Predicazione del Patriarca durante l'incontro ecumenico durante la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani (Venezia / Basilica cattedrale S. Marco, 25 gennaio 2018)
25-01-2018

Preghiera ecumenica

(Venezia / Basilica cattedrale S.Marco,25 gennaio 2018)

Predicazione del Patriarca Francesco Moraglia

 

  

 

Cari fratelle e sorelle,

il passaggio del Mar Rosso – raccontato dal libro dell’Esodo (cap. 15, vv. 1-21) -, costituisce il riferimento biblico di questa nostra preghiera ecumenica. Il messaggio è chiaro: la mano di Dio è potente, l’uomo da solo non può salvarsi!

Esodo 15, 1-21 è un testo che fa parte della liturgia pasquale della Chiesa Cattolica; è una lettura dell’Ufficio della grande Veglia che sant’Agostino definisce “la madre di tutte le veglie” (Agostino, Discorso, 219).

Il poeta francese Paul Claudel, a distanza di quindici secoli, nel suo poema Nuit de Paques, ribadiva così il senso della Veglia del sabato santo: “Je ne dors pas. Mais entre le Samedi-Saint et Paques, la nuit n’est pas faite pour dormir!”.

Il nostro testo è noto, anche, come “il canto di Mosè” e viene ripreso nel libro dell’Apocalisse dove il cantico viene intonato dai vincitori – coloro che hanno vinto – e i cui nomi sono scritti nel libro della vita: “Vidi pure come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare di cristallo. Hanno cetre divine e cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell’Agnello: «Grandi e mirabili sono le tue opere, Signore Dio onnipotente; giuste e vere le tue vie, Re delle genti! O Signore, chi non temerà e non darà gloria al tuo nome?  Poiché tu solo sei santo, e tutte le genti verranno e si prostreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi furono manifestati…»” (Ap 15,2-4).

Il passaggio del Mar Rosso è, nella storia di Israele, evento costitutivo che, in seguito, verrà sempre ripreso nella predicazione dei profeti, nella preghiera dei salmi, nella professione di fede di Israele.

Nel canto di Mosè si rende grazie a Dio poiché il popolo ha potuto sperimentare ciò che mai, da solo, avrebbe potuto compiere. L’Esodo è manifestazione di pura grazia, di pura misericordia; è il Dio con noi che si china su chi giace e non è in grado di rialzarsi.

L’Egitto e il mare sono simboli della morte, rappresentano il nemico che Dio ha sconfitto. Il popolo fugge dai carri del Faraone e si trova dinanzi alle acque profonde e insidiose del mare dei Giunchi, ma qui si manifesta la potente mano di Dio e, per Israele, inizia la nuova vita.

È la profezia della grazia, è l’annuncio del battesimo: l’acqua, la nube, lo Spirito. Il quarto Vangelo parlerà di nascita “dall’acqua e dallo Spirito” (Gv 3,5).

Così Israele è guidato dalla mano potente del Signore verso la terra promessa; la morte è sconfitta. Il canto di Mosè – come detto – è canto di tutto il popolo che ha sperimentato la mano paterna e potente del suo Signore.

È il tema della grazia: Dio interviene, Dio salva e libera Israele dalla terra di schiavitù e morte. “Grazia”, in ebraico, si dice hen (da hanan) e vuol dire “chinarsi volgendo lo sguardo”, guardando verso il basso, ossia aver misericordia di chi ha bisogno di soccorso, di protezione, di aiuto.

Il Potente, ossia Dio, si prende cura con benevolenza del misero!

Il termine carità, charis, nel Nuovo Testamento appare tre volte nel quarto Vangelo (nel prologo), otto nel Vangelo di Luca e una quindicina di volte negli Atti; non è presente, invece, in Matteo e in Marco. Paolo lo usa più di cento volte con sfumature diverse, sempre al singolare; per l’Apostolo è il termine paradigmatico della salvezza che esprime, al meglio, l’evento di Damasco, ovvero la gratuita iniziativa di Dio, la grazia innanzi a cui l’uomo non può vantare né meriti, né doti, né capacità.

