Prolusione del Patriarca all'apertura della Scuola Diocesana di Teologia San Marco Evangelista (Venezia, 3 ottobre 2017 - Zelarino, 5 ottobre 2017 - Eraclea, 6 ottobre 2017)
03-10-2017

“Populorum progressio”

Apertura della Scuola Diocesana di Teologia San Marco Evangelista

(Venezia, 3 ottobre 2017 – Zelarino, 5 ottobre 2017 – Eraclea, 6 ottobre 2017)

Prolusione del Patriarca Francesco Moraglia

  

 

Affinché i cinquant’anni dalla promulgazione dell’enciclica Populorum progressio non siano unicamente celebrazione di un anniversario, ma occasione per vivere in modo più responsabile il nostro tempo, introduco queste considerazioni con una domanda.

Se si fosse dato maggior ascolto a quanto Paolo VI scriveva nel lontano 1967, prima che si affermasse la globalizzazione e prima che le migrazioni assumessero le attuali dimensioni, ci troveremmo oggi nella drammatica situazione che siamo chiamati ad affrontare e in cui l’Italia, l’Europa e l’Onu mostrano tutta la loro difficoltà e impreparazione?

Certo, la storia non si fa con i “se” e i “ma” – o, come si dice, “col senno di poi” – ma un’onesta riflessione aiuta a non ripetere gli errori fatti.

Sarebbe già un’importante acquisizione se tale ragionamento portasse a riflettere quanti, per il passato, hanno sostenuto pregiudizialmente che la Chiesa – in quanto portatrice di una visione ideologica – non avrebbe dovuto entrare in questioni sociali/politiche oppure, in nome di un’errata idea di laicità, hanno sostenuto che la Chiesa non avrebbe dovuto uscire dalle sacrestie limitandosi unicamente a trattare questioni “spirituali”.

Le problematiche connesse con la globalizzazione e le migrazioni non avrebbero raggiunto le attuali dimensioni se, almeno in parte, l’appello di Populorum progressio fosse stato più ascoltato dalla politica, dai poteri finanziari ed economici e – perché no? – anche dalla stessa Chiesa.

L’invito di Paolo VI, in non pochi casi, fu disatteso; in altri, fu considerato con supponenza, come si trattassero di parole inesperte o costituissero un’ingerenza. Il tempo, però, è galantuomo e ha mostrato come tutto ciò non corrispondesse al vero. Basti pensare che Papa Montini – mettendo in luce la crescente sproporzione fra Paesi poveri e ricchi con l’inaccettabile indebitamento dei primi nei confronti dei secondi – non fece che mostrare lucidità nel prevedere quello che, nel tempo, si sarebbe puntualmente verificato.

La questione deflagrò in maniera drammatica quindici anni dopo, nel 1982, quando fu dichiarata l’insolvenza del Messico. Sull’indebitamento degli Stati poveri Paolo VI anticipò i tempi ed ecco il suo pensiero: “(il) dialogo tra coloro che forniscono i mezzi e coloro di cui sono i destinatari consentirà di commisurare gli apporti non solo secondo la generosità (ma anche in funzione dei bisogni reali). I paesi in via di sviluppo non correranno più in tal modo il rischio di vedersi sopraffatti dai debiti, il cui soddisfacimento finisce con l’assorbire il meglio dei loro guadagni … Garanzie potranno essere offerte, a coloro che forniscono i mezzi finanziari… E i destinatari potranno a loro volta esigere che non vi siano ingerenze nella loro politica…” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 54).

Rammentiamo come l’enciclica – scritta cinquant’anni fa – si muova all’interno del tradizionale insegnamento sociale della Chiesa e – come per ogni documento magisteriale – abbia una sua specificità e intenda rapportarsi alla situazione a cui vuole offrire una risposta. Con Populorum progressio la Chiesa non ha più innanzi singole persone, famiglie, classi sociali; la prospettiva qui diventa planetaria.

