Omelia del Patriarca nella S. Messa per le ordinazioni presbiterali (Venezia, Basilica di S. Marco - 22 giugno 2019)
22-06-2019

S. Messa per le ordinazioni presbiterali

(Venezia, Basilica di S. Marco – 22 giugno 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

             

 

Carissimi don Giovanni, don Gianpiero, don Riccardo, don Marco,

cari confratelli nel sacerdozio, cari diaconi, cari fedeli,

mi rivolgo innanzitutto a voi futuri sacerdoti e, poi, ai vostri genitori, ai familiari e agli amici. Ringrazio in particolare i genitori per avere, in modi diversi, accompagnato il vostro cammino. E ringrazio anche i preti che vi hanno accompagnato con l’esempio e con il consiglio, dandovi il loro tempo.

È bello essere oggi qui, nella chiesa madre della Diocesi, con lo sguardo rivolto al Signore Gesù, a Lui che non si lascia condizionare da mode, derive politiche, lobby finanziarie e culturali e che nel Suo Vangelo ci dice cos’ è la libertàe come si fa ad essere liberi.

Un prete novello dice libertà, perché oggi fare il prete significa andare contro corrente, uscire dal modo comune di pensare che condiziona molto più di quello che sembra, illudendoci d’essere liberi e di ragionare con la nostra testa mentre spesso scegliamo, invece, a partire da quello che altri hanno deciso e ci propongono o ci impongono, lasciando in ombra altre prospettive più vere, più giuste, più etiche, più dignitose per l’uomo e la società.

Della vostra libertà, cari ordinandi, vi ringraziamo; siete per la comunità un motivo di gioia che ripaga anche dalle inevitabili fatiche provate da chi ritiene che il “sì, sì; no, no” del Vangelo sia ancora attuale, a differenza di quanto ritiene un cristianesimo mondanizzato.

Carissimi preti novelli, oggi voi – con la generosa e piena offerta di voi stessi – ci fate toccare con mano come il Signore continui a operare e si renda presente là dove vi sono persone libere che non seguono il pensiero unico dominante, il “politicamente corretto”.

Essere prete oggi non è più come, talvolta, era fino ad un passato non lontanissimo, in cui ci si poteva illudere che volesse dire conseguire una elevazione sociale e percorrere un cammino di autonomia personale. Il prete non è questo.

Essere prete vuol dire fare una scelta che pone in situazione di “minoranza”; per questo la vita del prete, ai più, risulta una scelta incomprensibile. Viverla nella gioia del dono significa, allora, testimoniare la bontà del Vangelo ed evangelizzando con la propria vita. Abbiate tempo per gli altri!

Vediamo l’onnipresenza del “politicamente corretto” non solo a partire da certa informazione (i media) ma anche dallo stile dei nostri vicini di casa, delle famiglie che appartengono alle nostre comunità, di chi si dice cristiano e poi ragiona come il mondo, di tanti che credono di essere originali solo perché vestono alla moda o citano l’ultimo libro uscito in libreria o vincitore dell’ultimo concorso letterario.

Carissimi, diventare preti oggi chiede di non lasciarsi inquadrare dal “politicamente corretto”; il prete deve essere testimone di libertà perché oggi fare il prete non è umanamente e socialmente vantaggioso. E il Vangelo vuol dire libertà!

Quattro nuovi sacerdoti dicono che possiamo guardare con più fiducia al futuro, perché un prete è il dono specialissimo di Gesù alla Sua Chiesa, ossia a ciascuno di noi. Voi ci dite che Gesù continua ad amare la nostra Chiesa e ad amarci.

La Chiesa siamo tutti noi, chiamati come i due discepoli di Emmaus ad uscire dalle nostre sicurezze umane. Essere popolo di Dio significa rispondere alla comune vocazione battesimale, all’interno delle specifiche vocazioni: sposi, consacrati, diaconi, presbiteri, vescovo.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri, perché l’altro arricchisce la mia vocazione con la sua vocazione e così, insieme, ci si apre alla vera cattolicità che vuol dire apertura al tutto che è Gesù Cristo; solo Lui ci può offrire quello che noi non abbiamo.

Carissimi don Giovanni, don Gianpiero, don Riccardo, don Marco, appartenere alla Chiesa vuol dire essere degli inviati e, quindi, non persone che scelgono in autonomia.

L’apostolo Pietro, scrivendo ai presbiteri, a coloro, cioè, che esercitano il ministero nella Chiesa, così si esprime: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro (“anziano” qui significa “vescovo” o “prete”), testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce» (1Pt 5, 1-4).

