Prolusione del Patriarca all'apertura dell’anno di attività della Scuola diocesana di Teologia “San Marco Evangelista” nella zona del Litorale (Eraclea - Parrocchia S. Maria Concetta, 23 ottobre 2018)
23-10-2018

Apertura dell’anno di attività della Scuola diocesana di Teologia

“San Marco Evangelista” nella zona del Litorale

(Eraclea – Parrocchia S. Maria Concetta, 23 ottobre 2018)

Prolusione del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

 

Stimati docenti, cari studenti della Scuola diocesana di Teologia “San Marco Evangelista”, cari catechisti e catechiste,

la prolusione per l’anno 2018/2019, nella zona del Litorale, ha per tema – come richiesto dall’Ufficio catechistico diocesano – l’enciclica Fides et ratio. Il motivo è semplice: lo scorso 14 settembre ne abbiamo ricordato i vent’anni della promulgazione da parte di san Giovanni Paolo II, di cui proprio ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica.

Dovendo dare un titolo alla nostra conversazione opterei per questo: “Non la sapienza delle parole ma la Parola della Sapienza”.

Parto da una citazione del testo con la quale, poi, concluderò anche questo mio intervento perché ritengo possa aiutare a comprenderne il senso fin dall’inizio, soprattutto per quanti sono meno addentro a questioni filosofiche e teologiche.

Ecco il testo in questione: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr Es 33, 18; Sal 27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1 Gv 3, 2)” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, Incipit).

Pongo una premessa: Fides et ratio si pone in stretta continuità con l’insegnamento dell’enciclica Veritatis splendor, promulgata il 6 agosto 1993. Veritatis splendor – come appare leggendo l’incipit (le prime parole con cui inizia un documento della Santa Sede) – prende in esame l’agire morale, ossia la libertà dell’uomo e il bene.

Ecco il passo in questione: “Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gn 1,26): la verità illumina l’intelligenza e informa la libertà dell’uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il salmista prega: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7)” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, Introduzione).

Fides et ratio si concentra, invece, sul rapporto tra filosofia e teologia, come risulta da quanto sottolinea lo stesso Giovanni Paolo II: “Un ulteriore motivo mi induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor, ho richiamato l’attenzione su «alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell’attuale contesto rischiano di essere deformate o negate». Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione concentrando l’attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in rapporto alla fede” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n.6).

Così Veritatis Splendor si occupa di questioni morali mentre Fides et ratio si occupa del rapporto filosofia e teologia; ambedue i testi pontifici, però, hanno di mira la questione della verità.

È utile richiamare poi quanto è scritto quasi in conclusione del testo di Fides et ratio, al numero 107, dove leggiamo: “A tutti chiedo di guardare in profondità all’uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell’uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n.107).

La filosofia moderna sempre più ha separato ragione/fede e ragione/agire morale; l’inizio si ha in Cartesio col dubbio e poi con Kant per il quale non si può dare fondazione razionale al rapporto con Dio e non si possono fornire argomenti di ragione a sostegno dell’azione morale.

La teologia di Lutero ha i suoi fondamenti filosofici nel pensiero di Occam. Secondo il padre della riforma, col peccato originale, la ragione è talmente compromessa da non permettere l’accesso al Trascendente; così non si può fondare, per via di ragione, l’esistenza di Dio né affermarne alcuni attributi come l’onnipotenza, l’onniscienza, l’ubiquità.

La ragione non può fungere da grammatica per le questioni concernenti la fede. E Dio – secondo Karl Barth – è il “totalmente altro”!

Che Dio sia altro rispetto all’uomo, è verità pacifica ma che sia il “totalmente altro” è, a rigore, un’affermazione che neppure potrebbe essere formulata perché, se realmente Dio fosse il “totalmente altro” rispetto all’uomo, allora Dio non potrebbe neppure esser chiamato in causa in quanto, essendo il totalmente altro rispetto all’uomo, l’uomo non potrebbe sapere neppure se questo totalmente altro esiste; si può affermare tutt’al più l’insufficienza dell’uomo in quanto contingente ma tale affermazione, a ben vedere, risulta già fuori rispetto alle possibilità di certa filosofia che oggi gode di molto credito.

