Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione dei Giubilei sacerdotali (Venezia, Basilica della Salute - 6 giugno 2019)
06-06-2019

S. Messa per i Giubilei sacerdotali

(Venezia, Basilica della Salute – 6 giugno 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi confratelli,

anche quest’anno diciamo grazie al Signore per il dono grande del sacerdozio e ci stringiamo in modo particolare ai confratelli che da uno, da venticinque, da cinquanta, da sessanta o da settant’anni sono preti:

don Francesco Andrighetti, don Steven Ruzza, don Gianluca Fabbian, padre Joao da Cunha, padre Roberto Benvenuto, don Corrado Cannizzaro, don Fabio Mattiuzzi, don Diego Sartorelli, don Benedict Ejeh, don Giuseppe Bacci, don Giuseppe Camilotto, don Lidio Foffano, don Cesare Maddalena, don Mario Porcù, don Italo Sinigaglia, don Giovanni Volpato, mons. Antonio Meneguolo, padre Sergio Zanchin, don Nini Barbato.

Un ricordo affettuoso e grato va subito al patriarca Marco, a cinque anni dalla morte, unito al ringraziamento a don Gianni Bernardi per averne tratteggiato con intelligenza e cuore i lineamenti spirituali.

Rileggendo la raccolta dei suoi pensieri sul sacerdozio ordinato –  “Lampada per i miei passi è la tua parola”, curato con sapienza da don Fabrizio Favaro, con l’aiuto di Matteo Gabrieli e Lorenzo Manzoni, edito lo scorso anno per i tipi della Marcianum Press – mi ha colpito quanto il patriarca Marco scrive nell’introduzione.

Sono pensieri dettati non solo dall’ amore ma anche dall’esperienza e dalla responsabilità episcopale. Li faccio miei e desidero condividerli con voi, certo che possano aiutare tutti nel cammino di valorizzazione del presbiterio.

Un vescovo – proprio per il servizio che gli è affidato – ha un punto d’osservazione (“episcopo” etimologicamente significa “colui che guarda, colui che vigila”), per cui può maturare conoscenze e convinzioni frutto dell’esercizio del suo ministero che altri possono non avere. Accogliamo queste parole del cardinale con simpatia e stima.

«Sono convinto – scriveva il patriarca Marco – che nella vita diocesana, c’è un prezioso patrimonio di doni spirituali non pienamente valorizzato. Mi colpisce il fatto che, come uno entra in un Istituto legge gli scritti del Padre fondatore, le circolari fraterne, va fedelmente agli incontri. E noi presbiteri non facciamo altrettanto col nostro Vescovo e con la proposta formativa della nostra Diocesi: forse ci manca una identificazione, anche affettiva, con la nostra famiglia presbiterale, che è una grazia grande di comunione, senza la quale, oggi, non si fa il prete e non si evangelizza. E non sarebbe bello se fra noi, preti diocesani, ci si aiutasse di più spiritualmente?  Perché non amare di più il presbiterio, non prendere coscienza che i presbiteri sono il primo nostro “prossimo”: sono anzi “nostri fratelli”?» (Marco Cè, Lampada per i miei passi è la tua parola, Marcianum Press, 2018, p.13).

Tali parole, oltre a ricordarci l’amato patriarca Marco, ci aiutino a vivere la spiritualità della giornata dei Giubilei sacerdotali.

Cari confratelli, la pericope del Vangelo, appena ascoltata, è tratta dalla preghiera sacerdotale di Gesù e bene ci introduce nella realtà del sacerdozio battesimale e ordinato, intesi come doni e responsabilità.

Gesù qui rivela il suo essere una cosa sola col Padre e, insieme, il dono che fa di sé ai suoi discepoli considerandoli amici non più servi. Sì, Gesù ci considera amici: <<Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato>> (Gv 17,20-21).

Cari confratelli, dobbiamo innanzitutto tenere viva in noi tale consapevolezza, perché noi siamo incessantemente “portati”, “sorretti” dalla preghiera di Gesù. Certo, col battesimo e il ministero ordinato, anche noi “portiamo” Gesù, ma prima di tutto siamo noi ad essere “portati” da Lui.

L’immagine della vite e dei tralci è esplicita: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).

Nell’omelia della Santa Messa crismale, lo scorso giovedì santo, sottolineavo che, per grazia, siamo costituiti pastori nel popolo di Dio, ma rimaniamo pur sempre pecorelle del Signore.

Un prete ama veramente la sua gente, come il Buon Pastore, quando indica loro il Signore Gesù e non la sua persona o i suoi presunti carismi; ciò appare, in modo chiaro, quando si danno gli avvicendamenti nelle comunità.

Il sacerdozio battesimale e il sacerdozio ministeriale realizzano due “presenze” di Cristo sostanzialmente differenti; una è battesimale, l’altra ministeriale. Inoltre, nel ministero ordinato, vescovo e presbitero portano inscritta in loro, in maniera diversa, la “forma” di Cristo-capo della Chiesa e di Cristo-sposo della Chiesa.

Nell’Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis leggiamo: «In quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non soltanto nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa. Il sacerdozio, unitamente alla Parola di Dio e ai segni sacramentali di cui è al servizio, appartiene agli elementi costitutivi della Chiesa. Il ministero del presbitero è totalmente a favore della Chiesa; è per la promozione dell’esercizio del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio; è ordinato non solo alla Chiesa particolare, ma anche alla Chiesa universale, in comunione con il Vescovo, con Pietro e sotto Pietro>> (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, n. 16)

Il prete e il vescovo, proprio perché coinvolti direttamente in prima persona, potrebbero – per stanchezza, delusione, disincanto o eccessiva dimestichezza col mistero – smarrire la grandezza del sacerdozio ricevuto; è necessario, quindi, vigilare su noi stessi.

