La riflessione del Patriarca al Redentore: “Siamo dei salvati, dei perdonati, dei riconciliati. La festa del Redentore indica come Gesù si china su di noi”

Venezia, 21 luglio 2024

Condividiamo il testo integrale dell’omelia che il Patriarca Francesco ha pronunciato questa sera durante la Santa Messa iniziata alle ore 19.00 nella solennità del Santissimo Redentore presso l’omonima basilica alla Giudecca.

 

S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore

(Venezia / Basilica del Santissimo Redentore, 21 luglio 2024)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

Saluto le autorità civili e militari, i presbiteri, i membri delle congregazioni, i diaconi, i consacrati, i laici e la fraternità cappuccina.

Una festa liturgica deve aiutare la comunità ecclesiale ad essere se stessa, a valorizzare, nella comunione, le molteplici vocazioni che la costituiscono e il rapporto con Dio nell’atto dell’adorazione e della carità vissuta.

Sono ancora presenti, in noi, le parole e la testimonianza di Papa Francesco che abbiamo accolto il 28 aprile scorso in visita a Venezia.

Anche quest’anno rinnoviamo il voto che i nostri padri hanno fatto quasi 450 anni fa per essere liberati dal morbo della peste che mieteva morte in città e nei territori della Repubblica.

Oggi siamo chiamati a ripensare il nostro modo di essere cristiani.

La festa del Redentore è una bella occasione perché ci conduce al cuore della fede cristiana: noi siamo dei salvati, noi siamo dei perdonati, noi siamo dei riconciliati. Il Redentore indica come Gesù si china su di noi, sulle nostre ferite e su quelle delle nostre comunità; ci sono le ferite del corpo e quelle dell’anima e poi ci sono anche quelle psicologiche.

Dobbiamo cogliere tale opportunità. Talvolta guardiamo la Chiesa, la persona di Gesù e i sacramenti (Battesimo ed Eucaristia) considerandoli come realtà giustapposte fra loro, quasi “cose” che ci stanno dinanzi. Invece siamo chiamati a cogliere, in una fede vissuta nella carità, la rivelazione cristiana nella storia cogliendo il suo punto di riferimento che è Gesù Cristo, il Redentore, verso il quale tutta la storia è protesa.

Il Signore risorto è la pienezza della redenzione e noi siamo salvati nella speranza, come ricorda la seconda lettura di oggi: “La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi” (Rm 5,5-6).

Ma l’amore di Dio “riversato” in noi – e i doni vanno ricevuti, accolti e vissuti – è la stessa persona del Signore Gesù che, per opera dello Spirito Santo, si rende visibile nel sì della Vergine Maria che cambia il mondo. E Lui è stato anche segno di contraddizione, come ci dice il Vangelo che va sempre letto a 360° e non versetto per versetto selezionando quello che, di volta in volta, ci può andare bene.

La celebrazione liturgica ci fa vivere la Chiesa come “noi” e non come singoli “io” giustapposti. Questo “noi” ha il suo fondamento nel Signore Gesù che è il centro della nostra salvezza. Noi entriamo nella salvezza tramite i sacramenti della Chiesa, la Chiesa è il sacramento di Cristo e Cristo, nello Spirito Santo, è il sacramento del Padre.

Il nostro incontro con Cristo – il Redentore che perdona e chiede alla Chiesa d’esser portatrice di perdono e riconciliazione – avviene nella Parola e nei sacramenti; la Chiesa è proprio tale relazione vivente con Cristo. Parola e sacramenti richiedono sempre la conversione, ossia il liberarsi dal nostro uomo vecchio.

Andiamo così al cuore della cristologia, ossia al Verbo che si riveste di carne umana e si fa storia nel mondo. Quale è, dunque, il mistero intimo di Cristo Redentore? Quale è il suo “io” che è, insieme, l’ “io” del Verbo?

Il Redentore è il sì libero e doloroso dell’“io” umano di Cristo – il Verbo incarnato – che acconsente al progetto di Dio che si compie nel contesto di un’umanità che si è allontanata da Dio; un’umanità peccatrice che ha fatto della volontà autonoma e dell’idea dell’emancipazione, da tutto e tutti, il suo criterio.

Ora per la prima volta, nell’ “io” filiale di Cristo, si fa presente l’umanità che Dio ha, da sempre, pensato e voluto. L’Adamo della Genesi si allontana dal progetto di Dio ma Gesù, il vero Adamo – come ricorda la lettera ai Romani – lo avvicina e lo rende presente di nuovo.

Ma come si fa accessibile a noi l’“io” di Cristo nel quale, finalmente, si risponde positivamente al progetto di Dio? Come possiamo farne parte? Entrando nella Chiesa, la compagnia di Cristo morto e risorto.

La Chiesa è comunione, ma dov’è l’inizio della comunione? La Chiesa è il corpo di Cristo, è la sposa. La Chiesa è quel campo dove si trova il buon grano e la zizzania; entrambi devono convivere per esprimere realmente chi è grano buono e chi è zizzania.