Negli anni ‘60 la comunicazione – grazie alle acquisizioni della tecnica e della scienza – giungeva a risultati prima del tutto sconosciuti; accorciava letteralmente le distanze tra gli uomini. Erano gli anni dello sviluppo della scienza e della tecnica; il pianeta assumeva la dimensione del “villaggio globale”.

Di conseguenza, anche il tema della giustizia – fra popoli che una volta neppure entravano in relazione fra loro – doveva farsi carico di questa nuova situazione e delle sue molteplici conseguenze; la giustizia non poteva più caratterizzarsi unicamente a livello personale o di sole classi sociali.

La questione sociale diventa così planetaria mentre sempre più si approfondisce la frattura tra Nord e Sud del pianeta. Così, dall’inizio, l’enciclica sottolinea la nuova prospettiva rimarcando come essa non si limiti all’ambito teoretico; la volontà era giungere presto a livello pratico.

Oggi il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prendere coscienza – scrive Paolo VI –, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale… Si tratta – continua il Santo Padre – di un insegnamento grave che esige una applicazione urgente. I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore all’appello del suo fratello” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio n.3).

Ma la recezione non fu quella attesa da Paolo VI; l’appello papale, oltre a rispondere a una visione antropologica ispirata al Vangelo, mirava – come si è visto – a una soluzione che, nel rispetto di una sana laicità, fosse saggia e lungimirante dal punto di vista politico ed economico.

La costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II precede di soli due anni Populorum progressio che, per alcuni versi, si muove secondo la prospettiva della costituzione conciliare mentre, per altri, apre una prospettiva nuova e più specifica sull’argomento del lavoro e della giustizia. I due documenti, quindi, presentano una novità nella continuità; nel 1987, per ricordare i vent’anni di Populorum progressio, Giovanni Paolo II promulgherà l’enciclica Sollicitudo rei socialis in cui vengono ulteriormente sviluppate tematiche già presenti in Gaudium et spes e Populorum progressio.

Talvolta, in ambito sociale, gli interventi della Chiesa vengono considerati come il risultato di una visione “idealista” o “ideologica”; invece, non di rado, precorrono i tempi poiché, oltre a partecipare a un sapere umano e divino, si esprimono nei termini di una reale laicità, riferendosi sempre alla ragione e alla natura (cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, nn. 25-28).

La dottrina sociale della Chiesa non è un sapere ideologico e si muove nell’ambito di una obiettiva laicità; non è insegnamento confessionale. Su tale linea ritroviamo Paolo VI, san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco con l’enciclica Laudato sì sulla cura della casa comune.

Qui ricordo anche il beato Giuseppe Toniolo e il suo insegnamento socio-economico. Per il professore di Treviso l’etica non può rimanere esterna all’economia; l’economia è sempre, infatti, in funzione dell’uomo. Ed esiste un’economia dal volto umano che è, appunto, attenta all’uomo, impegnata a far sì che l’uomo raggiunga il suo fine e risponda sempre più alla vocazione personale. Secondo tale prospettiva è difficile spiegare l’economia rimanendo unicamente alle formule, ai numeri, alle statistiche. Insomma, escludendo l’etica non si può parlare di sviluppo degno dell’uomo; infatti, in quanto immagine di Dio, l’uomo è il centro di tutto e, quindi, anche del discorso economico.

Ora, se noi non riconosciamo l’essenzialità dell’etica nei diversi ambiti antropologici, allora non si dà più bene comune che – come già insegnava Toniolo – è la massima espressione dell’etica. Il rischio è cadere in ciò che Giovanni Paolo II – nella Laborem exercens – definì la deriva economicista che è, innanzitutto, una forma di riduzionismo. Paolo VI fa suo questo pensiero – come vedremo – nel corso dell’intera enciclica (cfr. Populorum progressio, n 14).

La socialità, l’etica e la religione sono, alla fine, fra loro congiunte e questo permette di superare una visione riduttiva e solo tecnica dell’economia e, prima ancora, della società; si perviene a una visione obiettivamente concreta dell’economia, non astratta, in cui si considera l’uomo che – in quanto persona – è primo fruitore dell’economia.

