Il senso del pellegrinaggio nella Bibbia


Carmine Di Sante

(Note di Pastorale Giovanile 95-6-17)

II pellegrinaggio –  l’andare da un posto all’altro «attraverso i campi» (per agra, secondo l’etimo latino) – non è un aspetto secondario e irrilevante dell’uomo biblico, ma il tratto costitutivo e permanente della sua esistenza. Ed essendo l’esistenza biblica paradigma dell’esistenza cristiana, esso è anche il tratto costitutivo della nostra esistenza.

E’ questa la ragione per la quale la pratica del pellegrinaggio dalla bibbia è passata alla tradizione cristiana che, dagli inizi ad oggi, anche se in modalità sempre nuove a seconda delle culture e dei tempi, ne ha fatto uno dei mezzi efficaci, soprattutto a livello popolare, di autocomprensione della propria fede.

Tratto costitutivo dell’uomo biblico e della tradizione cristiana, il pellegrinaggio non ha però conservato lo stesso significato, a causa della diversa lettura che se ne è fatta per il dualismo greco-platonico entrato nella riflessione teologica.

Scopo di queste pagine, rivolte ai giovani «in pellegrinaggio» alla casa di Loreto, è ridisegnare le grandi linee teologiche e spirituali del pellegrinaggio biblico.

Per la bibbia il pellegrinaggio è metafora dell’umano secondo Dio: attraverso di esso – come finestra aperta – è dato di sapere chi è Dio, chi sono io e quale il rapporto affascinante ed esigente tra l’uno e l’altro. Esso è come un’immagine o icona in cui si dice e si rivela il mistero dell’incontro dell’uomo con Dio: gratuità o disinteressamento che chiama ad uguale gratuità o disinteressamento.

Alcuni riferimenti biblici

Nelle scritture il pellegrinaggio è tratto costitutivo e permanente dell’uomo biblico. Almeno tre i riferimenti importanti che legittimano la fondatezza di questa affermazione.

Il primo riferimento è ad Abramo, il padre per antonomasia della tede (cf Rom 4,2) che Dio stesso, secondo il testo biblico, costituisce, per vocazione, «nomade» o «pellegrino»: «Il Signore disse ad Abramo: “Vàttene, dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò…”». A livello storico la famiglia o tribù di Abramo era, come ogni altra famiglia o tribù dell’epoca, nomadica: che traeva la fonte della sussistenza dalle greggi che si spostavano da un luogo all’altro in cerca delle fonti d’acqua e dei pascoli. Il testo biblico rilegge questo nomadismo storico-culturale di Abramo teologicamente: il suo spostarsi non è più motivato dalla ricerca delle fonti della propria sussistenza bensì dal volere di Dio che, attraverso questo spostamento, realizza un progetto d’amore trascendente: l’ingresso del suo popolo in una nuova terra, qualitativamente diversa da quella del suo punto di partenza. Per il testo biblico l’esistenza di Abramo è, teologicamente,  esistenza nomadica o pellegrina, perché il suo andare è orientato a una meta o «patria» paradossale: non la propria meta o patria, che è da abbandonare e rinnegare («Vattene, dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre»), bensì una meta o patria che Dio stesso stabilisce («verso il paese che io ti indicherò»).

Il secondo riferimento è all’esodo, il racconto fondativo dell’identità di Israele come popolo, che Dio libera dalla schiavitù ed introduce nella terra di Canaan «dove scorre latte e miele». Come è noto però l’ingresso in questa terra non avviene immediatamente, dovendo il popolo attraversare il deserto per quarant’anni.

Il racconto esodico, che si dispiega dal secondo libro del Pentateuco fino al libro di Giosuè, è il racconto drammatico e affascinante del cammino o peregrinare di Israele nel deserto: cammino lungo che coincide con l’intera esistenza (nessuno infatti dei liberati dall’Egitto entrerà nella terra promessa, neppure Mosè che la vedrà solo da lontano) e soprattutto cammino paradossale perché in esso, luogo per eccellenza della minaccia e della morte, Israele fa l’esperienza della vita che Dio gli dona gratuitamente, provvedendo egli stesso ogni giorno al suo bisogno: «gli israeliti mangiarono la manna per quarant’anni, fino al loro arrivo in una terra abitata, mangiarono cioè la manna finché furono arrivati ai confini del paese di Canaan» (Es 16, 35).

Il terzo riferimento è alle grandi feste di Israele (pasqua, pentecoste e tabernacoli), feste dette appunto di «pellegrinaggio» perché si celebravano in un unico luogo o santuario verso il quale ciascuno confluiva provenendo dal proprio paese d’origine.

Con l’unificazione delle tribù sotto Davide e con la centralizzazione del culto che ne seguì, fu Gerusalemme a divenire meta dei pellegrinaggi: meta non solo delle tribù israelitiche ma, nella prospettiva utopica del profetismo, anche di tutti i popoli della terra: «Allora i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria» (Is 62, 2). Il bellissimo salmo 122 – il salmo dei pellegrini che salgono a Gerusalemme – riecheggia mirabilmente il senso di commozione e di gioia da cui si era pervasi all’idea di mettersi in viaggio verso la città santa, luogo della dimora del Dio volte santo:

Quale gioia, quando mi dissero:
‘Andremo alla casa del Signore’.
E ora i nostri piedi si fermano
Alle tue porte, Gerusalemme!
Gerusalemme è costruita
come città salda e compatta.
Là salgono insieme le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge del Signore,
per lodare il nome del Signore… (vv. 14).

