S. Messa nella festa di Sant’Antonio di Padova
(Venezia / Basilica della Salute, 13 giugno 2024)
Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Cari confratelli nel sacerdozio e cari diaconi,
siamo qui per sciogliere l’annuale voto delle IX Congregazioni nella festa di sant’Antonio, momento significativo per il nostro presbiterio. Desidero ricordare innanzitutto il caro don Antonio Biancotto di cui solo tre giorni fa abbiamo celebrato il funerale; lo ricordiamo con affetto, stima e, personalmente, anche con ammirazione per come ha saputo vivere il passaggio da questa vita a quella eterna.
Dopo la lettura del testamento spirituale desidero riflettere con voi su un evento che segna la vita di alcuni santi: si tratta della cosiddetta “seconda conversione”, qualcosa che può entrare nella nostra vita spirituale ed interpellarci.
La seconda conversione per Antonio avvenne negli anni 1219-20 e coincise col passaggio a Coimbra di cinque francescani – Berardo, Ottone, Pietro, Accursio e Adiuto, i primi tre sacerdoti e gli altri due fratelli laici – che, personalmente, Francesco d’Assisi aveva inviato verso le zone musulmane della Spagna e poi verso il Marocco con l’intento di annunciare il Vangelo ai musulmani. La loro predicazione finì con un martirio oltremodo crudele, decapitati e lasciati in pasto agli uccelli; i loro resti furono portati poi nella chiesa agostiniana di Coimbra per esservi venerati.
L’esempio di testimonianza cristiana di questi cinque francescani, fino al martirio, orientò Antonio – da agostiniano che era – alla “conversione” tanto che decise d’entrare nel neonato Ordine francescano. È proprio qui che diventa “Antonio”; fino ad allora, infatti, si chiamava “Fernando”, il nome ricevuto al fonte battesimale.
Molte volte per i santi è così: c’è un evento inatteso che emerge dalla realtà e che suscita in loro una grazia particolare un balzo nella vita di fede. Sì, è una nuova “conversione” e chi già aveva risposto alla prima chiamata vede ora in modo nuovo la propria vita in Cristo. Cito due esempi.
Giuseppe Benedetto Cottolengo: sacerdote che nell’Ottocento a Torino aprì le Piccole Case della Divina Provvidenza per i malati, i rifiutati, gli handicappati, gli orfani, le ragazze in pericolo e gli invalidi. Ma tutto ciò non avvenne subito. Ci fu un episodio che cambiò tutto – “la grazia della Madonna” (come poi lo definì) – e trasformò la sua vita da prete in crisi a “manovale della Provvidenza”. Fino ad allora aveva conseguito la laurea con plauso e lode il 14 maggio 1816 ed era stato annoverato tra i Canonici della collegiata del Corpus Domini, un posto che gli garantiva visibilità e buona rendita, ma era tutt’altro che contento di sé. Il fatto accade quando Giuseppe Benedetto Cottolengo aveva già 42 anni e venne chiamato al capezzale di una giovane donna francese, Giovanna Maria Gonnet, mamma di tre figli e in avanzato stato di gravidanza, che muore insieme alla sua bimba nata prematura dopo essere stata rifiutata dall’ospedale di allora perché malata di tubercolosi. In quel momento il Cottolengo comprende che è chiamato a fare qualcosa di più per i poveri, per i dimenticati, per gli scartati e messi ai margini. E così avverrà poi con l’opera di misericordia che riuscirà a mettere in piedi.
Più nota è la seconda conversione di Teresa di Gesù (Teresa d’Avila), donna forte che entra in convento a 20 anni con una “fuga” – vincendo l’opposizione del padre – e poi, intorno ai 40 anni e in mezzo a molte tribolazioni, ebbe quella che lei stessa chiamò la sua “seconda conversione”, raccontata così: “I miei occhi caddero sopra una immagine che era stata posta lì, in attesa della solennità che doveva farsi in monastero. Raffigurava Nostro Signore coperto di piaghe. Appena la guardai mi sentii tutta commossa, perché rappresentava al vivo quanto Egli aveva sofferto per noi: fu così grande il dolore che provai al pensiero dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore, che mi parve il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime, e lo supplicai a darmi forza per non offenderlo più” (Teresa d’Avila, Vita 9,1). Da lì cominciò a prendere forma, tra tante difficoltà, la riforma del Carmelo e la fondazione di nuovi monasteri.
“Animati… da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo…” (2Cor 4,13), dice san Paolo che, poi, aggiunge: “Per questo non ci scoraggiamo” (2Cor 4,16).
Così è stato anche per Antonio; il Santo visse una seconda conversione che lo portò ad entrare nell’ordine appena fondato da Francesco diventando il grande e umilissimo predicatore, amato e cercato dalla gente, riconosciuto in questo anche da Francesco che, tra il 1223 e il 1224, gli mandò uno scritto – autorizzandolo ad insegnare la teologia ai frati, purché non andasse a scapito della preghiera – in una vera investitura a teologo: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione, non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola” (San Francesco d’Assisi, Lettera a frate Antonio).
La grande questione della fede, vissuta e annunciata, insieme al primato di Dio da affermare nella vita, è ciò che Antonio ci pone dinanzi. Tutto ciò chiama in causa la nostra cultura in cui, troppo spesso, viene abolita la differenza tra bene e male – come realtà distinte e distinguibili – e in cui Dio è messo, semplicemente, da parte o, tra le tante cose, una delle tante. Questa è la nuova forma di secolarismo: Dio non lo si nega, è semplicemente una delle tante presenze della vita ma così non vi è più un vero riferimento a Qualcuno, al di là del contingente e del provvisorio.
Esiste solo l’elemento storico o quello che pare esserlo o richiamarlo. L’uomo viene considerato come un essere unicamente “culturale”, ossia plasmato totalmente dalla storia e nella storia, frutto del “divenuto” o del “divenire”. Sì, è il risultato del divenuto e, quindi, di fatto un super uomo, in totale autonomia, norma a sé medesimo: ecco il cantiere antropologico del cosiddetto post-umano o trans-umano.
Sembra riecheggiare quel racconto di Nietzsche che, di fatto, evidenzia la crisi morale del nostro tempo e il suo radicale nichilismo: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! (…) Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? (…) Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!”» (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza – Aforisma 125). Nietzsche va conosciuto per non fermarsi al suo pensiero ma per andare oltre!
Sant’Antonio – come san Paolo e tanti altri santi, anche del nostro tempo – si è lasciato convertire, ha creduto e perciò ha potuto parlare con sapienza e forza, ha accolto e trasmesso integralmente il Vangelo, che è la persona stessa di Gesù, in un’epoca non meno difficile della nostra.
Concludo con una frase dell’omelia che sant’Antonio pronunciò in una festa liturgica dell’Ascensione del Signore perché a me richiama anche la dedizione e lo spirito sacerdotale di don Antonio Biancotto: «Credere vuol dire “dare il cuore” (lat. credo, cor do)… Chi dà il cuore, dà tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio; viene battezzato, quando si inonda di lacrime o per la dolcezza della contemplazione divina, o per il ricordo della sua iniquità, oppure per la compassione che prova di fronte alle necessità dei fratelli. “Invece chi non crede”, non dà il cuore a Dio, e se non lo dà a Dio, necessariamente lo darà al diavolo, o alla carne, o al mondo…» (Sant’Antonio, Sermone per l’Ascensione del Signore, paragrafo 5). Dare il cuore non è solo un modo di dire; nel linguaggio comune significa dare tutto.