Omelia del Patriarca nella S. Messa per l’ordinazione episcopale di mons. Riccardo Battocchio (Vittorio Veneto / Cattedrale di Santa Maria Assunta, 25 maggio 2025)

S. Messa per l’ordinazione episcopale di mons. Riccardo Battocchio

(Vittorio Veneto / Cattedrale di Santa Maria Assunta, 25 maggio 2025)

 Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

 Cari confratelli nell’episcopato, cari presbiteri, diaconi, consacrati, fedeli,

questa celebrazione ha un protagonista: la Chiesa che è in Vittorio Veneto. Infatti, Vescovo e Chiesa s’appartengono come lo sposo e la sposa. I Vescovi qui convenuti dicono, con la loro presenza, il valore della collegialità.

Un ricordo particolare – di stima e ammirazione – va al Vescovo Corrado che, terminato il suo servizio episcopale, ha intrapreso con grande coraggio un’esperienza missionaria in Brasile per sostenere il progetto diocesano che prevede uno scambio reciproco di presbiteri tra le Chiese.

Saluto il Cardinale Beniamino Stella, figlio di questa terra, e le autorità civili e militari presenti. Saluto anche Sua Eccellenza Athenagoras Fasiolo, vescovo di Terme e ausiliare per il Nord Italia di Sua Eminenza Polykarpos, Metropolita dell’Arcidiocesi ortodossa greca d’Italia.

Rivolgiamo, innanzitutto, il nostro saluto affettuoso e la nostra preghiera per il Santo Padre Leone XIV affinché, all’inizio del Suo ministero di Vescovo di Roma, avverta il forte sostegno di tutta la Chiesa.

Un ricordo nella preghiera anche per Papa Francesco affinché possa essere accolto, in Cielo, dal Dio della Misericordia.

Carissimo Vescovo Riccardo, sei chiamato – con il tuo presbiterio – ad essere segno di Gesù, sommo Sacerdote, nella Chiesa che oggi ti viene affidata. Tutto, come sai, inizia dalla fede senza la quale non c’è carità ma solo solidarietà, non c’è speranza ma solo ottimismo; realtà molto buone, necessarie, ma non sufficienti per la vita cristiana.

La prima lettura di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli, ci ricorda come nella Chiesa delle origini molti fedeli provenivano dal giudaismo e molti dal paganesimo. Si viveva, insomma, il primo “cambiamento d’epoca”. E la Chiesa era chiamata ad una scelta.

Quale fu il metodo e il criterio? “Alcuni, venuti dalla Giudea – abbiamo ascoltato –, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati»” (At 15,1). Gli apostoli, gli anziani e tutta la Chiesa giungono a questa deliberazione: “…è parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie…” (At 15,28).

La Chiesa ci indica il metodo e il criterio che non viene dal gruppo più intraprendente o più dinamico; è, invece, tutta la Chiesa che si lascia interpellare dallo Spirito Santo e poi si richiede il coraggio dell’annuncio, accettando l’incomprensione ed anche l’emarginazione.

Ogni Vescovo, con la sua Chiesa, è essenzialmente chiamato a dire una cosa: il nome di Dio. È un compito non facile in una società che ha messo Dio da parte o lo considera questione privata se non, addirittura, ostacolo ad una moderna emancipazione. Il nome di Dio, in sé, è “indicibile” e lo si rende presente solo annunciando Gesù; chi vede Lui vede il Padre (cfr. Gv 14,9).

Nella nostra comune fede in Gesù Cristo svanisce ogni forma d’individualismo; poiché nella Chiesa tutto è personale, tutto è comunitario, nulla è individuale.

La Chiesa trasmette ciò che ha ricevuto e, in essa, è strutturalmente contraddittoria una fede “fai da te”.

