S. Messa Pontificale nella solennità di Santa Venera
(Acireale, 26 luglio 2024)
Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Ringrazio il Vescovo Antonino per l’invito e saluto il cardinale S.E. Paolo Romeo, i confratelli arcivescovi e vescovi, le autorità civili e militari e la Chiesa di Acireale qui radunata per le celebrazioni in onore della santa patrona, Vènera.
Iniziamo con una domanda: in una società post-cristiana ha ancora senso festeggiare il santo patrono? Per una comunità cristiana la risposta è scontata e, proprio per questo, la domanda rischia di rimanere sempre e solo sullo sfondo mentre è bene riportarla in primo piano.
I patroni (i santi) dicono come dovrebbe esser la vita del battezzato. Il santo, infatti, è oggi l’immagine viva del Signore Gesù; il santo è colui o colei che ha esercitato in modo eroico le virtù. Santa Vènera, la nostra patrona, lo ha fatto dando la vita fino al martirio.
Spesso si sente dire: cambiamo la Chiesa, aggiorniamola, rinnoviamola, ammoderniamola. Ma la Chiesa, prima di tutto, va contemplata ed amata; solo dopo la si può rinnovare avendo come riferimento il Signore Gesù e Lui solo. Talvolta ci lasciamo guidare, invece, dai gusti personali o dalle idee che vanno per la maggiore.
Così il patrono o la patrona sono figure carismatiche a cui una Chiesa fa riferimento ed aggiungono qualcosa di specifico, oltre l’ecclesiologia e la teologia. Il patrono o la patrona segnano la storia e la spiritualità di una Chiesa.
Vènera è una donna e, oggi, ciò riveste un’importanza particolare perché la nostra è una società ancora troppo plasmata da paradigmi maschili che, per esempio, mirano sempre all’efficienza, alla produttività, ai risultati. La cultura moderna e soprattutto contemporanea, poi, ha assunto come valori assoluti l’emancipazione, la performance, la crescita economica, il successo e sogna un futuro segnato da un progresso illimitato, senza fine.
Ma anche i più ottimisti comprendono che il progresso non può essere indefinito e infinito e la tecnoscienza non può dare risposta alle domande sul senso: cos’è il bene, cos’è il male, perché ricercare la verità, da dove viene l’uomo e dove è diretto. Le scienze empiriche e le scienze sociali – in cui la matematica si applica ai fenomeni, le ipotesi vengono verificate, le teorie sono continuamente superate da altre nuove, in base al criterio della falsificabilità – non danno risposte a tali domande.
Cosa dice, allora, a noi oggi santa Vènera, donna, evangelizzatrice e martire? Intanto che la donna può raggiungere il vertice del discepolato più degli uomini e, inoltre, con una sua specificità; pensiamo, per esempio, anche ad Agata e a Lucia. L’esempio a cui dobbiamo riferirci è Maria – la Madre di Gesù -, donna, vergine, sposa, madre. Maria non è solo modello della Chiesa ma è realtà ecclesiale. Maria è donna ed anche la Chiesa è donna, sposa, vergine, madre.
Santa Vènera offre una testimonianza che esprime la pienezza della verginità, dell’annuncio evangelizzatore e della vita battesimale fino al martirio.
La verginità nella Chiesa è il dono “pieno” di sé al Signore Gesù – spirito, anima e corpo – e così Vènera è figura attualissima in una cultura in cui il tutto viene ridotto alla parte, la sessualità si separa dalla genitorialità e viceversa, lo spirito dall’anima, l’anima dal corpo. La verginità non è solo un fatto fisico, ma riguarda sempre il pensiero, la parola, lo stile di vita, il modo di rapportarsi agli altri, di vestirsi, di proporsi nel quotidiano; certamente ha a che fare col corporeo ma non si riduce a questo.
La verginità di Maria dice che nella persona il biologico – il grembo materno – a pieno titolo entra a far parte del sì della fede e, quindi, vi è un rapporto intrinseco tra “biologico”, “umano” e “teologico” perché il sì di Maria (la fede) porta al concepimento verginale (il grembo fecondo). Tutto questo vuol dire che stiamo di fronte a Dio come persone, ossia in spirito, anima, corpo (cfr. 1Ts 5,23).
