In calce il testo integrale dell’omelia del Patriarca Francesco Moraglia durante la S. Messa per l’ordinazione presbiterale
Un desiderio di pienezza: è ciò che accompagna Giacomo Ridolfi fin da quand’era bambino e che ora trova compimento nell’ordinazione sacerdotale, che sabato 22 giugno (ore 10) in San Marco riceverà per le mani del Patriarca Francesco. Pienezza, libertà e dono sono tre parole chiave nella vita di Giacomo, mestrino, 30 anni. Forse è il caso di partire dalla parola libertà, o da una delle sue accezioni: «È stato per volontà dei miei genitori, ma prevalentemente di mia mamma, che si dichiarava non credente, che da piccolo non sono stato battezzato. L’idea era che, rispetto al credo religioso, io fossi libero di scegliere da grande». Ma è la Provvidenza a mettere sul cammino del piccolo Giacomo due esperienze importanti: «Quella basilare è stata mia nonna paterna, che è molto credente. Il sabato e la domenica andavo da lei e con lei andavo a Messa: semplicemente vedendola imparavo anch’io che cosa fosse la fede». (…)
Nella veglia di Pasqua 2009 Giacomo riceve tre sacramenti: Battesimo, Eucaristia e Confermazione. La vita continua poi con la scuola – ragioneria al Foscari – e l’università: economia aziendale a Ca’ Foscari, con laurea triennale nel 2017: «Mi piaceva l’analisi dei costi, la contabilità gestionale, il buon funzionamento dell’azienda…». E la fede? Facciamo un passo indietro: «Don Gianni mi invita a partecipare al campo di orientamento vocazionale, allora guidato da don Raffaele Muresu. E di fronte alla mia domanda – Signore, indicami una strada… – quell’anno al campo c’era il segno di una lampada, dentro cui c’erano il nome e il cognome di ciascuno di noi. È stato allora che mi sono trovato di nuovo di fronte a un bivio…». Ma un ragazzo di 16-17 anni perché vuole entrare in Seminario? «Vedevo persone felici e che si volevano bene. Mi colpiva, per esempio, la fraternità fra i frati e le suore: un modo di volersi bene che non avevo visto da altre parti. E questo mi colpiva davvero tanto. Non ho pensato inizialmente alla vita del sacerdote in sé, ma a quest’esperienza di fraternità differente rispetto ad altri stili di relazione».
Poi un passaggio di consapevolezza, dove si affacciano potentemente le idee di dono e di pienezza: «Conducevo – ricorda Giacomo Ridolfi – una normale vita da cristiano. Pensavo: a catechismo ci vado, a Messa pure, mi confesso, prego le Lodi… Al contempo avevo presente dei progetti: continuare l’università, trovarmi una ragazza, avere una macchina e alla fine… farmi gli miei, stare tranquillo. Ma quando questi pensieri si affacciavano non ero felice. E benché non ci fosse in essi nulla di male sentivo che mancava qualcosa. Capivo che della mia vita non stavo facendo un dono, ma volevo farla mia, e di ciò si rendeva conto la mia tristezza. Io cercavo tutte queste cose, ma in effetti volevo nascondermi, scavare una buca, mettere il mio talento sottoterra ». Anche l’innamoramento per una ragazza, a 18 anni, non fa che rendere Giacomo maggiormente consapevole «che il Signore mi stava chiedendo un’altra cosa». La strada è tracciata, il desiderio si fa via via più chiaro e riceve conferme anche negli anni successivi, fino a quando un sacerdote gli dice netto: «La tua è una grande vocazione al sacerdozio».
Da lì il percorso continua con l’ingresso in Seminario e la formazione, fino ad oggi, fino all’ordinazione di sabato 22 in San Marco. Passando per un altro momento chiave, sia dal punto di vista umano che religioso: la perdita della mamma. Un momento in cui libertà, dono e pienezza di vita si intersecano di nuovo. «La mamma – ricorda don Giacomo – è mancata nel 2023, per un tumore. Quello che mi premeva era che prima di lasciare questa vita potesse incontrare il Signore… Volevo che potesse credere e fin dai 15-16 anni ho iniziato a pregare per lei, un’Ave Maria tutte le sere, chiedendo al Signore che la potesse convertire. Quello che mi commuove e mi aiuta anche oggi è che lei, nell’ultimo giorno della sua vita, guardava il crocifisso. Qualcuno diceva: è un riflesso involontario. Non credo. Esplicitamente non aveva mai detto di aver rivisto la sua posizione, ma un giorno, in ospedale, dopo che per il Covid non aveva potuto ricevere nessuno per molto tempo, mi dice: “Comunque c’è sempre qualcuno che mi guarda”. E io le dico: ma chi è? Non vedo nessuno; e di certo non pensavo a Gesù. E lei: “C’è Gesù che mi guarda”. Quelle parole mi hanno commosso, così come il suo sguardo al Crocifisso. Io non so se si sia convertita, ma tutto ciò mi fa credere che lei all’ultimo abbia incontrato il Signore».
(estratto dall’articolo di Giorgio Malavasi su Gente Veneta n. 25/ 2024)