Omelia del Patriarca nella solennità di Pentecoste (Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 31 maggio 2020)
31-05-2020

Solennità di Pentecoste

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 31 maggio 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

è una grazia essere di nuovo insieme intorno all’altare e celebrare la liturgia eucaristica nella solennità della Pentecoste.

Quest’anno abbiamo vissuto un tempo pasquale anomalo; siamo stati, infatti, privati a lungo del bene per eccellenza, Gesù Eucaristia. E allora, oggi, vogliamo dire la nostra gioia e, come discepoli del Signore, ripetere ciò che i cristiani martiri di Abitene (siamo all’inizio del IV secolo nell’attuale Tunisia) dicevano ai loro torturatori: “sine Dominicum non possumus”.

Senza celebrare alla domenica l’Eucaristia, per un cristiano non è possibile vivere e la Chiesa non può sussistere privata dell’Unico che le è essenziale e la rende pienamente Chiesa.

Richiamo qui le parole del salmo responsoriale con le quali abbiamo appena pregato: “…togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (Sal 103,29-30). In questi mesi l’invocazione di questo salmo si è materializzata davanti a noi e – come si dice – quasi l’abbiamo toccata con mano.

Un altro salmo (il 144) ci ricorda poi che siamo impastati di fragilità, ossia siamo creature; tale riflessione ci aiuta a crescere e diventare adulti – uomini e donne – che non si fermano all’allettante piano della tecnoscienza, diventandone succubi e servi, ma uomini e donne che vogliono “governare” tali conoscenze tecnoscientifiche a partire da un’antropologia integrale che, come ci ricorda Papa Francesco, stante la frattura arrecata dal peccato originale e dai peccati personali, soltanto col dono dello Spirito Santo potrà essere sanata.

La Pentecoste non è solo una festa liturgica, ma la realtà di cui la Chiesa incessantemente vive; è, infatti, il dono permanente di Cristo che, assiso alla destra del Padre, dà incessantemente al mondo lo Spirito Santo. Così la Chiesa non è altro se non lo Spirito donato da Cristo al mondo che suscita il santo e il sacro.

Il delirio di onnipotenza, che animò i costruttori della torre di Babele, si ripete ad ogni generazione. La chiave di tutto è il cuore dell’uomo; è dal cuore dell’uomo che nasce un progetto di convivenza umana o un altro progetto di segno opposto; progetti fra loro anche radicalmente differenti e che poi vengono attuati attraverso leggi, scelte economiche e le politiche delle istituzioni nazionali ed internazionali.

Sì, in ogni epoca, all’uomo si ripropone una sfida che si declina in contesti diversi (antichità, medioevo, modernità, contemporaneità) ma, comunque, è sempre la stessa sfida: che tipo di uomo? Che tipo di convivenza tra gli uomini e i popoli?

L’uomo in ogni epoca non può esimersi dal rispondere a tale domanda. La nostra realtà di uomini fa rima con fragilità e tutti dovremmo far entrare di più nel nostro vocabolario la parola “umiltà”. L’umiltà è la prima tra le virtù cristiana ed esprime anche la verità più intima del nostro essere; è dalla consapevolezza della nostra fragilità che nasce l’antropologia che pone l’uomo al centro dell’agire politico, non il profitto o la performance.

Il salmo a cui prima facevo cenno – il 144 – è esplicito: “Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero? L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa” (Sal 144,3-4). Questa è la domanda che oggi – solennità di Pentecoste – lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra.

Non deve sorprenderci come il libro della Genesi passi – in maniera spontanea e consequenziale – dalla teologia della creazione e dal Dio creatore alla teologia del settimo giorno, al riposo di Dio, alla teologia del sabato, quella del culto a Dio.

Il sabato era il giorno in cui Israele si riconosceva creatura, il giorno in cui anelava a Dio suo Salvatore. Nel Nuovo Testamento il sabato diventa la domenica, giorno in cui Gesù ha vinto la morte, la fragilità delle fragilità; la domenica, quindi, è il giorno del Signore Gesù, il Risorto.

Dal Dio creatore alla teologia del culto e, infine, alla teologia del lavoro dell’uomo; troviamo già tutto questo nelle prime pagine della Genesi. Adamo dovrà crescere e moltiplicarsi con l’aiuto della compagna che Dio ha posto al suo fianco, la donna.

Un altro salmo ancora ci aiuta a comprendere. Si tratta di uno dei salmi che fanno parte del “canto delle salite”, i salmi che Israele recitava salendo alla Città Santa, al Tempio di Dio. In questo salmo si ricorda come la fatica dell’uomo che costruisce e custodisce la città è vana senza l’aiuto di Dio, vero costruttore e vero custode di ogni fatica umana.

Qui il nostro cerchio si chiude: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto egli lo darà nel sonno” (Sal 126, 1-2).

Carissimi, per affrontare i mesi difficili che ci stanno dinanzi e che tutti vorrebbero fossero mesi di “ripartenza”, ci si è fino ad ora fermati unicamente alle prospettive politiche, finanziarie e economiche; tutte cose necessarie ma che, da sole, non bastano. Tutte queste cose, infatti, hanno bisogno di un’anima e gli osservatori politici più attenti hanno parlato di una carenza di “visione” nelle proposte fino ad ora messe in campo.  Ma chi è che dà una “visione” di un tipo piuttosto che di un altro?