Nella Chiesa particolare si rende presente l’unica Chiesa che è l’organismo di Cristo, il suo Corpo, e non una mera organizzazione umana. E, quindi, “Chiesa”, “comunione”, “sinodalità” vanno tutte intese nel loro senso teologico-sacramentale e mai ridotte a realtà culturali, sociali e politiche.

Sì, la Chiesa non è opera dell’uomo; la Chiesa è dono che sgorga dal cuore di Cristo trafitto sulla croce e l’acqua e il sangue sono “simboli” – in senso agostiniano – dello Spirito e dei sacramenti. Gesù, sulla croce, diventa il nuovo e definitivo Tempio.

La lettera ai Romani parla di Gesù come ”…strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente” (Rm 3,25-26).  

Il vero inizio degli Atti degli Apostoli è il giorno di Pentecoste, con il compimento della promessa dello Spirito, quando uomini che parlano lingue sconosciute, che si combattono, s’intendono e si comprendono. Il Papa ci ha richiamato più volte il valore della pace, che è oggi priorità per tutti e soprattutto per la Chiesa.

C’è un linguaggio nuovo: la Chiesa parla al mondo e parla, nello Spirito, di Gesù Cristo.

I differenti linguaggi e le diverse etnie e culture s’incontrano e comprendono. L’apostolo Pietro – primo degli apostoli – si alza e con coraggio parla a nome di tutta la Chiesa.

Nell’annuncio di Pentecoste il riferimento a Gesù è chiaro, esplicito e non sfumato. Una Chiesa reticente nel pronunciare il nome di Gesù – e loquace su tutti gli altri temi – susciterebbe più che una domanda.

A Pentecoste Pietro, con le sue parole, trasmette ciò che ha ricevuto: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene -, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte…” (At 2, 22-24).

La Chiesa deve essere fedele a questo stile che gli appartiene dal giorno di Pentecoste e che ogni Vescovo, con la sua Chiesa, deve far suo, anche oggi. Il popolo di Dio, unito al suo Vescovo, è mandato al mondo.

La lavanda dei piedi è il gesto che qualifica sempre la Chiesa – Vescovo e popolo di Dio – anche se in modi essenzialmente diversi: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,13-15).

Vescovo e Chiesa: l’uno non esiste senza l’altra e viceversa, perché Vescovo e Chiesa costituiscono un’unione sponsale. Anche nelle Chiese ove si ammette il sacerdozio uxorato, il Vescovo è scelto solo tra i celibi.

Caro Vescovo Riccardo, il Vescovo è là dov’è la Chiesa; cara Chiesa di Vittorio Veneto, la Chiesa è là dov’è il Vescovo.

Il Vescovo, infine, è costituito nel sacramento dell’Ordine ed è bene riflettere insieme su tale punto. Il sacramento è la realtà per cui si può dare qualcosa che, di per sé, con le sole forze umane, non si potrebbe dare.

Il Vescovo non è il risultato di doti e capacità umane, organizzative o teologiche. Piuttosto è, nella sua persona, il segno sacramentale di Cristo.

Per questo Gesù, dopo la lavanda dei piedi, dice: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4).

Il sacramento dell’Ordine è dono di Cristo, grazie al quale è lo stesso Cristo che serve la Chiesa. Il sacramento, quindi, ricorda alla Chiesa (pastore e fedeli) che l’uomo non si salva da sé e non è l’artefice della grazia. Pastori e fedeli sono una comunità di salvati.

Sant’Agostino, in un momento di grave divisione ecclesiale – la crisi “donatista” -, avendo di mira il bene sommo dell’unità della Chiesa e volendo superare la divisione in atto, era disposto a rinunciare al ministero se la posizione cattolica fosse risultata erronea.

I donatisti negavano la riammissione nella Chiesa a chi, nella persecuzione, era venuto meno…la tendenza al rigorismo. Così, di fatto, non consideravano validi i sacramenti – tra cui le ordinazioni episcopali -; essi sognavano una Chiesa di “puri”, una tendenza ricorrente. Agostino, invece, riteneva che chi era caduto, se convertito, dopo giusta penitenza, poteva venire riammesso alla comunione ecclesiale.