Nella coscienza biblica e nel calendario ebraico le feste del pellegrinaggio ripropongono, a livello liturgico e rituale, il cammino di Israele come cammino esodale o peregrinante. Infatti delle tre feste la pasqua ricorda l’inizio del cammino, con la liberazione dall’Egitto, la pentecoste l’alleanza con Dio nel deserto sul Monte Sinai e i tabernacoli l’ingresso nella terra promessa. Esse sono come una grande metafora dell’esistenza d’Israele (e dell’esistenza umana rappresentata da Israele) come esistenza nomadica o peregrinante.

La metafora del «viaggio»

Proponendo l’esistenza come nomadica o peregrinante, la bibbia fa uso della metafora, il procedimento letterario che consiste nel parlare di una cosa attraverso un’altra, trasferendo (è questo il significato dell’etimo greco di metafora) il significato di quest’ultima alla prima che ne viene illuminata, acquisendo un nuovo senso.

Nell’affermazione dell’esistenza nomadica, le due realtà accostate sono da una parte l’esistenza umana e dall’altra il viaggio: la prima, realtà difficile da definire; la seconda, realtà di cui ognuno, in qualche modo, ha esperienza. Accostata all’esperienza del viaggio – lo spostarsi da un luogo all’altro – l’esistenza umana si arricchisce di una chiave di lettura i cui tratti sono gli stessi del viaggio o del viaggiare.

Metafora dell’esistenza umana, i tratti che definiscono il viaggio, ad un’analisi fenomenologica attenta, sono soprattutto tre.

Il primo è quello dell’origine o punto di partenza. Ogni viaggio presuppone sempre una partenza, e quando si parte si parte sempre da un luogo dove si era già sostato, poco importa se a lungo o per breve tempo. Viaggiare è lasciarsi alle spalle un già noto per mettersi in cammino verso un oltre.

Il secondo tratto è il fine o punto di arrivo. Ogni viaggio presuppone una meta, un «dove» verso il quale ci si muove e che è la ragione stessa del viaggio, la forza nascosta che lo sollecita, lo alimenta e lo porta a compimento. Appunto perché sua ragione d’essere, il fine o meta è il tratto più importante del viaggio che coincide con il suo stesso senso.

Il terzo tratto infine è la distanza o spazio intermedio che separa il punto di arrivo dal punto di partenza. Concretamente parlando, il viaggio è proprio questo spazio che si distende tra l’uno e l’atro e che il movimento si illude di annullare progressivamente.

In questo spazio – del provvisorio, e dell’imprevedibile, cioè dell’ignoto – si cela l’avventura, nel duplice senso ambivalente di affascinante, per il nuovo che riserva, ma anche di temibile o pauroso, per le minacce che nasconde. Se avventura infatti (che etimologicamente vuol dire «ciò che sta per venire o arrivare») è ciò che accade al soggetto umano al di fuori dell’arco progettuale, sorprendendolo, il viaggio è avventura per eccellenza perché in esso ogni tratto dell’andare è evento e accadimento, promessa di vita ma anche minaccia di morte come nel caso del «folle volo» dantesco (Inferno, c. 26). La ragione per la quale il viaggio è, pressoché universalmente, metafora dell’umano è nella sua potenza di avventura che in esso si custodisce.

L’interpretazione biblica della metafora

Il senso dell’esistenza umana come viaggio – che la pratica del «pellegrinaggio» riproduce istituzionalmente – dipende dalla interpretazione di questi tratti. Secondo una lettura quasi universale, le cui radici affondano nello psichismo umano e nelle profondità dell’eros che lo alimenta, la metafora del viaggio ridefinisce l’esistenza umana come insoddisfazione e inquietudine, abitata da una forza o demone che la svincola dal limite del «punto di partenza» e, oltrepassandolo, la spinge in avanti, verso una nuova «meta», un «oltre», un «di più», dove trovano abitazione il sogno e l’utopia.

Ma esiste veramente questo «oltre» che ogni pellegrinaggio riproduce e rivive  oppure esso è un inganno con cui, come vuole Baudelaire (ne I fiori del male) ci si illude di fuggire da se stessi?

Amara scienza

si ricava dal viaggio!

il mondo piccolo, monotono,

oggi come ieri

e come domani e sempre,

ci mostra l’immagine nostra:

un’oasi d’orrore

posta in mezzo

a un deserto di tedio.