L’enciclica evidenzia, invece, un doppio ordine di conoscenza: quello della fede, che si appoggia sulla testimonianza di Dio e si avvale dell’aiuto soprannaturale della grazia, mantenendo un rapporto con la ragione, e quello della conoscenza filosofica che si appoggia sull’esperienza dei sensi e si muove alla luce di un intelletto aperto a qualcosa di ulteriore, verso un “oltre”, cogliendo i limiti della conoscenza umana che ritiene sensata, vera e inadeguata.

Ora, la rivelazione che Dio fa di sé, in Cristo, s’inserisce nel tempo e nella storia, seppure non coincide con il tempo e la storia. L’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento; Dio assume e si serve realmente del volto dell’uomo.

In tal modo, “la storia diventa il luogo in cui possiamo constatare l’agire di Dio a favore dell’umanità” e, quindi, con la Rivelazione “viene offerta all’uomo la verità ultima sulla propria vita e sul destino della storia” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n.12).

Se c’è distinzione tra conoscenza di fede e conoscenza di ragione, si dà comunque, fra loro, profonda e feconda relazione e non separazione. “La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l’uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato sé stesso, il mondo e Dio” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n.16).

Tra le due realtà c’è, piuttosto, un rapporto di diversificazione per cui conoscenze di ragione e di fede costituiscono saperi differenti e che, se tra loro non sono sovrapponibili, si richiamano però a vicenda.

In realtà – secondo Fides et ratio – l’uomo, leggendo il meraviglioso “libro della natura”, può, con gli strumenti propri della ragione, giungere alla conoscenza di Dio Creatore che “acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede” (n. 20). L’uomo, quindi, non è solo un essere rinchiuso nel sensoriale ma, piuttosto, un essere che ha una reale “capacità metafisica” (n. 22); l’uomo è, cioè, in grado di studiare l’ente in quanto tale, giungendo ad un sapere che attinge le strutture del reale.

Come prima accennato, a partire dal tardo Medioevo, la legittima distinzione tra fede e ragione – riconosciuta da sant’Alberto Magno e da san Tommaso – “si trasformò progressivamente in una nefasta separazione (…) giungendo di fatto ad una filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n. 45).

Per cui non era più possibile parlare – in termini razionali – di Dio e di tutto ciò che si riferisce a Lui tramite un linguaggio che era, in sé, inadeguato (non esauriente), sensato (significante), vero (con una qual certa e obiettiva rispondenza fra realtà e coscienza).

Di fronte a queste deviazioni del pensiero filosofico è intervenuto varie volte il magistero della Chiesa non per proporre una propria filosofia o canonizzare una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre ma, come è suo obbligo, “per reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono teorie false o di parte che seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n. 49). Il magistero ecclesiastico, quindi, “può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n. 50).

Così la Chiesa ha preso le distanze e condannato, da una parte, il fideismo e il tradizionalismo radicale, per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione; dall’altra, ha preso le distanze e condannato il razionalismo e l’ontologismo, perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della fede.

Nel Concilio Vaticano II, il magistero solenne della Chiesa ha sottolineato come ragione e fede siano nello stesso tempo “inseparabili” e, nello stesso tempo, “irriducibili” l’una all’altra. Oggi la Chiesa deve combattere la “radicale sfiducia nella ragione” da parte di coloro che parlano di “fine della metafisica” (n. 55). Chi non possiede una concezione compiuta della fede – di primo acchito – rimane colpito che sia proprio il credente-cattolico a difendere e promuovere la ragione.

Il rapporto, perciò, che deve instaurarsi tra teologia e filosofia “sarà all’insegna della circolarità”. Per una migliore comprensione della Parola di Dio la teologia non potrà non giovarsi della filosofia e questa, a sua volta, dall’incontro con la Parola di Dio “esce arricchita, perché scopre insospettati orizzonti” (n. 73). Ricordo, a modo di esempio, che i concetti di persona, coscienza e libertà – così importanti in ambito filosofico – nascono in terreno teologico o devono molto alla riflessione teologica.

Non va dimenticato, inoltre, guardando alla storia che non pochi teologi cristiani, “si segnalarono come grandi filosofi”. L’antichità menziona san Gregorio Nazianzeno e sant’Agostino; per il Medioevo sant’Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino; per l’epoca moderna, in Occidente, J. H. Newman, A. Rosmini, J. Maritain, E. Gilson, E. Stein e, in Oriente, V. S. Solov’ëv, P. A. Florenskij, P. J. Caadaev, V. N. Lossky (cfr. n. 74).