Il ministero ordinato, comunque, è costitutivo della Chiesa e, quindi, è essenziale e non è possibile farne a meno; essere preti significa rispondere a una vocazione/missione. Non si tratta di fare o non fare qualcosa secondo gusti e scelte personali; sarebbe il fraintendimento del proprio sacerdozio e di quello dei confratelli.

Nella Chiesa tutto nasce da scelte libere a cui ci si prepara negli anni del Seminario; alla vocazione sacerdotale si risponde, giorno dopo giorno, verificando tutto alla luce della comunione ecclesiale.

Essere presbiterio significa essere preti con gli altri preti e col vescovo; La realtà e il clima spirituale del presbiterio dipendono da noi, dal modo in cui pensiamo, accogliamo o non accogliamo il confratello. Il sacerdozio di Cristo è unico, è Suo, non è nostro! Le doti personali servono per l’unità e non possono essere fonte di personalismi, di competizione, di fratture.

Il vescovo e il presbitero – su piani differenti – sono, semplicemente, umili lavoratori della vigna del Signore; non ne sono i proprietari e, tantomeno, portano avanti un progetto – individuale o di gruppo – in autonomia.

Guardiamo alla liturgia dell’ordinazione, al gesto con cui il vescovo impone le mani sull’ordinando conferendo il sacramento dell’ordine; dopo di lui, i presbiteri impongono le mani sul confratello non “per” l’ordinazione ma in segno di comunione e di accoglienza nel presbiterio.

La liturgia non è un cerimoniale esteriore, ma è grazia che si rende presente attraverso parole e gesti non inventati da noi ma che sono della Chiesa. Siamo allora chiamati a ritornare più spesso alla liturgia dell’ordinazione. La liturgia – come detto – non è cerimoniale, ma realtà che si esprime con gesti e parole, con il silenzio e il canto; ogni cosa, nella liturgia, deriva ed esprime la fede della Chiesa.

Tutti, quindi, nella Chiesa, siamo “chiamati” e siamo “inviati”. La comunione – papa, vescovo, presbiterio, fedeli – la dobbiamo rendere vera con le parole ma, soprattutto, con gesti concreti. Siamo mandati dalla Chiesa, poiché il ministero ordinato è, prima di tutto, servizio ecclesiale, e, quindi, non servizio reso a se stessi o a un gruppo particolare ma alla Chiesa. Nessuno è ordinato per sé, perché l’ha voluto lui o per un gruppo, ma perché la Chiesa necessita di operai per la messe (cfr. Mt 9,38).

Il prete viene formato soprattutto durante gli anni del Seminario, quando è chiamato a rispondere liberamente (“se vuoi…”) alla grazia di Dio; gli educatori, a vari livelli, sono chiamati a fare discernimento, compito non facile ma essenziale che richiede pazienza, magnanimità e intelligenza ma anche coraggio di decidere per non creare future sofferenze alla Chiesa.

Non si ricerca la perfezione, né speciali doti umane o carismi soprannaturali. Non si è alla ricerca di veggenti o taumaturghi, né di sopraffini mente teologiche, né di volti mediatici o efficienti manager delle cose dello spirito ma di persone equilibrate, serene, gioiose, capaci di una sana autostima e che, insieme, siano umili, generose, disposte a studiare per servire e non solo disposte a lavorare ma a lavorare con gli altri (laici, confratelli, vescovo). Infine, siano soprattutto persone che amano Gesù, impegnate nell’unica vigna del Signore di cui nessuno è il padrone se non Lui, il Signore Gesù.

Nella Chiesa laici, consacrati, presbiteri, diaconi, vescovo lavorano – giova ribadirlo – non ad un loro progetto personale di cui gli altri, di volta in volta, devono prendere atto. Oggi si parla di clericalismo e un modo per contrastarlo è vivere concretamente la comunione nella Chiesa e nel presbiterio.

In occasione della giornata dei Giubilei sacerdotali, infine, leggiamo insieme questo testo di Presbyterorum ordinis; ci aiuterà a crescere in umanità e in grazia, superando la dimensione della vita intesa solamente come flusso cronologico di mesi e anni. Per il cristiano, per il prete, per il vescovo, il tempo infatti, non è solo kronos (cronologia, flusso di mesi e anni) ma kayros (grazia-santità, l’anno liturgico).

«I presbiteri – recita il decreto Presbyterorum ordinissono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati, vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli. Così infatti si comportò Gesù nostro Signore, Figlio di Dio, uomo inviato dal Padre agli uomini, il quale dimorò presso di noi e volle in ogni cosa essere uguale ai suoi fratelli, eccettuato il peccato. È un esempio, il suo, che già imitarono i santi apostoli…» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum ordinis, n.3).

A tutti, ma ai festeggiati in modo particolare, auguro di rimanere persone trasparenti nell’anima, fedeli alle promesse del giorno dell’ordinazione, mettendo sempre Gesù al primo posto. Chiedo a Maria, la Madre del Sommo Sacerdote e di tutti i sacerdoti, che ci aiuti in questo cammino.

Ai confratelli che non hanno potuto partecipare per motivi di età, di salute o per altri impedimenti, un cordiale abbraccio fraterno.

Buon anniversario di ordinazione a tutti!