Col passare del tempo è diventato comune parlare di “capitale umano” intendendo, con tale espressione, che l’uomo è la risorsa che deve inserirsi, secondo la sua specificità, in ogni momento del ciclo lavorativo.

Paolo VI, parlando proprio dell’uomo e a proposito della industrializzazione afferma: “Mediante l’applicazione tenace della sua intelligenza e del suo lavoro, l’uomo strappa a poco a poco i suoi segreti alla natura, favorendo un miglior uso delle sue ricchezze. Mentre imprime una disciplina alle sue abitudini, egli sviluppa del pari in se stesso il gusto della ricerca e dell’invenzione, l’accettazione del rischio calcolato, l’audacia nell’intraprendere, l’iniziativa generosa, il senso della responsabilità” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 25)

Ancora, riprendendo ciò che è stato detto in precedenza sull’etica considerata elemento intrinseco dell’economia e nel contesto di una riflessione antropologica più ampia – ovvero l’uomo aperto alla trascendenza e, quindi, non riducibile a misure e a numeri -, ne consegue che anche una politica economica e un welfare degni dell’uomo devono aprirsi a considerazioni non solo tecniche ma squisitamente umane.

Così, quando in politica si fa la scelta del governo tecnico – e sono i momenti di maggiore difficoltà della politica -, avviene che un tale esecutivo ridurrà l’istanza propriamente politica e le sollecitazioni valoriali dei cittadini per la necessità di dare risposte che si dicono operative, funzionali, efficienti… In tal modo, le decisioni saranno di tipo specialistico, fondate sul sapere scientifico e sul rigore. Non di rado, a partire dalle esigenze del bilancio.

L’Europa viene da una lunga stagione in cui il rigore dei conti si è imposto. Così l’Europa delle banche ha finito per prendere il sopravvento sull’Europa della politica e, quindi, sugli interessi reali dei popoli. Anche questo è un motivo della crescente disaffezione nei confronti di una tale concezione di Europa che non è più quella dei padri fondatori De Gasperi, Schumann e Adenauer. L’attuale questione dei migranti risente soprattutto della grande debolezza politica dell’Europa.

Riflettendo ancora su ciò che sta alla base dei governi tecnici, possiamo dire di trovarci dinanzi a esperti che affrontano le questioni da specialisti, competenti in un determinato ramo del sapere ma che non riescono ad avere uno sguardo sufficientemente ampio sul bene comune e sulla giustizia sociale che è sempre più ampia rispetto alle formule dell’economia politica; tali scelte si muovono poi secondo l’ottica della pura economia che non può essere disattesa ma che non sempre è corrispondente alla giustizia sociale.

La scelta tecnica va considerata se compatibile col bene comune; la giustizia è infatti legale, commutativa e distributiva.

Se l’uomo smarrisce la complessità e la molteplicità degli elementi in gioco, dinanzi al bene comune, finisce per considerare gli interventi del Magistero – che chiedono attenzione all’uomo e a tutti gli uomini, al di là di un determinato Pil – come azioni di disturbo, come se fossero puro idealismo o, addirittura, corrispondessero ad una visione ideologica, mentre sono semplicemente attenti alle esigenze dell’uomo concreto e alla posizione centrale che gli va riconosciuta nella società. Imputare di idealismo o visione ideologica vuol dire metter fuori gioco il proprio interlocutore, forse perché sgradito o considerato scomodo.

Ora, se vogliamo comprendere la portata epocale di Populorum progressio dobbiamo contestualizzarla. Populorum progressio vede la luce negli anni ‘60 subito dopo il Concilio Vaticano II, la data di promulgazione dell’enciclica è il 26 marzo 1967. Sono anni in cui abbiamo un vero tsunami culturale, passato alla storia come il ’68; in quel periodo maturano i germi che cambieranno il modo di vivere della nostra società, a livello planetario, che segneranno e che, ancora oggi, segnano la nostra vita.