Alla luce della filosofia dell’emancipazione l’uomo vuole liberarsi da tutto, anche dal suo corpo, al punto da considerarlo insignificante. Essere uomo o donna non è più considerato significativo ma, facendo così, si smarrisce la persona e questo è il dramma del nostro tempo: smarrire la persona considerandola, di volta in volta, o spirito o corpo e, alla fine, né l’uno né l’altro.
Pensare la persona solo come spirito è eresia. Ricordiamo la nota frase di Pascal che, riferendosi alle monache di Pont-Royal, diceva: “Pure come angeli, superbe come demoni”. Miravano ad essere angeli, il corpo non le riguardava, e già per questo erano superbe come demoni.
La verginità, quindi, è richiamo alla persona nella sua concretezza e completezza dove – come abbiamo detto – il biologico appartiene, a pieno titolo, alla storia della salvezza, alla creazione e alla redenzione operata da Cristo inchiodato sulla croce. Maria, col suo sì, unisce il biologico (il grembo), al teologico secondo il progetto di Dio: è la madre vergine del Verbo Incarnato.
La prima lettura tratta dal Siracide (Sir 51,1-12) offre una visione complessiva della vita del pio israelita. Il testo che è stato proclamato, infatti, contiene una preghiera che è anche una professione di fede e bene risuona sulle labbra di santa Vènera: “Ti loderò, Signore, re, e ti canterò, Dio, mio salvatore, loderò il tuo nome, perché sei stato mio riparo e mio aiuto” (Sir 51,1-2).
La seconda lettura (1Cor 1,18-25), invece, ci porta alla Chiesa di Corinto; Paolo narra la sapienza della croce che è stoltezza per chi non crede e salvezza per il credente. Noi non apparteniamo ancora al Vangelo se non possediamo la sapienza della croce in cui la libertà umana di Cristo acconsente al progetto del Padre che crea e dà un fine alla sua opera (cfr. Col 1,13-20; Ef 1,3-14). La fedeltà di Gesù, quindi, porta alla croce; il sì di Gesù salva il mondo.
Diffidiamo, allora, di noi stessi; è facile ricevere il plauso del mondo quando si propone un cristianesimo senza croce (cfr. Lc 6,26). I Giudei vogliono i miracoli, i Greci la sapienza (cfr. 1Cor 1,22); i miracoli ci danno quello a cui aneliamo, le scienze il senso dell’onnipotenza. Tali miracoli e tale sapere scientifico ci danno la sensazione d’esser salvi, quasi fossimo depositari di una conoscenza e di un potere umano salvifico (ecco la gnosi); è quel messianismo che Satana presenta a Gesù, all’inizio della vita pubblica (cfr. Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13).
Santa Vènera è adorna della corona del martirio, la forma più alta di santità, e anche oggi si dice che ciò che conta è l’appartenenza a Cristo, la fedeltà al Battesimo, la rinuncia al male, la promessa di essere di Cristo.
Ci eravamo chiesti, all’inizio, che senso avesse oggi il patrono o la patrona per una comunità cristiana e per il singolo discepolo. L’eroicità delle loro virtù ci fa sentire tutta la nostra miseria e lontananza da loro eppure è vero che i patroni sono figure di riferimento preziosissime per una Chiesa, per una città e un territorio; essi proteggono la loro gente.
Grazie al battesimo, noi, con loro (i nostri fratelli più dotati), siamo inseriti in Cristo come dice la parabola della vite e dei tralci (cfr. Gv 15,1-10). Certo, di fronte a loro, siamo tralci meno rigogliosi ed anzi talvolta avvizziti ma, come loro, siamo parte dell’unica vite, il Signore Gesù.
Secondo l’antica liturgia della Chiesa il catecumeno – nell’atto di ricevere il battesimo e prima d’essere immerso nel fonte – si volgeva ad Occidente, la terra del tramonto e delle tenebre, per fare la sua rinuncia agli stili di vita del mondo e al peccato, ossia a Satana. Poi, volgendo lo sguardo ad Oriente, dove sorge il sole, riconosceva Cristo Signore, il vero sole che illumina ogni uomo.
Mettiamoci, allora, alla scuola di santa Vènera, vergine, evangelizzatrice e martire. E viviamo le promesse del nostro battesimo rimanendo uniti a lei, come lei è unita a Cristo. L’intercessione di santa Vènera ci renda capaci di far fiorire in noi la grazia del Battesimo e – come dice la Colletta della Messa – di proclamare, con tutta la nostra esistenza, la croce e la risurrezione del Signore Gesù, unico Redentore.