La salvezza viene da Dio mentre l’uomo è costretto fra due principi che lo chiudono in una stretta mortale; fuori di lui c’è – secondo Efesini – il maligno (cfr. Ef 2,2), dentro di lui la concupiscenza (cfr. Ef 2,3).

E nel suo capolavoro – quella lettera ai Romani che è sempre stata importante per la Riforma, da Lutero a Barth – Paolo afferma che tutti gli uomini, sia quelli che appartengono all’Alleanza sia quelli che non vi appartengono, sono sotto il segno del peccato (cfr. Rom 1,18-3,20).

Il peccato dei pagani è l’idolatria, una sorta di accecamento nel vivere, per cui si smarrisce la stessa conoscenza di Dio (cfr. Rom 1,21-23); ne consegue una vita indegna dell’uomo, una vita immorale (cfr. Rom 1,24-32). Così la creatura è diventata incapace di gioire per la sua creaturalità e, in ogni suo peccato, esprime la non-volontà di riconoscere che appartiene a Dio; il peccatore finisce, quindi, per ingannarsi e adorare se stesso.

Ora, se il peccato fondamentale dei pagani è il rifiuto di riconoscere il Creatore, quello dei Giudei è confidare in sé, contare sulla propria giustizia: l’osservanza della legge. Si tratta, in tal modo, di una giustizia che viene dall’uomo, è l’autogiustificazione, il frutto di proprie prestazioni; la salvezza è il risultato delle proprie opere, non è più il dono di Dio.

E qui il peccato – dei pagani e dei giudei – rivela la sua comune origine. Si tratta dello stesso peccato­: non voler riconoscere d’esser debitori a Dio della propria esistenza.

Il peccato del cristiano, alla fine, si riduce a questi due atteggiamenti: il rifiuto nei confronti del Creatore, non riconosciuto più come tale, e la glorificazione di se stessi nella compiacenza dell’autogiustificazione, riponendo ogni fiducia in sé.

Il testo di Romani mostra come l’Antico Testamento non si oppone al Nuovo, piuttosto l’annuncia e lo prepara: “…tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù ” (Rm 3,23-26).

Il Dio “giusto” non abbandona il peccatore e manifesta la sua giustizia in Cristo Gesù; l’uomo così è giustificato per quella giustizia che non può darsi da solo e che è puro dono e grazia ed è una persona, Gesù Cristo, in cui ogni profezia dell’Antico Testamento si compie.

La Pasqua è il compimento del passaggio del mar Rosso; il vero canto di Mosè si intona sulla croce ed è il grido di Gesù.

Matteo nota nel suo Vangelo: “…Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito. Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono… Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Davvero costui era Figlio di Dio!»” (Mt 27, 50-52.54).

La croce è il luogo della grazia, del puro dono, della rappacificazione fra cielo e terra; è, quindi, il vero transito del mar Rosso, è la vera vittoria della luce sulle tenebre, è la pienezza della Misericordia. La croce è il luogo dove Dio vince il mondo, dove l’uomo ritrova se stesso, dove il buon ladrone riceve il perdono, dove le tenebre diventano luce, dove Dio ci parla non con parole umane ma con la Parola che solo Lui può pronunciare e che si chiama grazia e perdono.

Così, a Pasqua, il vero Esodo si realizza in pienezza, si compie; nella pienezza della fede, la croce è la vittoria che supera tutte le impotenze dell’uomo e, afferrandolo, lo porta oltre se stesso perché ciò che l’uomo aveva smarrito lo ritrovi nel dono ricevuto per grazia.

L’uomo è veramente tale a partire dalla grazia di Dio; senza la grazia, quando l’uomo parla balbetta e quando cammina inciampa. La prima lettera ai Corinti – a sua volta – esprime bene il riferimento fra l’Esodo d’Israele e l’Esodo di Cristo. Entrambe avvengono sotto la potente mano di Dio: uno è profezia, l’altro è compimento, ossia pienezza della Grazia che salva.

”… i nostri padri – scrive l’Apostolo – furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1Cor 10,1-4).