Marco Cè – Nulla per rivalità o vanagloria

Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso (Fil 2,3)

Nella lettera ai Filippesi san Paolo si rivolge alla comunità cristiana, non idealizzata, ma com’è realmente, con i suoi problemi e le sue difficoltà e la esorta ad assumere i tratti della fedeltà al vangelo diventando una comunità in cui le relazioni siano sincere e vive:

Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a sé stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri (Fil 2,1-4). Così dovrebbe essere la comunità: Paolo vorrebbe che ci si stimasse al punto di considerare gli altri superiori a se stessi, non elevandosi con arroganza e con spirito di affermazione. Raccomanda ai Filippesi soprattutto la carità fra di loro, una carità che arriva a non “cercare il proprio interesse, ma quello degli altri”, una carità assolutamente gratuita che rovesci i ragionamenti umani. Una carità straordinaria.

Delinea un bozzetto di comunità cristiana con dei forti sentimenti di comunione, di apertura e disponibilità non fatta soltanto di atti di carità, o di rapporti esterni, ma di atteggiamenti interiori profondi nei confronti degli altri.

E dove radica questo comportamento? Quali sono i motivi che porta? Motivi etici? No. Il motivo è l’esempio di Gesù Cristo. La vera concezione del cristianesimo è la fede in una persona, non una proposta etica o solo dottrinale. È quanto afferma Benedetto XVI nel primo numero della Deus Caritas est, dove dice che il cristianesimo è l’incontro con una persona.

Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,

il quale, pur essendo in forma di Dio,

non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,

ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;

 trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.

 Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,

 affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,

 e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11)

Paolo, volendo giustificare una raccomandazione morale, di comportamento, la radica in Gesù Cristo: “Fate così, perché lui ha fatto così”.

La morale cristiana dipende da Gesù Cristo: abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù… “il quale, pur essendo di natura divina, … svuotò se stesso… in tutto mostrandosi come gli uomini, facendosi obbediente fino all’estremo, alla morte, e alla morte più vergognosa, la morte di croce”. La crocifissione era una morte che non poteva essere inflitta ad un ebreo, solo i pagani erano condannati alla crocifissione. Gesù, ebreo, viene crocifisso: si umilia fino alla morte di croce. Dalla “forma” divina alla morte di croce, passando attraverso la “forma” del servo, dello schiavo. In tutto simile agli uomini: nell’apparenza, chi lo vedeva, non vedeva Dio, vedeva l’uomo.

E proprio per questo Dio lo esalta.

Ecco l’innalzamento. Di fronte a lui che si è umiliato, tutti devono piegare le ginocchia. Gesù Cristo è il Signore. Ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è il Signore”. Ecco il nome: gli ha dato il nome di “Signore”, Kyrios, che traduce il nome di Dio.

In questa proclamazione che Gesù Cristo è il Signore consiste tutta la gloria e la gioia del Padre. Il Padre gioisce quando qualcuno – il mondo, la storia, una persona – proclama: “Gesù è il Signore”. La gloria che Dio si aspetta da noi è che riconosciamo suo Figlio, Gesù, quello che lui ha mandato come “Cristo”, il salvatore, come il Signore.

Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute, perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.  Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;  e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me. (Fil 2,12-18)

Quindi, continua Paolo, “fate quello che vi ho detto”. Ha raccomandato loro la carità, una carità molto forte; l’ha motivata cristologicamente, riferendosi a Cristo, e ora dice: “attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. Quando voi agite, sappiate che c’è una collaborazione profonda fra Dio e voi. Dovete impegnarvi al massimo perché Dio lavora e opera in voi. Proprio per questa presenza divina, questa cooperazione, dovete impegnarvi al massimo, “con timore e tremore”, cioè con tutta l’energia, con tutte le vostre forze. “È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare…”.

Infatti: questa consequenzialità sottolinea la ragione per cui dobbiamo operare la nostra santificazione nel modo di vivere la comunità cristiana, “con timore e tremore”.

Paolo continua la sua esortazione alla carità e qui il testo della lettera diventa molto sciolto e anche affettuoso: Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere.

Voi vivete questa carità così forte, così bella, così splendente davanti a Dio in mezzo a un mondo che è fatto invece di infinite divisioni.

La condizione del cristiano è di essere in solitudine nel mondo: c’è una profonda disomogeneità fra il comportamento che Paolo chiede ai cristiani, ai suoi discepoli di Filippi, rispetto a come la gente normalmente si comporta.

In questo contesto dovete splendere come astri nel mondo.

Bellissima questa definizione del cristiano che in un ambiente culturale “degenere e perverso”, è chiamato a risplendere come astro, come luce, tenendo alta la parola di vita.

Incarnate la parola di Dio nella vostra vita!

È una forte esortazione alla testimonianza cristiana nel mondo.

Paolo conclude: Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato. La comunità è il vanto dell’apostolo e quando comparirà davanti a Dio potrà dirgli: “Signore, vedi che bella comunità ti porto?! Vedi che non ho lavorato invano? Ti posso presentare una bella comunità”.

E arriva a dichiarare di essere disposto a spendersi, anche sacrificandosi, per i Filippesi: “Se il mio sangue deve suggellare la liturgia della vostra vita sono contento, e ne godo con tutti voi.”

La fede è considerata come un atto liturgico, cioè la fede, anzi la vita, è liturgia: un concetto in altro modo espresso nel capitolo 12 della Lettera ai Romani dove dice: Vi esorto dunque fratelli per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. È questo il vero culto spirituale. Culto “spirituale” non è culto spiritualista, è culto nello Spirito Santo, il culto cristiano è la vita conforme alla Parola di Dio e all’amore ai fratelli; questo è il vero culto che Dio vuole da noi.

(Dalla presentazione della Lettera ai Filippesi, tenuta ai collaboratori dell’Oders dal Card. Marco Cè, Cavallino 13 gennaio 2008)