Un rapido sguardo agli anni ’60 ci porta a constatare, inoltre, come in Cina quello fosse il periodo della rivoluzione culturale; in modo traumatico si pensò di colmare il ritardo di secoli che si era accumulato; in concreto, si trattava di superare il divario fra agricoltura e industria, fra campagna e città, fra classe operaia e intellettuale. Fu una stagione politica fortemente pilotata dall’alto, in modo verticista e autoritario; per molti volle dire sopraffazione, emarginazione, accanimento. L’Occidente – come spesso accade – non sapeva, non vedeva, non parlava e quando seppe, vide e decise di parlare, ebbe di che dolersi.

Nello stesso periodo, tra Cina e Usa – dopo la rottura tra l’Unione Sovietica di Chruscev e la Cina di Mao, a causa del “grande balzo in avanti” voluto dal leader cinese – si arrivò all’epoca del disgelo e, poi, anche alla diplomazia del ping-pong.

Leonid Breznev – dopo il defenestramento di Nikita Chruscev – divenne la nuova guida dell’Urss; giunse poi la primavera di Praga, con Alexander Dubcek, e l’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia. E proprio l’invasione della Cecoslovacchia contribuì a minare, in Occidente e presso la cultura dominante di sinistra, l’idea “positiva” che si aveva allora del comunismo.

Il ’68 si realizzò in modi simili in Paesi molto diversi fra loro, sia per storia, cultura, tradizione; soffiò un vento forte, e per molti versi inatteso, di novità radicali. Si voleva non solo un cambio generazionale ma epocale e una totale liberazione dai paradigmi culturali precedenti, avvertiti come ormai del tutto desueti.

Negli Usa, in California (a Berkeley), gli studenti occuparono l’Università chiedendo più coinvolgimento e una cogestione dei programmi accademici. Volevano l’ateneo come spazio aperto dove dibattere i grandi temi socio-politici che dilaceravano l’intero paese, volevano un diverso tipo di sviluppo; c’erano poi la non risolta questione razziale e il dramma della guerra del Vietnam che pesava sia sui teenagers americani sia sull’intera società.

Il ’68 in Francia si identificò soprattutto con i “fatti di maggio”; dalle file degli studenti prese vigore una sollevazione generale che mise in questione lo stesso governo con un movimento che, in breve, segnò l’intera società. Al grido di “interdit d’interdire” si voleva una società libera da ogni forma di autorità politica e religiosa, uno stile più aperto, una nuova “flessibilità” sociale; si faceva strada l’idea di una critica portata avanti ad oltranza.

In Italia vanno ricordati, tra gli altri, i fatti di Torino; pure qui si giunse all’occupazione dell’Università e anche qui gli studenti – con percorsi propri – furono i portavoce di rivendicazioni simili a quelle dei loro omologhi americani e francesi.

L’uomo è, insieme, natura e cultura; è un’essenza chiamata all’esistenza. La storicità ne è la caratteristica costitutiva; l’uomo, quindi, è un animale culturale e ciò dice quanto sia importante per una società la cultura che la ispira e plasma.

Il ’68 segnò un radicale cambio di paradigmi culturali, una mutazione resa nota dovunque grazie al nuovo mezzo di comunicazione: la televisione.

In sintesi ricordiamo che gli anni ‘60 e, in particolare, il ‘68 decretarono la fine di una antropologia che in modo diffuso aveva contraddistinto l’epoca della “cristianità” a cui si riferiva anche chi, di fatto, portava in sé solo un remoto ricordo del battesimo vivendo, però, in una società ancora intrisa di valori, simboli e linguaggi cristiani.

Così si fecero progressivamente strada le antropologie edoniste e materialiste, in cui l’uomo era un’esistenza storica alla ricerca di sé. L’uomo non si coglieva più come l’immagine di Dio che, ormai, era visto come l’alternativa all’uomo; è il trionfo dell’umanesimo ripiegato su se stesso e in cui l’uomo è dio a sé, è il dramma dell’umanesimo ateo.

