L. Monari – Che siano uno: la preghiera di Gesù al Padre

Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.
Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro
(Gv 17,9-21).

Questa parte della straordinaria preghiera di Gesù riguarda direttamente quelli che, ascoltando la parola degli apostoli, arriveranno a credere in Gesù.

Il brano si collega a quanto verrà espresso in modo mirabile nel prologo della prima lettera di Giovanni:

Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena. (I Gv 1,1-4)

Colpisce la concretezza di queste parole: vedere, ascoltare, toccare, trasmettere. Gli apostoli, trasmettendoci l’esperienza storica che li lega a Gesù, ci rendono partecipi di lui.

Ed è per questa continuazione di esperienza, che Gesù prega: Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola come noi.

La preghiera è orientata all’unico obiettivo dell’unità. Che, però, bisogna intendere bene perché non è l’unità senza distinzioni o differenze: la sua origine e il suo modello è nell’unità tra il Padre e il Figlio; essi non si confondono, il Padre non è il Figlio e il Figlio non è il Padre. La comunione che li lega, che li fa essere un solo Dio, è la comunione dell’amore, della reciprocità del dono. Il Padre non ha nulla che non doni al Figlio, il Figlio non ha nulla che non accolga dal Padre e che non riferisca al Padre. Ma non è una unità indistinta: la distinzione tra il Padre e il Figlio c’è ed è profonda e deve rimanere nell’esperienza dei credenti. Il cammino verso l’unità non elimina le caratteristiche personali e individuali le quali, anziché essere motivo di contrapposizione o separazione, diventano un’occasione per vivere gli uni per gli altri.

La relazione di amore non distrugge affatto la persona nella sua individualità. Sono proprio i legami sani, maturi, non possessivi o deresponsabilizzanti, di amore autentico, che realizzano la persona nel modo più pieno.

È interessante vedere che il tema della comunione, nel vangelo di Giovanni, è centrale. Dopo la resurrezione di Lazzaro, i capi di Israele decidono di mettere a morte Gesù, con questa motivazione:

“È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. E l’evangelista annota che Caifa, essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.

Ed è proprio così: Gesù morì per raccogliere insieme la nazione, anzi tutti i figli di Dio dispersi.

Lo scopo della redenzione, nell’ottica di Giovanni, è l’unità degli uomini: Gesù muore per questo. E per questo stesso motivo, nel racconto della passione, Giovanni darà tanta importanza alla tunica che non ha cuciture e che per questo non viene lacerata e divisa tra i soldati, ma gettata a sorte e quindi consegnata indivisa, intera (19,23-24). Non parrebbe un episodio così importante da essere registrato nel racconto tragico della passione del Signore, in cui si giocano i destini di Gesù e dell’umanità intera! Il motivo è che la tunica senza cuciture rappresenta l’effetto della morte di Gesù. Gesù muore per questo: perché l’umanità non sia lacerata, e l’unità degli uomini venga ricostituita attraverso il loro innesto nel mistero stesso di Gesù, diventando una cosa sola con lui.

Lo possiamo vedere bene in Gv 15, che inizia con la grande allegoria della vite e dei tralci: Gesù è la vite, noi i tralci. Il rapporto è espresso con il verbo ‘rimanere’ insistentemente ripetuto, che dice la comunione. Essere cristiani vuol dire entrare attraverso la fede in quello spazio che il Figlio di Dio incarnandosi ha creato dentro al mondo, dove l’amore del Padre si rivela ed è presente. Si tratta di entrare in quello spazio che è Gesù, attraverso la fede, di essere quindi innestati e di rimanere in lui. La conseguenza è che questa comunione, realizzata attraverso la fede in Gesù diventa comunione fraterna. È inevitabile che sia così. Per cui subito dopo Gesù dice: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato.”

A questo vuol condurre la passione e la morte del Signore: l’unità non è primariamente un impegno etico, non è una esortazione a volerci bene e a superare i contrasti che ci sono. È il tema centrale della visione di fede della propria vita e del disegno di Dio sull’umanità pensata proprio per questo: in cammino verso una comunione sempre più intensa e profonda nell’amore e nella reciprocità. Una comunione resa possibile dalla morte e risurrezione del Signore, che riversa nei nostri cuori il suo stesso Spirito: Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola.

L’unità per cui Gesù prega – ma anche vive, muore e risorge – san Paolo la esprime con la famosa immagine del “corpo” (Ef 1-4; I Cor 12): siete il corpo di Cristo, dividervi significa lacerare il corpo di Cristo. Nessuno può dire di non aver bisogno degli altri. E, d’altra parte, nessuno può dire: non c’è bisogno di me, perché sono piccolo, insufficiente, inadeguato. C’è bisogno esattamente di tutti, ciascuno nel suo posto, con la sua vocazione, con il compito che il Signore gli ha dato, anche con i suoi limiti. Solo nella reciprocità, nella complementarietà si esprime l’identità del corpo di Cristo.

