più uffici. Auguro un buon anniversario a coloro che ricordano i loro Giubilei di ordinazione: don Luigi Chitarin, don Giuseppe Manzato, fra Emanuele (Vincenzo) Guerrini e don Giacomo Ridolfi.
Tutti, ogni giorno, ricordo all’altare del Signore, soprattutto chi vive momenti di fragilità fisica o spirituale.
Confidiamo nella nostra comune Madre – Maria, la Madonna della Salute – a cui affidiamo anche, in modo particolarissimo, Papa Leone XIV.