Pietro ribadisce, quindi, che nel ministero non devono darsi interessi personali e, voi, il giorno dell’ordinazione, lo dovete dire – con le parole e i fatti – a voi stessi, alle vostre famiglie e alle persone che vi stanno intorno, alla Chiesa; questo per non essere degli infelici e rendere infelici altri.

Oggi, infatti, pronunciate le promesse sacerdotali; fatelo senza restrizioni mentali e con generosità. Il giorno dell’ordinazione segna per sempre la vostra vita; oggi tutto cambia. E sarebbe incomprensione del sacramento non percepirlo; voi, a questo giorno, vi siete preparati con impegno e presto vedrete che Gesù non fa mai mancare il suo aiuto a chi cammina con Lui in verità, sincerità, trasparenza e onestà di vita.

Il prete rimane un battezzato, ossia un umile membro del popolo di Dio, una pecorella del Signore, ed è importante che ogni prete e vescovo lo ricordi bene e gioisca nel sentirsi pecorella del Signore.

Carissimi ordinandi, il primo impegno pastorale di un prete e di un vescovo – e non vi paia atto d’egoismo perché, piuttosto, è atto d’umiltà e di realismo – è vigilare su di sé, aver cura di sé. Un pastore deve sempre vigilare su di sé, per non farsi prender la mano dall’uomo vecchio che abita in lui.

Carissimi, oggi, nella Chiesa – la sposa di Cristo – non vi è assegnato un compito; no, oggi ricevete una conformazione specifica a Cristo, Buon Pastore, che vi abilita a servire gratuitamente tutti – non un gruppo – e senza nulla pretendere, senza preferire alcuni ad altri.

Sminuire la grandezza del sacramento dell’ordine non è umiltà; qualche volta è falsa umiltà, altre volte è ignoranza teologica. Guardatevi dall’ignoranza teologica, non per far bella figura, ma per non tradire chi vi chiede qual è il senso della sua vita e, soprattutto, chi è Gesù Cristo!

Sminuire il sacramento dell’ordine non è consentito a nessuno; al contrario, il sacramento dell’ordine va vissuto con umiltà e semplicità, consapevoli che si è ricevuto per pura grazia e non per propri meriti.

Il clericalismo – come ricorda spesso Papa Francesco – ha molte radici e una di queste è la falsa umiltà per cui il clericalismo si mantiene vivo sminuendo l’importanza del sacramento dell’ordine ed accendendo i riflettori sulla propria persona.

E allora ci sono i preti “più” preti, i preti “insostituibili”, i preti “carismatici” (e la lista potrebbe continuare)… Certo, non tutti i preti sono uguali e non tutti hanno gli stessi talenti, ma il rischio è cadere nel personalismo, ossia l’io che prende il sopravvento sul ministero ordinato. Carissimi, l’autostima è necessaria; la presunzione, invece, è peccato e il confine è sottilissimo.

Cari novelli preti, portate viva la memoria del Vangelo che il diacono ha appena proclamato – Matteo (6, 24-34) -; ricordatelo bene, è il Vangelo della vostra ordinazione. Sia la bussola a cui guardare quando le motivazioni umane vengono meno; la bussola – lo sappiamo – indica la direzione certa ed è utile soprattutto quando si è smarrita o pensiamo di aver smarrito la strada.

Questo Vangelo di Matteo, allora, vi accompagni e vi aiuti a fare chiarezza prima di tutto dentro di voi e, poi, al di fuori, perché è dal cuore dell’uomo che nascono le cose buone e quelle cattive.

Gesù lega fra loro la vita buona dei discepoli e l’efficacia della loro evangelizzazione: «…vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Siamo sulla stessa linea di quando Gesù dice: «…amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

L’odierna pagina del Vangelo è una delle più alte tra quelle che delineano il rapporto filiale del discepolo col Padre celeste; la fede si manifesta come fiducia, affidamento e confidenza ed è proprio questo il terreno da cui germoglia la preghiera del Padre nostro.

Di tale pagina rimarco una sorta di filo rosso seguendo il quale si capisce che il discepolo non è tanto un uomo chiamato a fare quanto, piuttosto, un uomo chiamato ad essere; sì, la questione fondamentale non è fare (o agitarsi) ma essere.

Il prete non può esaurirsi nel fare; l’attivismo finisce per schiacciarlo e portarlo a malumori e recriminazioni. Il prete, al contrario, deve fondarsi sulla roccia della Parola di Dio. E il Vangelo, oggi, ci indica questa strada: appoggiarsi a Dio, contando più sulla Provvidenza e meno sulle forze e sui programmi umani.

