Predicazione del Patriarca durante l'incontro di preghiera ecumenica (Venezia / Basilica cattedrale S. Marco, 24 gennaio 2020)
24-01-2020

Preghiera ecumenica

(Venezia / Basilica cattedrale S. Marco, 24 gennaio 2020)

Predicazione del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Fratelli e sorelle,

a tutti do il mio benvenuto e un cordiale abbraccio nel Signore.

Rivolgiamo lo sguardo al Signore Gesù, che è il senso del nostro battesimo, che sostiene le nostre chiese e comunità e domandiamo al Padre la grazia di vivere la nostra vocazione come ha fatto Maria Vingiani, la cui vita fu un vero dono per il movimento ecumenico e il dialogo interreligioso, in particolare col mondo ebraico; memorabile fu il suo incontro con Jules Isaac.

Chiediamo un po’ del suo coraggio, del suo amore, della sua fede! E permettetemi poi di nominare e ricordare anche il cardinale Capovilla, il carissimo don Loris.

Gesù sempre ci precede e ci conduce oltre le nostre ferite aiutandoci a ricomporre incomprensioni, fratture e divisioni che hanno lacerato le nostre chiese e comunità.  Lui, il Signore, ci guida lungo la strada non facile ma affascinante dell’unità e, come i discepoli di Emmaus, dobbiamo diventare testimoni di Gesù risorto incontrato lungo il cammino.

Col dialogo sincero e disponibile che supera ogni autoreferenzialità, i due discepoli scoprono la presenza del Signore che cammina al loro fianco. I due di Emmaus diventano così il costante riferimento per la vita delle nostre chiese e comunità chiamate ad accorgersi, innanzitutto, della presenza del Signore ascoltando la Sua Parola. La presenza del Signore va scoperta, non fabbricata!

Ricordo le parole pronunciate da Papa Francesco, l’anno scorso a Rabat, a proposito di “un dialogo… che siamo invitati a realizzare alla maniera di Gesù, mite e umile di cuore (cfr. Mt 11,29), con un amore fervente e disinteressato, senza calcoli e senza limiti, nel rispetto della libertà delle persone” (Papa Francesco, Discorso all’incontro con i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e il Consiglio ecumenico delle Chiese, Rabat 31 marzo 2019).

Certo, è motivo di gioia poter pregare insieme in questa Basilica che, purtroppo, ancora una volta nei mesi scorsi è stata ferita dall’acqua alta; tale evento, così ripetuto in questi ultimi anni, ci interpella come cristiani e cittadini chiedendoci se, realmente, ci stiamo prendendo cura del creato, la nostra casa comune. Come credenti siamo realmente custodi del dono di Dio? Questa domanda a Venezia, città unica per la sua bellezza e fragilità, risuona in questi giorni con una forza tutta particolare.

La Basilica custodisce le spoglie dell’evangelista Marco a cui i fratelli e le sorelle della Chiesa Copta – e qui saluto con affetto il Vescovo Anba Giovanni –  sono molto legati. Proprio qui, il prossimo 8 maggio, essi vi celebreranno la liturgia in occasione del giorno della memoria del martirio dell’Evangelista secondo la loro gloriosa tradizione.

Il primo gesto – che insieme abbiamo compiuto – è stato invocare lo Spirito Santo affinché rinnovasse i nostri cuori chiamati ad amare nella verità e a perdonare con libertà.

Sì, amore e verità, perdono e libertà, dopo la grazia di Dio, sono la base di ogni genuino cammino ecumenico. E così, prima dell’ascolto della Parola di Dio, abbiamo insieme recitato la preghiera del perdono; il perdono è grazia di Dio che si esprime nel perdono /accoglienza tra i fratelli.

Non a caso nel Vangelo secondo Matteo, dopo il Padre Nostro, Gesù dice: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6, 14-15). Il perdono è il frutto della preghiera.

Abbiamo, poi, ascoltato la Parola di Dio accolta per quello che è, ossia Parola di Dio e non di uomini. È, quindi, una Parola che partecipa di Dio stesso e del suo Mistero, per cui Divo Barsotti arriva a scrivere: “Il Mistero è uno e abbraccia ogni cosa: la Parola di Dio e la storia dell’uomo. Ogni cosa è in riferimento al Mistero, del quale ogni cosa è un aspetto. E che cosa è questo Mistero che tutto abbraccia e attraverso ciascuna cosa si esprime? Non certo una verità che… si rivela soltanto all’intelligenza… piuttosto un disegno divino che si realizza” (Divo Barsotti, Il Mistero cristiano e la Parola di Dio, Milano 2009).

Si tratta, quindi, di un disegno di Dio che è il progetto di Dio Padre misericordioso che si compie nella storia creandola e salvandola. Ed è proprio secondo tale prospettiva che dobbiamo intendere il testo di Atti degli Apostoli scelto per la predicazione ecumenica di quest’anno. In esso si narra il viaggio dell’apostolo Paolo da Gerusalemme a Roma; la narrazione s’interrompe col naufragio nell’isola di Malta, al centro del Mediterraneo e, oggi, cimitero per troppi disperati in cerca di vita.