Talvolta ci riferiamo alla Chiesa e all’Eucaristia soffermandoci sugli aspetti “esterni” – la comunità, la festa, i canti… (cose peraltro bellissime) – ma così rischiamo di perdere di vista la realtà ultima che, per l’Eucaristia, è quell’ “io” doloroso del Figlio che dice sì al Padre; è una comunità che – in tutte le vocazioni che la costituiscono – pensa come Gesù Cristo, il Redentore, parla come Lui ed ha il suo stesso stile di vita.

L’Eucaristia non è solo celebrazione, non è solo banchetto; è presenza reale, è amore totale di Gesù Cristo consegnato alla Chiesa. “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”: c’è un legame intrinseco con la Chiesa, la comunità che è il corpo di Cristo, un amore sponsale, indissolubile che rimane per sempre, fino alla morte. Ecco perché il matrimonio è indissolubile: è dono della persona per sempre, come l’amore di Cristo per la Chiesa.

Tale amore, donato nel sacramento dell’Eucaristia, costruisce la Chiesa, ossia l’umanità salvata, e così il titolo “Redentore” non è qualcosa di astratto ma richiama la misericordia, la vicinanza, il dono concreto di Gesù che cambia il nostro modo di pensare, parlare, agire, essere; cambia la nostra vita, cambia la nostra comunità. Quando la ricevo, l’Eucaristia mi assimila a Colui che è nell’Eucaristia.

È proprio attraverso l’Eucaristia che diventiamo Chiesa e, quindi, possiamo celebrare l’Eucaristia. Sì, sul piano del ministero noi celebriamo il sacramento mentre prima, sul piano del mistero, l’Eucaristia ci costituisce Chiesa. Nella seconda preghiera eucaristica, dopo la consacrazione, colui che presiede dice: Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”.

Sì, Cristo viene prima della Chiesa, viene prima di noi, viene prima della nostra celebrazione che è resa possibile solo da Lui, il solo capace di renderci Chiesa perché è il nostro Redentore.

La festa del Redentore, inoltre, ci ricorda che siamo una Chiesa in costruzione, la comunità del Risorto, da Lui edificata e che cerca di fare sua la redenzione vivendo il sacramento dell’Eucaristia: “Annunciamo la tua morte proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta“.

Non è possibile l’imporsi o l’appropriarsi teologicamente e liturgicamente dell’Eucaristia da parte di una comunità o di una parte d’essa; l’Eucaristia plasma la comunità e non viceversa.

Partecipare all’Eucaristia alla domenica, allora, non è mai solo un obbligo giuridico. La Chiesa è quella comunità umana che, a volte, deve fare i conti con la pesantezza degli uomini ma non dimentichiamo, soprattutto, che la Chiesa è la comunità dei santi e delle sante.

Il cristiano è una persona eucaristica, altrimenti non è cristiano! E una comunità si lascia plasmare dall’Eucaristia quando, nella grazia, si rende disponibile ad una vera vita eucaristica. Ma la carità cristiana rischia, a sua volta, di ridursi al puro umano o al sociale, trasformando la Chiesa in una attività in occasione di Gesù Cristo. La speranza cristiana, poi, non è l’ottimismo umano o l’autoconvincersi che alla fine tutto andrà bene.

La carità e la speranza del cristiano sono originate dalla fede, dal sì di Cristo al Padre, che consente di costituire un’umanità nuova e quell’amore “politico” di cui ha parlato Papa Francesco a Trieste – nel contesto delle Settimane Sociali – quando ha sollecitato i cattolici a non trincerarsi in ”una fede marginale, o privata” ma di appassionarsi al bene comune e puntare tutto su quell’amore “che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile” (Papa Francesco, Discorso del Santo Padre in occasione della 50^ Settimana Sociale dei cattolici in Italia, Trieste 7 luglio 2024).

Noi siamo e rimaniamo sempre dei redenti. Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano (cfr. Lc 18,9-14); si tratta di riconoscersi peccatori e di non giudicare la parola di Dio. Sì, è l’Eucaristia che ci rende Chiesa e noi entriamo nel sì del Verbo nel momento dell’incarnazione, della sua vita pubblica e della croce. Le nostre rinunce battesimali inscrivono in noi il sì di Gesù che vince Satana e le sue tentazioni che voleva un messianismo secondo il mondo, un messianismo materialista, solo terreno.

All’inizio della vita pubblica di Gesù, infatti, c’è il richiamo – la tentazione, da parte di Satana – al successo, al potere, alla notorietà (cfr. Mt 4,1-11 / Mc 1,9-13 / Lc 4,1-13). Cosa facciamo per essere conosciuti e per esercitare il potere? Quale è la tentazione più grande per un uomo? Guardiamo alla famiglia, il primo nucleo della società umana. Il papà e la mamma non sono l’amico o l’amica dei figli e delle figlie; i figli di amici ne avranno tanti (almeno così auguriamo loro…), di papà e mamma ne hanno uno e una sola; ebbene, la loro tentazione prima è, spesso, quella di dare tutto al proprio figlio o alla propria figlia perché parlino bene di loro e li amino.