Per la tradizione biblica, che in Abramo e nel popolo di Israele legge l’esistenza umana come nomadica, l’«oltre» (o l’«ulteriorità» come amano dire altri) che il viaggio annuncia non si iscrive nell’immaginario umano e neppure nella sua volontà progettuale ma nella stessa volontà creatrice. Per questo, stando al testo biblico, è Dio che ordina ad Abramo di mettersi in viaggio per una nuova terra ed è ancora Dio che libera Israele dall’Egitto per introdurlo nel paese «bello e spazioso dove scorre latte e miele». Per la bibbia il viaggio di Israele – metafora del viaggio dell’esistenza umana – non avviene per sua iniziativa ma per volontà di Dio; per questo l’«oltre» o «il di più» verso cui esso tende non appartiene all’immaginario ma all’ordine oggettivo della verità.

Ma come intendere questo «oltre» o questo «di più»?

Secondo un’interpretazione che applica al testo biblico il dualismo platonico – e che nella tradizione cristiana è divenuta dominante – «l’oltre» verso il quale tende l’esistenza umana è Dio stesso, rispetto al quale le realtà mondane restano parziali e insufficienti. Secondo questa interpretazione la metafora del viaggio rivela l’infondatezza della esistenza umana il cui senso è di essere tappa per arrivare a Dio.

Stando invece al testo biblico, altro è il senso della metafora del viaggio. Per la bibbia Abramo e il popolo di Israele non passano da questa terra a Dio ma dalla terra senza Dio (terra dell’idolatria per Abramo e della schiavitù per Israele nell’Egitto) alla terra secondo Dio: da una terra dove il rapporto con essa si sottrae all’intenzionalità creatrice ad una dove vi si sottomette nell’ascolto obbediente; ed essendo l’intenzionalità creatrice l’intenzionalità di dono, il passaggio dalla terra senza a Dio alla terra secondo Dio è il passaggio dall’orizzonte dell’Io o dello Stesso a quello della gratuità o della grazia, dove  sorpresa e miracolo – l’io si scopre di vivere in forza dell’amore di Dio che gli è dato gratuitamente. In questa prospettiva la metafora del viaggio più che l infondatezza dell’esistenza rivela l’orizzonte di gratuità radicale che la definisce.

Interrogandosi sul senso dell’esistenza nomadica secondo la bibbia, Blanchot, un maestro contemporaneo dell’ebraismo, scrive: «Tra i cristiani si trova il rinnegamento del mondo, la svalutazione della vita, il disprezzo della presenza. Lasciare la propria casa, sì, andare, venire in modo da affermare il mondo come percorso, ma non perché questo mondo sia da fuggire o perché si debba vivere da fuggiaschi eternamente infelici. L’esodo, l’esilio indicano un rapporto positivo con l’esteriorità e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarci di ciò che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa identificando e riferendo tutto al nostro io)» (la sottolineatura è mia).

E’ questo il senso del grande principio formulato dal Levitico (cf 25, 23) secondo cui si è chiamati a vivere nella terra come «forestieri» e «pellegrini»: non perché questa sia insufficiente al bisogno umano, bensì perché in essa chi vi vive è ospite, nel senso di ospitato da Dio, l’ospitante. Se ospiti, il rapporto con la terra trascende la logica delle «radici» e del «possesso» («vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, dalla tua casa…») e si fa evento di dono e di gratuità. L’ospite è colui infatti che, per definizione logica e ontologica, non può dire: «è mio»; ma: «mi è dato».

Per la bibbia l’esistenza umana è «pellegrinante» o «nomadica» perché esistenza gratuita che chiama alla gratuità o alla bontà. E’ questa – la bontà come gratuità accolta e ridonata – l’«oltre», il «di più» e l’«ignoto» che in ogni viaggio e in ogni pellegrinaggio si annuncia e che, liberando l’esistenza umana dal determinismo della teleologia (l’idea che la vita vada verso un fine dispiegato sull’arco temporale), può trasformarla in ogni istante in evento e miracolo.

Nel suo piccolo libro intitolato Confessione (o Confessioni), riflettendo a lungo sul problema del male che condanna l’esistenza umana al non senso, Tolstoj confessa che, comunque, c’è una cosa che gli impedisce di rassegnarsi a questa conclusione e che Levin, in Anna Karenina, così esprime: «Eppure, ora, la mia vita, tutta la mia vita, indipendentemente da tutto ciò che mi può capitare in qualsiasi momento, non solo non è più priva di significato come un tempo, ma ha un senso indiscutibile: quello del bene che posso farvi entrare».

L’esistenza umana nomadica perché cammino verso la bontà o santità, l’unico «senso indiscutibile» che la abita, la cui potenza è tale da sconfiggere lo stesso male («ora la mia vita, tutta la mia vita, indipendentemente da tutto ciò che mi può capitare in qualsiasi momento… non è più priva di significato»). Per la bibbia l’esistenza umana trova nel viaggio un metafora efficace perché essa, come ogni viaggio, è esperienza affascinante e inquietante ma soprattutto perché è orientata ad una «terra» – la «terra» della bontà o santità, – l’unica in cui il suo enigma si scioglie e si rivela.

L’imminente pellegrinaggio dei giovani europei alla casa di Loreto trova il suo senso, sfuggendo al rischio del gioco, della fuga o dell’happening, nella sua capacità di risvegliare e sollecitare al miracolo della bontà.