Il racconto – con grande realismo – dà conto del viaggio e dei rischi che l’hanno contrassegnato. In esso abbiamo numerosi spunti e cogliamo un simbolo della nostra vita e di quello delle nostre chiese e comunità.

Intanto la narrazione usa il pronome “noi” – la seconda persona plurale – e così ci è detto che chi narra è coinvolto nei fatti e ha vissuto di persona quei momenti. Si nota, poi, il resoconto dettagliato e minuzioso, dei gesti dei marinai per “governare” la nave che, più volte, rischia il naufragio. Chi narra conosce bene fatti e circostanze e i dettagli costituiscono preziosi elementi che confermano come il viaggio sia raccontato da testimoni lì presenti e che ne conservavano una memoria viva; anche questo sottolinea il carattere di autenticità del documento.

Ci fermiamo ora, seppur brevemente, su un punto oggi decisivo per noi, per le nostre chiese e comunità. Paolo affronta un mare infido, insieme a compagni che non si è scelto ma gli sono stati affidati da Dio – il centurione, i militari, i marinai, i prigionieri –; tale viaggio diventa un’allegoria della nostra vita sorretta e guidata da Dio, ossia dalla Parola di Dio.

Tale drammatico viaggio, da Cesarea a Roma, è paragonabile a un nuovo Esodo; l’esodo è tema ricorrente nella Bibbia. Abramo, Giacobbe, Giuseppe e il popolo fanno il loro esodo, profezia del vero esodo, quello di Gesù, come attesta l’evangelista Giovanni con queste parole: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1).

Anche il viaggio di Paolo va inteso come Esodo in cui si fa esperienza della precarietà umana e ci si abbandona con fiducia a Dio e alla sua grazia. Il messaggio è chiaro: ci salviamo solo rimanendo uniti, solo stando insieme, solo se non ci separiamo dagli altri, solo se uniamo le forze.

Gli esili fili che formano l’unica fune assieme risultano resistenti, invincibili; se presi da soli si strappano facilmente, uno dopo l’altro, ma intrecciati fra loro rendono la fune capace di reggere ogni sforzo.

Al di là di questa immagine, coloro che si trovano sull’imbarcazione potranno giungere sani e salvi alla meta se sapranno stare insieme, se non si divideranno e, soprattutto, se sapranno soffrire guardando nella stessa direzione per scorgere una comune terra di salvezza.

Questo viaggio, come detto, riveste un profondo significato simbolico ed è posto al termine dell’ultimo libro storico della rivelazione cristiana, gli Atti degli Apostoli. L’Apocalisse non è una narrazione storica ma profetica che legge, in modo sapienziale, la storia presente e futura; non riguarda fatti, persone o tempi che devono ancora manifestarsi ma si riferisce al significato cristiano del tempo presente e futuro.

La Bibbia – lo sappiamo – conosce riferimenti fondamentali al mare; basti pensare al libro dell’Esodo (14, 1-31) con il passaggio del Mar Rosso, al libro di Giona (1-2,11) con la tempesta e il salvataggio del profeta o, ancora, al salmo 96 (95) che menziona “il mare e quanto racchiude” (v. 11).

Il libro di Giobbe, poi, ci presenta Dio come Colui che domina la furia del mare, le onde agitate e i venti burrascosi – simboli dell’orgoglio umano – ed è proprio il Signore che, in mezzo al turbine, risponde a Giobbe: «Chi ha chiuso tra due porte il mare,        quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38, 8-11).

Il mare, infine, ci viene ancora presentato come luogo spaventoso ed infido abitato da esseri mostruosi i cui nomi incutono spavento ed angoscia solo a sentirli pronunciare come Leviatàn (cfr. Is 27,1) e Behemot (cfr. Gb 40, 15-24).

«Su tutto il caos e il male, incarnato dal mare – scrive Gianfranco Ravasi –, si stende però la parola creatrice e provvidente di Dio e quella del suo Cristo, il Figlio di Dio, come appare nei racconti evangelici della tempesta sedata e del cammino sulle acque… Nella creazione redenta, raffigurata dalla Gerusalemme celeste, ci sarà un’esperienza necessaria da fare: ”Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più” (Ap 21,1)» (Gianfranco Ravasi, 500 curiosità della fede, Milano 2011).

Ma Israele s’identifica con la promessa di una discendenza e di una terra e proprio a questa terra promessa hanno guardato i patriarchi, i profeti, i giudici, i re, i profeti. Il deserto, poi, per Israele è luogo dell’incontro con Dio ma anche della prova, del peccato, del tradimento. Al contrario – lo ribadiamo – gli ultimi due capitoli degli Atti degli Apostoli si svolgono sul mare. Quel mare che i Romani, allora i padroni del mondo, avevano chiamato con orgoglio e senso del potere Mare nostrum.

Ora, con tale viaggio, l’Evangelo giunge a Roma, il centro del mondo allora conosciuto; una meta che è un nuovo inizio, una nuova ripartenza.

Il Signore ci aiuti a considerare sempre più il mare come luogo d’incontro, come ponte fra terre abitate da uomini che si considerano e veramente si chiamano fratelli: il Mare di tutti.