O il prete è radicato nel Signore o, di volta in volta, sarà uomo di cultura, teologo, giornalista, psicologo, assistente sociale o fors’anche manager; i santi preti che hanno saputo dire molto in questi ambiti sono stati, prima di tutto, sacerdoti e poi si occupavano anche di richieste particolari. Un esempio è don Bosco che, in quanto prete, si misurò con la questione sociale, legata alla prima industrializzazione della città di Torino, quando migliaia di adolescenti, spinti dalla fame, venivano a cercarvi lavoro.

Don Bosco, però, non fu mai innanzitutto un assistente sociale, un pedagogo o uno psicologo che, ogni tanto, celebrava messa e confessava; al contrario, fu sempre e prima di tutto prete e lo fu in ogni circostanza della vita.

Se si dovette occupare di pedagogia, psicologia, catechesi e di diritti di lavoro, lo fece a modo di “supplenza”; colpiva vedere un prete arrampicato sulle impalcature di un edificio o discutere con imprenditori senza scrupoli per strappare contratti dignitosi per i suoi ragazzi; oggi al posto di questi ragazzi c’è un’altra umanità che bussa alla nostra porta… E tutto questo era chiesto a don Bosco dall’esercizio fedele del ministero sacerdotale.

Il Vangelo, poi, ci ricorda che essere realmente poveri vuol dire non affermare in teoria che Dio vigila sulla nostra vita ma riconoscerlo concretamente. Matteo – in questa pagina del Vangelo – innalza un inno a Dio Padre misericordioso e che ama tutti i suoi figli.

Scegliamo di questa pagina alcuni passi che ci possono plasmare interiormente, ricordando quanto è importante che il ministero, nella sua efficacia oggettiva, sia sostenuto dal nostro stile personale e dal nostro modo di rapportarci al prossimo; cosa che è più necessaria quanto più è carente la fede delle persone che si incontrano nel ministero.

Possiamo dire che più la città è secolarizzata, più sono necessari ministri che lascino compenetrare, al meglio, la loro umanità da parte della grazia di Dio.

Dalla pericope evangelica odierna indico alcuni pensieri che possono servire da indicazioni concrete per il vostro viaggio di presbiteri:

  • «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro» (Mt 6,24);
  • «Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6,25);
  • «E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?» (Mt 6,27);
  • «Non preoccupatevi… dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste… sa che ne avete bisogno» (Mt 6,31-32);
  • «A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,34).

Carissimi Giovanni, Gianpiero, Riccardo, Marco, sappiate leggere questa pagina non solo in termini di povertà materiale – sarebbe ancora insufficiente – ma soprattutto in termini spirituali, che contengono quelli materiali e vanno oltre.

L’amata Madonna della Salute – come ha vegliato, in questi anni di preparazione, sul vostro cammino in Seminario – guidi ora i vostri primi passi sulla via del sacerdozio, una via bella e di cui rendo grazie a Dio per avermi chiamato 42 anni fa.

Per noi siete importanti, siete un segno, contiamo sul vostro sacerdozio!

 

 

Al termine della Messa, poco prima della benedizione finale, il Patriarca ha infine aggiunto:

Stiamo per sciogliere quest’assemblea che è stata un momento di grazia in cui abbiamo visto come il Signore continua ad operare. Ha operato in Giovanni, Gianpiero, Riccardo e Marco. E continua a lavorare.

Citavo nell’omelia l’immagine dei due discepoli di Emmaus: mi pare una bella immagine di Chiesa, di una Chiesa che deve prendere coscienza che Lui è il Signore.

Cari novelli preti, oggi avete ricevuto il dono del sacerdozio e da oggi dovete diventare voi, nelle vostre persone, un dono là dove sarete mandati. L’oggettività del sacerdozio vuole un volto, due mani, due piedi e… bisogna camminare tenendo i piedi bene in terra, altrimenti finiamo per illuderci di noi stessi. E un prete che illude se stesso illude anche gli altri.

Il dono grande che voi sarete dipende anche dai vostri genitori, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità, dai vostri gruppi ecclesiali. Il vostro sacerdozio è fatto anche di loro.

Come sono importanti un papà e una mamma nella vita di un prete! E i genitori continuano a rimanere tali; abbiate cura di loro! Il ministero ci porta a spenderci molto e, talvolta, dimentichiamo chi si è speso per noi; mi ricordo e vi ricordo il quarto comandamento.

L’applauso che abbiamo rivolto loro vuol dire che la Chiesa è bella e… la Chiesa siamo noi! Chiediamo al Signore di essere come i due discepoli di Emmaus quando si accorgono di Gesù e tornano a dire agli altri che il Signore è veramente una presenza reale e che ha vinto la morte.