Ma la ragione – e dunque la filosofia – si scontra col mistero della Croce, dinanzi alla quale dichiara la sua impotenza: “Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento”. Per cui “la ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, n. 23). In tal modo la filosofia è “sfidata” ad accogliere nella “follia” della Croce l’autentica critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche del loro sistema.

Il rapporto tra fede e filosofia trova nella croce di Cristo lo scoglio contro cui può infrangersi ma, oltre il quale, può salpare nell’oceano della verità. Qui si mostra con chiarezza il confine tra ragione e fede ma diventa anche chiaro lo spazio in cui, ambedue, possono incontrarsi.

Vorrei che qui ci prendesse per mano chi non solo ha affrontato teoricamente la questione ma, pur avendo tutte queste capacità in termini di pensiero accademico, per grazia ha potuto dare una risposta che è una testimonianza di vita.

Tra i massimi teologi cristiani, che Fides et ratio indica come grandi filosofi, è menzionata una donna: Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce.

Edith Stein fu esponente di spicco della corrente filosofica fenomenologica il cui fondatore fu Edmond Husserl (1859-1938), per il quale «fenomeno» non designa semplicemente il modo di apparire delle cose al soggetto ma anche le cose stesse in quanto si danno nei fenomeni; la fenomenologia è «ritorno» ai fenomeni, «ritorno alle cose stesse».

Nel pensiero filosofico moderno la fenomenologia rappresenta un filosofare che tenta di superare le strettoie del trascendentale moderno (volontarismo in forma di storicismo esistenzialistico) e vuole andare alle cose superando il puro apparire delle cose al soggetto.

Edith, convertita, entrò a far parte delle monache carmelitane riformate e, acconsentendo alla richiesta dei superiori, compose un’opera, che – a causa del suo arresto, della sua deportazione e della sua morte – rimase incompiuta e che porta un titolo significativo: Scientia crucis, studio sulla teologia e sulla mistica di san Giovanni della Croce.

Alcuni brevissimi richiami biografici: Edith nacque in una famiglia ebrea profondamente credente; da giovane si dichiarò agnostica ed indifferente a questioni religiose ma, poi, avvenne la svolta della sua vita e il momento della conversione a Cristo, l’ingresso tra le carmelitane scalze di Koln-Lindenthal e la morte in una camera a gas nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Fino all’ultimo volle vivere l’unione mistica col suo popolo e il 2 agosto 1942, prelevata da due ufficiali della Gestapo nel monastero di Echt in Olanda, si rivolse alla sorella Rosa, terrorizzata, e le disse: “Vieni, andiamo per il nostro popolo” (Maria Cecilia del Volto Santo, Edith Stein. Un’ebrea testimone per la verità, San Paolo 1996, pp. 197 -206).

 Benedetta Teresa della croce, in Scientia Crucis, scrive: “Così la fede nel Crocifisso – la fede viva, accompagnata dalla dedizione amorosa – è per noi la porta di accesso alla vita e l’inizio della futura gloria (…) La croce non è fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa richiamo verso l’alto. Quindi non è soltanto un’insegna, è anche l’arma potente di Cristo, la verga da pastore con cui il divino Davide esce incontro all’infernale Golia, il simbolo trionfale con cui Egli batte alla porta del cielo e la spalanca. Allora ne erompono i fiotti della luce divina, sommergendo tutti quelli che marciano al seguito del Crocifisso“ (Teresa Benedetta della Croce / Edith Stein, Scientia Crucis, Edizioni OCD, Roma 1988, pp.38-39).

Sì, Gesù Cristo è e rimane il Signore di tutta la creazione e di tutta la storia: “Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui… e tutte sussistono in Lui” (Col 1, 16.17). Perciò il dialogo tra fede e ragione – se condotto con sincerità e rigore – offre la possibilità di percepire, in modo più efficace e convincente, la ragionevolezza della fede in Dio – non in un Dio qualsiasi ma in quel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo – e altresì dimostrare che nello stesso Gesù Cristo, crocifisso e risorto, si trova il compimento di ogni autentica aspirazione umana.