Ascoltiamo ancora la Parola di Dio. Fino ad ora abbiamo visto che per costruire la casa o – per usare il linguaggio attuale, post Covid-19 – per far ripartire le nostre città, le nostre attività produttive, il turismo, così vitale per Venezia e per l’Italia, le nostre scuole e i luoghi di aggregazione ci vogliono finanziamenti, piani economici e di marketing ed un’infinità di altri strumenti.

Non è facile far ripartire le economie di Stati e di interi continenti che appartengono ad aree geopolitiche differenti o a sfere d’influenza politica di diverso colore. È anche vero che è facile criticare e più difficile costruire, iniziando dal consenso e connettendo fra loro interessi diversificati e problematiche molteplici, non di rado in conflitto fra loro.

Un conto è quello che si è cercato di fare sul piano operativo per costruire la casa; il vero problema, però, è che non ci si è curati abbastanza di chi abiterà quella casa e di chi condividerà quegli spazi. Non ci si è neppure posta la domanda su come preparare le persone al nuovo scenario post Covid-19, ossia i bambini, i giovani, gli adulti e gli anziani che sono, poi, il motivo per cui si sta costruendo la casa.

Una domanda sorge spontanea: si vuole continuare come prima, fino a quando – Dio non voglia – si affaccerà la prossima emergenza di qualunque tipo sia? Ci siamo serviti di un’immagine, quella della casa, ma spesso le immagini servono più delle parole e dei ragionamenti. La questione – l’abbiamo visto – è semplice: stiamo, forse, costruendo l’ennesima casa-edificio non pensando minimamente al fatto che questa casa sia o no a misura di bambino, di anziano, di famiglia.

Per l’Europa e gli Stati che la compongono e, tra essi, l’Italia non è solo questione di mancanza di “visione”; la “visione”, infatti, è il frutto di chi la possiede e riesce a tradurla in progetto reale.

Ciò di cui si avverte la mancanza, oggi, è la presenza di uomini e donne che, oltre ad essere competenti nei propri ambiti (cosa non scontata), abbiano alle spalle una reale storia lavorativa e siano abituate a stare in mezzo alla gente e non nei pensatoi ove si immaginano i massimi sistemi.

I “tecnici” non sono riusciti, nonostante la loro buona volontà, a risolvere i problemi perché la politica, alla fine, non è tanto una scienza – seppur non esatta – ma è un’arte e per il cristiano, poi, è atto grande di carità in quanto si occupa del bene comune, ad iniziare dalle persone e da quelle più fragili.

Quando ad una politica manca una “visione” vera su famiglia, scuola,  ed educazione, la giusta attenzione / considerazione e il rispetto verso il culto – che è espressione del diritto alla libertà religiosa -, forse tale politica, oltre ad esser di corto respiro, respirerà per poco.

Fino a qui abbiamo le prospettive del progettare e del fare, ma dietro al progettare e al fare ci sono uomini e donne capaci di “visione” o, meglio, che hanno un’anima. Noi sentiamo la mancanza di uomini come Schumann, Adenauer, De Gasperi.

Quando parliamo di “visione”, parliamo innanzitutto di anima; un’anima capace di una visione prospettica, capace di porre l’uomo al centro, ed è quello che in questa solennità di Pentecoste vogliamo chiedere allo Spirito Santo.

Solo lo Spirito può aprire il cuore degli uomini ad una visione che ponga l’uomo al centro, come fine e mai come mezzo. Si tratta, insomma, di realizzare un’antropologia completa e integrale, come la dottrina sociale della Chiesa propone in termini di laicità e di riconosciuta autonomia delle realtà create.

Come cristiani, inoltre, sappiamo che l’uomo è portatore di una ferita – il peccato -, ne sia conscio o no, e qui solo lo Spirito Santo può aiutare coloro che sono chiamati a farsi carico del bene pubblico affinché siano persone libere, distaccate dal potere, coraggiose, non inclini ai facili applausi e non bramose delle luci della ribalta.

Chi fa politica, insomma, è un uomo come gli altri che, ad un certo momento e per un certo periodo, si trova in una posizione in cui sperimenta cosa può dare il potere: le vertigini.

Sul potere bisogna essere chiari: il potere non è una cosa “sporca” ma può facilmente sporcare; il potere non è sinonimo di superbia ed onnipotenza, ma conduce facilmente a diventare superbi e a sentirsi padroni delle cose e anche delle persone; il potere, infine, per limitarci solo a queste tre considerazioni, non è corrotto ma può corrompere e può traviare anche gli animi più nobili.

Ecco perché il cristiano non considera la solennità liturgica dela Pentecoste come una devozione ma come un evento salvifico che celebra, esprimendo una fede amica dell’uomo e che vuol stare nella storia.

Ciò vuol dire per il cristiano, attraverso il dono dello Spirito Santo e come avvenne nel giorno della prima Pentecoste, abitare la città – la polis – per costruirla finalmente a misura d’uomo, di bambino, di anziano, di persona diversamente abile.

Sì, una città e una società che si ripensano a partire dagli altri e meditando sulla fragilità delle singole persone. L’invito dello Spirito è di scendere con coraggio, con semplicità e con fiducia, là dove il Signore ci manda, convinti che Lui non ci lascerà soli.

Gesù, il giorno di Pentecoste, donandoci lo Spirito, ci chiede di “calarci” nella realtà di questi giorni e mesi belli e difficili che ci sono posti dinanzi perché li viviamo con fede, con senso di responsabilità ed anche con la speranza cristiana che ci viene proprio dal dono dello Spirito Santo.