Paolo ci suggerisce un pensiero prezioso: “proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre tutte le membra soffrono insieme e se un membro è onorato tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra” (I Cor 12,22-27).

Possiamo tradurre questo discorso così: volete che le vostre comunità siano vere, autentiche, che circoli la comunione dell’amore? Mettete al centro i piccoli, i bisognosi, gli ammalati, gli anziani, i bambini, le persone sole, i poveri, perché al loro servizio si costruisce la comunione di tutti. Ma se al centro mettete quelli che hanno potere e appaiono di fronte al mondo, la comunità diventa una lotta di carriera, la lotta per conquistare i primi posti…. Dove al centro ci stanno i piccoli la comunità si unisce, dove ci stanno i grandi o i nobili, la comunità si divide.

Riflettendo poi sui carismi, Paolo dirà che essi sono per il bene comune, perché le contrapposizioni si sciolgono nella prospettiva della crescita della comunità. E ancora, per lo stesso motivo, Paolo inserisce l’inno alla carità, perché ci si ricordi che, pur avendo i doni più grandi, se uno manca di carità è nulla.       

L’ottica deve diventare essenzialmente quella dell’amore nella reciprocità.

Riprendiamo allora il comandamento dell’amore fraterno dato da Gesù nel contesto dell’ultima Cena (Gv 13): “Figlioli, ancora per poco sono con voi; ma come ho già detto ai Giudei, lo dico anche a voi: dove vado io voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri: da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

È interessante che questo comandamento dell’amore sia legato alla partenza di Gesù: “Dove vado io voi non potete venire”, quasi che l’amore fraterno sia la sostituzione della presenza fisica e immediata di Gesù.

Gesù era il centro di unità del gruppo degli apostoli, all’interno del quale avevano ciascuno la propria prospettiva, con idee e interessi divergenti. Fino a che c’era Gesù, i contrasti si scioglievano in lui. Ora egli se ne va: “Dove vado io voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo:  che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”.

Questo è importante, dice il vangelo di Giovanni: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”.

Se la fede in Gesù è capace di creare una vera comunione tra gli uomini, allora vuol dire che Gesù viene da Dio, perché quella comunione tra gli uomini è di forma divina, non è altro che l’incarnazione del mistero di Dio. E dove c’è questa incarnazione, si riconosce che c’è Dio stesso.

Il comando dell’amore fraterno non è solo un invito (Siate bravi!): i discepoli hanno ricevuto l’amore di Gesù e con quell’amore con cui sono stati amati possono ora amarsi a vicenda. Hanno ricevuto il dono della possibilità e della forza di amare. C’è ora in mezzo a loro un’energia spirituale che viene da Gesù e che permette di superare l’egocentrismo, aprendosi gli uni agli altri.

È un comando “nuovo”, non semplicemente “recente”.  Nuovo, teologicamente vuol dire “escatologico”, punto d’arrivo ultimo, che non diverrà mai vecchio, oltre il quale non si può andare, perché l’amore che viene qui comandato è la rivelazione dell’amore di Dio, che Gesù ci ha dato in pienezza e che va accolto con crescente disponibilità.

L’amore di Gesù non è solo il modello dell’amore fraterno: è la sorgente e l’energia che lo produce, quello che permette di vedere gli altri come fratelli.

E da qui l’affermazione: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

È un amore “firmato” dalla passione di Gesù, dal dono che ha fatto di se stesso, che diventa la testimonianza dell’azione permanente del Signore. Questa è la gloria di Dio che si manifesta nella carne di Gesù, ma anche nella nostra.

Allora il cammino di Gesù è il cammino del capocordata che siamo chiamati a seguire. E dove Gesù entra con la sua Pasqua, lì siamo chiamati ad entrare anche noi: “Voglio che siano con me – il ‘con me’ è la definizione del discepolo come colui che rimane in Gesù – dove sono io e contemplino la mia gloria”.

Il discepolo contempla la gloria di Gesù riconoscendo in lui il volto del Padre e viene così trasferito nella medesima immagine, che progressivamente, diventa sempre più intensa, più profonda, più pura, più autentica. E quando questo avviene, la nostra vita diventa gloriosa, partecipe della bellezza e santità di Dio.

Il “pezzetto di mondo” che noi siamo diventa riflesso della sua gloria.

“… Perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”: è il termine della preghiera ed è anche il compimento del disegno di Dio. L’amore che viene da Lui penetri la vita degli uomini, li trasformi e li renda capaci di amare con lo stesso amore. In Gesù l’amore di Dio si è incarnato e, attraverso lui, si incarna in noi.

(Appunti liberamente tratti dalle meditazioni di Mons. Luciano Monari agli esercizi spirituali diocesani, Cavallino 30 nov. – 2 dic. 2007)