Gli anni ’60, in Occidente, vedono l’affermarsi del consumismo e così, dopo le distruzioni belliche (con intere città rase al suolo) e il conseguente generalizzato impoverimento, incominciò a propagarsi un benessere che non era più solo di alcuni ma che si diffondeva in modo progressivo.

I beni ora acquistati non sono più quelli del decennio precedente e diventano indicatori di una mutata situazione sociale. Una volta si acquistavano generi alimentari o, comunque, prodotti di prima necessità per la vita delle persone e delle famiglie. Ora, invece, si acquistano beni che sono essenziali ma che coprono una gamma di bisogni non più strettamente vitali; si tratta, ad esempio, di elettrodomestici, scooter, automobili… E i “consigli” pubblicitari, tramite il mezzo televisivo, sono in grado di influenzare sempre più le scelte d’un pubblico sempre più vasto e capace di spendere.

Con Populorum progressio – lo ripetiamo – gli interlocutori diventano i popoli, gli Stati, la grande politica, i poteri forti. E così il bene comune e la sua attuazione non possono non confrontarsi con la sempre più drammatica divisione del mondo tra popoli ricchi e poveri, tra popoli della fame e dell’opulenza, tra Nord e Sud del pianeta.

Nei Paesi poveri (il Sud del mondo) l’enciclica venne accolta con grande entusiasmo; in essa si vedeva un nuovo inizio e un’attenzione prima sconosciuta si manifestava per quelle realtà che, fino a quel momento, erano state del tutto o, in gran parte, dimenticate o considerate solo come sicure riserve di materie prime, a buon mercato, per i popoli del Nord del pianeta.

L’impianto dell’enciclica risulta semplice e lineare. Dopo l’introduzione il testo papale si divide in due grandi parti che sono rispettivamente intitolate: “Per uno sviluppo integrale dell’uomo” e “Verso lo sviluppo solidale dell’umanità”.

Significativo è il paragrafo intitolato “Visione cristiana dello sviluppo”; in esso si tratta dello sviluppo di tutto l’uomo che mai può esser ridotto a pura crescita e, tanto meno, a crescita solo economica. L’uomo, qui, è considerato non come astrazione o realtà solitaria ma inserito nel contesto sociale cui appartiene, fino a pensarlo come “parte” dell’intera umanità.

Scrive in proposito Paolo VI: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n.14).

Di seguito accenniamo a temi di particolare rilevanza trattati dall’enciclica. Iniziamo dal concetto di progresso inteso non come crescita di una persona, di una classe o di un popolo e neppure di un intero continente ma di tutti, nessuno escluso.

Ora, insieme all’idea di un progresso che non escluda nessuno – aperto a “tutti gli uomini” – si deve porre attenzione anche alla qualità dello sviluppo. Come già accennato, qui è in causa la crescita integrale dell’uomo, un vero umanesimo che – per esser realmente tale – deve riconoscere la totalità dell’uomo; tale progresso non potrà coincidere con progetti solo economici e, in particolare, col progetto capitalistico finalizzato al profitto, a prescindere da quale sia il prezzo che si dovrà pagare, anche a costo di smarrire i valori specificamente umani.

La persona è insieme “identità e relazione” e, quindi, un “tutto” strutturato anche “socialmente”: l’uomo non è mai un’isola. Di fatto, un uomo “solo” non esiste; è pura astrazione, concretamente non si dà.

Si può parlare di un vero sviluppo sociale se prendiamo le distanze da ogni forma di “riduzionismo”, iniziando da quello economico; l’uomo che non ha potuto giungere a una sufficiente formazione culturale e spirituale non potrà esprimersi sul piano umano, con categorie e linguaggi idonei, nello stesso modo in cui l’uomo denutrito sul piano fisico, essendo privo di forza e vitalità, non potrà vivere.