Si erano create due Chiese parallele, in lotta fra loro ed anche con atti di reciproca violenza. La divisione porta alla violenza. Qui era in gioco qualcosa d’essenziale: infatti, se i sacramenti dipendono dalla santità di chi li amministra, allora è messa in questione l’origine stessa della salvezza, ossia la gratuità della grazia.

Per ricomporre l’unità della Chiesa, Agostino giunse a proporre ai Vescovi cattolici di rinunciare al loro ufficio se la loro posizione fosse risultata erronea e, invece, d’associare a loro i Vescovi donatisti se questi si fossero convertiti. Tale era il prestigio di Agostino che tutti i Vescovi cattolici, circa trecento – analogo era il numero dei donatisti -, accettarono questa proposta. Tutti, eccetto due; i numeri dicono la gravità di quella crisi.

Il Sinodo poi non si tenne ma, innanzi alle argomentazioni teologiche e pastorali di Agostino, molti Vescovi donatisti ritornarono alla comunione della Chiesa cattolica.

Il richiamo ad Agostino – che la Chiesa annovera tra i grandi Padri della Chiesa – è per dire l’importanza del ministero del Vescovo per l’unità della Chiesa e come questa non possa limitarsi a proporre un generico camminare insieme ma richieda un vero cammino a partire da Gesù, verso Gesù e con Gesù Cristo. La lettera agli Ebrei – trattazione di cristologia sacerdotale neotestamentaria – presenta proprio Gesù come l’origine e il compimento della fede (cfr. Eb 12,2).

Oggi la Chiesa ha bisogno della carità di Cristo – mettere i poveri al primo posto – e, in pari tempo, ha bisogno della fede in Gesù Cristo: “io credo” si innesta così indissolubilmente nel “noi crediamo” della Chiesa.

Caro Vescovo Riccardo, il santo patrono – il Vescovo Tiziano – illumini il tuo episcopato nella Chiesa di Vittorio Veneto, l’antica e gloriosa Ceneda. La tua ordinazione episcopale cade nel XVII centenario del Concilio di Nicea, durante il Cammino sinodale della Chiesa italiana e universale, mentre si sta celebrando l’Anno giubilare; sono indicazioni chiare che il Signore ti dà.

L’augurio è che tu sappia amare il Signore esercitando il ministero come pastore, come guida saggia, mite e coraggiosa, del gregge a te affidato. Si ama il Signore essendo buoni pastori, non pensando ad accumulare per sé (“di’ che queste pietre diventino pane…”), ad accrescere la propria visibilità (“gèttati giù”, dal pinnacolo del tempio…) o il proprio prestigio personale (“tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai…”). Sono le tentazioni a cui è sottoposto Gesù – all’inizio della vita pubblica – con promesse di dominio, onori e potere (cfr. Mt 4,1-11).

Caro Vescovo Riccardo, oggi la Chiesa – in un contesto crescente di secolarizzazione – ha bisogno di pastori che abitino la carità di Cristo, cioè che preghino, che guardino ai poveri, agli umili, a quelli che hanno smarrito il senso della vita. Carità materiale e spirituale ma, anche, carità della verità.

La Chiesa oggi ha bisogno di testimoni che, con la loro vita, dicano la bellezza della fede. Anche questo è un modo di trasmetterla, poiché fede non vuol dire uniformità ma neanche fermarsi a generiche, facili e scontate affermazioni antropologiche a prescindere dalle promesse battesimali.

Caro Vescovo Riccardo, cari fratelli e sorelle, la Vergine Maria Assunta – a cui è dedicata questa bella Chiesa cattedrale – aiuti tutti a camminare insieme e con passo deciso verso l’Unico necessario: il Signore Gesù.

Caro Vescovo Riccardo, buon cammino!

condividi su