In un’altra sua opera – “Essere finito ed eterno” (1935/36) – Teresa Benedetta della Croce scrive, in profonda sintonia con Fides et ratio: “Il cammino della fede ci dà più che il cammino del pensiero filosofico: ci dona Dio, vicino come Persona, Dio che ama e ci usa misericordia, e ci dà quella sicurezza che non appartiene a nessuna conoscenza naturale. Ma il cammino della fede è oscuro” (Edith Stein, Endliches und ewiges Sein, 58).

Risulta significativo, per quello che stiamo dicendo su ragione e fede, quanto Edith Stein afferma del collega filosofo Max Scheler: “Non mi condusse alla fede, mi aprì soltanto un nuovo ambito di fenomeni di fronte ai quali non potevo rimanere insensibile. Non per niente (nella scuola di Husserl) ci era sempre stato ripetuto che dovevamo contemplare qualsiasi cosa senza preconcetti, gettando via tutti i ‘paraocchi’: cadevano così le barriere dei pregiudizi razionalistici tra i quali ero cresciuta senza saperlo e il mondo della fede mi si apriva improvvisamente dinanzi” (Edith Stein, Aus dem Leben einer jüdischen Familie, 57).

Come già detto, il pensiero filosofico e teologico di Edith Stein è il risultato di una raggiunta e ponderata armonia tra sapere della fede e sapere della ragione; siamo, quindi, su quella linea che la Chiesa da sempre riconosce circa il dialogo fra ragione e fede così come ci viene presentato nella Rivelazione, tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento.

La Chiesa – come già è stato detto – non solo ha condannato il fideismo e il tradizionalismo radicale per la disistima che manifestano nei confronti delle capacità proprie (naturali) della ragione ma ha pure rigettato il razionalismo e l’ontologismo perché assegnavano alla ragione ciò che è conoscibile solo alla luce della fede. Ma ragione e fede, come ritiene la Chiesa, risultano “inseparabili” l’una dall’altra, “irriducibili” l’una all’altra.

Oggi, però, la Chiesa si trova di fronte alla “radicale sfiducia nella ragione” da parte di coloro che parlano di “fine della metafisica” (n. 55). Ecco perché figure di intellettuali cristiani – come Edith Stein / Teresa Benedetta della croce che, oltre al sapere scientifico, hanno fatto un cammino di reale e obiettivo verso la santità – diventano annunciatori capaci d’esprimere, in modo credibile, come fede e ragione siano davvero due ali con cui l’uomo s’innalza potentemente verso il Dio eterno e misericordioso che si dona nella verità che dà senso e contenuto all’amore.

È interessante notare come Edith Stein – pur essendo docente universitaria e allieva del grande filosofo Edmond Husserl – tornò alla fede non attraverso lo studio di un testo scientifico o di alta speculazione filosofica ma attraverso la lettura della vita di una santa. Questo conferma come la fede sia qualcosa che ha certamente a che fare con la ragione ma, nello stesso tempo, sia qualcosa che va oltre la pura ragione; è l’incontro tra due libertà, quella di Dio e quella dell’uomo, in grazia.

In Edith Stein, il grande incontro con Dio – che stava lentamente maturando nella sua anima – avviene al termine della lettura della biografia di santa Teresa d’Avila, la grande riformatrice del Carmelo.

Fu proprio la lettura di questo libro che fece compiere alla filosofa, alla docente universitaria, alla discepola prediletta di Edmund Husserl, il passo decisivo; ella (che non mancava, ovviamente, di alte risorse intellettuali) giunse così alla fede al termine della lettura della biografia di una santa.

Le sue brevi e scarne parole sono eloquenti: «Senza scegliere, presi il primo libro che mi capitò sotto mano. Era un grande volume che portava il titolo: Vita di S. Teresa d’Avila, scritta da lei stessa. Ne cominciai la lettura e ne rimasi talmente presa che non interruppi finché non fui arrivata alla fine del libro. Quando lo chiusi dovetti confessare a me stessa: “Questa è la verità”» (Luigi Carlo Di Muzio, I giorni della verità, La Sorgente, 1974, pag. 110).

La lettera enciclica Fides et ratio, d’altronde, ci aveva avvertiti fin dalle primissime parole dell’incipit: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr Es 33, 18; Sal 27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1 Gv 3, 2)” (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, Incipit).