Si evidenzia, in tal modo, per tutti gli uomini, la necessità di una formazione umanistica in grado di esprimere valori morali, spirituali, cristiani, fondati sulla ragione che è il mezzo più idoneo per incontrare chi non appartiene alla nostra cultura e ha una fede diversa dalla nostra. Il mondo ha bisogno di uomini in grado di elaborare un pensiero antropologicamente fondato e, allo stesso tempo,  saggiamente critico. Solo così le conoscenze tecnico-scientifiche – soprattutto in un epoca come la nostra, pervasa da una diffusa mentalità funzionalista – potranno essere aiutate e sorrette da un reale e vivace umanesimo fondato su Gesù Cristo: è il messaggio che Papa Francesco e la Chiesa Italiana hanno voluto dare, con forza, nel Convegno Ecclesiale di Firenze nel novembre del 2015.

Tale umanesimo ci permetterà di non smarrire la nostra umanità, ci consentirà di nutrirci e testimoniare valori realmente degni dell’uomo – e, quindi, umani e cristiani – come cinquant’anni or sono richiedeva Populorum progressio. Avremo così la capacità di amare, la forza di instaurare rapporti di amicizia e guardare al bene sommo della libertà a partire dalla verità e dall’amore, incominciando dalla libertà che fonda ogni altra libertà, ossia la libertà religiosa.

Gli ultimi paragrafi dell’enciclica ci ricordano, infine, come lo sviluppo sia il nuovo nome della pace e, quindi, che ogni ingiustizia da noi compiuta o avvalorata o non contrastata adeguatamente è, senza retorica, una vera e potenziale dichiarazione di guerra.

E’ bello, a questo punto, rimarcare come Populorum progressio si ponga sulla scia di Pacem in terris di san Giovanni XXIII (datata quest’ultima 11 aprile 1963); entrambe le encicliche insegnano che il bene grande della pace è affidato a uomini e donne chiamati a promuoverlo sempre, senza stancarsi.

Per il mondo la pace, in genere, è il risultato dell’affermazione del più forte; pensiamo alla pax romana o pax Augusti, ossia a quel periodo in cui si affermò la pace del più forte, una pace in realtà “imposta” dall’Imperatore ai popoli asserviti al volere assoluto di Roma.

Ma questa non è la pace del Vangelo. Non è la pace che nasce dall’incontro con chi è riconosciuto e rispettato nella sua dignità di persona o di popolo.

A questo punto è importante notare come, due anni dopo la promulgazione di Populorum progressio – era il giugno del 1969 -, Paolo VI si recò personalmente a Ginevra presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite e incaricata di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani internazionalmente riconosciuti, con particolare attenzione a quelli riguardanti il lavoro in tutti i suoi aspetti. Desiderio del Papa era fare in modo che quanto era scritto nella Populorum progressio non rimanesse lettera morta ma favorisse un reale rinnovamento del mondo.

Ecco le parole che, in tale circostanza, rivolse ai membri dell’Agenzia. In realtà, sono parole rivolte al mondo intero: “È necessario che voi esprimiate in regole di diritto la solidarietà che si afferma sempre più nella coscienza degli uomini. Come ieri voi avete assicurato con la vostra legislazione la protezione e la sopravvivenza del debole contro la potenza del forte – Lacordaire lo diceva: «Tra il forte e il debole, la libertà opprime, la legge libera» (52ª Conferenza di Notre-Dame, Quaresima 1845, in Œuvres, del P. Lacordaire, t. IV, Paris, Pousielgue, 1872, p. 494) -, è necessario ormai che voi freniate i diritti dei popoli forti, e favoriate lo sviluppo dei popoli deboli creandone le condizioni, non solo teoriche, ma pratiche, di un vero diritto internazionale del lavoro a livello dei popoli. Come ogni uomo, ogni popolo deve effettivamente, per mezzo del suo lavoro, svilupparsi, crescere in umanità, passare da condizioni meno umane a condizioni più umane (cfr. Populorum progressio, nn. 15 e 20). C’è bisogno di condizioni e di mezzi adatti, una volontà comune, di cui le vostre convenzioni liberamente elaborate tra governi, lavoratori e imprenditori, potrebbero e dovrebbero fornire progressivamente l’espressione (Paolo VI, Discorso all’Assemblea dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in occasione del 50° anniversario della sua fondazione, Ginevra 10 giugno 1969).