Gli antichi Romani parlavano di “panem et circensem”: garantire la sazietà del corpo insieme al divertimento. Circa tale questione riflettiamo su quanto propongono non pochi programmi televisivi a noi e ai nostri giovani.

Essi veicolano la suggestione del primo posto, del comando, la tentazione che tutti parlino bene di noi. E allora non si fa più il proprio dovere perché, altrimenti, si scontenta qualcuno. Un papà e una mamma che raccolgono la sfida educativa, prima di tutto, sono chiamati non a dare qualcosa ai figli ma a cercare di proporre loro la verità e l’amore della vita.

Certo, la verità fa male (come diceva una canzone degli anni Sessanta) ed è vero; la verità fa male perché c’è un dolore che inizia con un’ascesa, un cammino ed una conversione. Il sacramento della riconciliazione ci porta a riconoscere la verità della nostra vita di peccatori, non per deprimerci ma per non cadere nella tentazione di rimuovere il peccato. Chi rimuove qualcosa, nella sua vita, poi se la ritrova come un problema giganteggiante.

“Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,9), ci dice il Redentore. E ci vuole molta forza, a volte, per essere miti e umili di fronte a certe situazioni e a certe persone… L’umiltà, poi, è la cosa più difficile. San Benedetto dice che un monaco è pronto per fare l’abate quando smette di parlare di se stesso. Sono tanti i modi in cui si parla di sé o si fa parlare di se stessi; uno di questi è il piangersi addosso. Poi Benedetto chiede di vincere la sensualità. Ricordo un fatto che mi ha molto colpito. Nel giro di pochi giorni, due persone diversissime per la loro vita (un libertino e un monaco), con cui avevo avuto la possibilità di colloquiare, mi dissero la stessa cosa: il sesso va governato, altrimenti diventa padrone della vita.

Le catechesi di san Cirillo di Gerusalemme (IV sec. d.C.) ci dicono come, nelle prime comunità cristiane, chi riceveva il Battesimo, prima di immergersi nel fonte, si voltava ad Occidente – la terra del tramonto, delle tenebre – e rinunciava a Satana (l’avversario) e ai suoi stili di vita che si oppongono a Dio, anche nel senso del “tutti fanno così” o del politicamente corretto. Poi si voltava ad Oriente, dove sorge il sole, per riconoscere il vero sole che è Gesù, il Redentore.

Il sì del cristiano s’inscrive all’interno dello stesso sì detto da Gesù nell’orto degli Ulivi, tra apostoli assonnati e incapaci di capire. È il sì di Cristo in croce che dice: “È compiuto!” (Gv 19,23). Sì, tutto è compiuto; da qui nasce la Chiesa e ciascuno di noi.

Non a caso Gesù fa tale dono dalla croce, mentre recita il salmo 21 in cui, oltre alle parole riportate dagli evangelisti – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (v. 2) -, risalta tutta la sofferenza di Cristo. Il salmo, nella sua interezza, ci mostra come dal sacrificio di un solo uomo – il Signore Gesù, il Giusto condannato ingiustamente – nasca un popolo nuovo.

“Gesù – è ancora Francesco a Trieste – ha vissuto nella propria carne la profezia della ferialità, entrando nella vita e nelle storie quotidiane del popolo, manifestando la compassione dentro le vicende, e ha manifestato l’essere Dio, che è compassionevole… Egli è rimasto fedele alla sua missione, non si è nascosto dietro l’ambiguità, non è sceso a patti con le logiche del potere politico e religioso. Della sua vita ha fatto un’offerta d’amore al Padre. Così anche noi cristiani: siamo chiamati a essere profeti, testimoni del Regno di Dio, in tutte le situazioni che viviamo, in ogni luogo che abitiamo” (Papa Francesco, Omelia del Santo Padre in occasione della 50^ Settimana Sociale dei cattolici in Italia, Trieste 7 luglio 2024).

Guardiamo al Redentore con sguardo di fede, a partire da una più concreta appartenenza alla Chiesa e passando attraverso l’Eucaristia che, come detto, non è in primis rito o celebrazione ma lo stesso Mistero di Cristo, accessibile alle nostre comunità e a ciascuno di noi e che ci trasforma in Lui.

Chiediamo al Signore di lasciarci “divorare” dall’Eucaristia, nel momento in cui ce ne cibiamo, perché l’Eucaristia, alla fine, rimanda a ciascuno di noi, alla nostra vita e alle nostre comunità. Il nostro mondo ha bisogno di persone e di comunità che ragionano, parlano ed hanno lo stile del Redentore.

Vorrei ricordare anche, in questa celebrazione, la ragazza che ha perso la vita nella notte scorsa agli Alberoni. E insieme a Lei vorrei ricordare tutti i genitori che soffrono per i loro figli. Il Signore li aiuti sempre.