In un tale difficile e precario equilibrio mondiale le variazioni sono possibili, per cui si dà che popoli e Stati, ieri in posizioni di retroguardia, oggi siano cresciuti; è anche vero, ovviamente, l’inverso e molto dipende dagli assetti politici che si sono succeduti in questi Stati.

Abbiamo assistito, per esempio, all’improvvisa crescita economica di Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan; proprio per questo tali Paesi vennero denominati, in gergo economico, le “tigri asiatiche”. In un breve spazio di tempo Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan hanno intrapreso percorsi di industrializzazione che li hanno portati a cambiamenti strutturali di crescita fino a diventare economie di prima grandezza; in soli trent’anni sono entrati a far parte, a pieno titolo, del mercato globale come stelle che brillano di luce propria. Hong Kong e Singapore sono diventati centri finanziari e logistici di importanza mondiale; la Corea del Sud e Taiwan hanno raggiunto posizioni di leadership sia per importanti prodotti industriali sia nel settore delle tecnologie informatiche.

Al di là delle differenti valutazioni da parte di economisti e politici, importa ribadire il contenuto profetico sia di Populorum progressio sia del discorso di Paolo VI a Ginevra; è attraverso questi gesti e interventi del magistero della Chiesa – che, in modi diversi, si ripeteranno nei pontificati successivi (con san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco) – che la politica verrà sempre più interpellata in vista di un umanesimo pieno, integrale, veramente degno dell’uomo.

L’enciclica vuole ispirare una politica che persegua un integrale sviluppo dei popoli, senza preferire un particolare modello politico.

Paolo VI, con questo atto di magistero, rivolgeva un appello al mondo che viveva un passaggio epocale. Stavano infatti per affacciarsi o si erano appena affacciati, alla ribalta internazionale, nuovi popoli e Stati che si erano affrancati dal dominio coloniale. In tale circostanza, Paolo VI offrì un insegnamento umano e cristiano circa il vero sviluppo, rivolgendo ai credenti e a tutti gli uomini di buona volontà un invito fermo e rispettoso delle coscienze. Niente di più sbagliato, quindi, che vedere in Populorum progressio il manifesto di un programma politico, cosa che sarebbe fuori delle competenze della Chiesa.

Per interpretare in modo corretto Populorum progressio è poi significativo considerare quanto ebbe a dire Paolo VI, constatando che la seconda parte dell’enciclica (“Verso lo sviluppo solidale dell’umanità”) era oggetto di maggiore attenzione rispetto alla prima (“Per uno sviluppo integrale dell’uomo”): “Non mi hanno capito”.

Si fraintende infatti o ancor più si vanifica l’intero documento quando la seconda parte non viene letta alla luce della prima e quando i principi antropologici e teologici della prima non illuminano e spiegano tutta la seconda parte.

Populorum progressio non può esser compresa nel suo vero senso quando si riducono le sue affermazioni al solo ambito terreno e facendone un trattato di sociologia; allo stesso modo la parte teologica e antropologica dell’enciclica va strettamente connessa alla realtà storica che, così, viene letta in tutta la sua profondità.

Importante fu il commento di René Maheu – allora direttore Generale dell’Unesco – che, secondo una prospettiva rigorosamente laica, affermava: “La conversione di ciascuno all’opera di salvezza di tutti, qual è lo sviluppo, è la più grande trasformazione spirituale che si impone all’umanità del nostro tempo. Lo sviluppo è un modo di essere dello spirito. È necessario ricordarlo”.

Il messaggio di Populorum progressio può, quindi, esser racchiuso in questa affermazione: non vi è economia che attraverso l’uomo e per l’uomo. E, d’altra parte, nessun uomo o popolo può essere deliberatamente escluso.