Omelia del Patriarca nella solennità di Ognissanti durante la S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2017)
01-11-2017

Solennità di Ognissanti – S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2017)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

 

Oggi celebriamo una liturgia particolare: è quella di Tutti i Santi che, in realtà, avviene per noi in uno spazio e in un contesto che ci proietta già nella liturgia della giornata di domani, la commemorazione di tutti i fedeli defunti.

Queste due celebrazioni liturgiche possono – insieme – aprire nel nostro cuore, nella nostra mente, nelle nostre relazioni umane delle prospettive diverse e, allora, veramente, la liturgia diventa vita; quello che io celebro lo porto fuori, oltre il sagrato, nell’ambiente in cui lavoro, in città. E così il Vangelo si annuncia, perché il Vangelo si annuncia credendoci, vivendolo, non costruendo strutture ma esprimendo la nostra fede.

Che cos’è, allora, la santità? Per me e per voi è riprendere la pagina del Vangelo che è stata appena proclamata dal diacono e credere che sia vera.

Beati gli afflitti, beati coloro che piangono… (cfr. Mt 5, 1-11). Per tutta la vita abbiamo dei momenti di afflizione e delle persone che ci affliggono, momenti in cui rimaniamo delusi dalle persone, dalle aspettative… In quei momenti dobbiamo credere che il Signore ci sta dicendo qualcosa: fa’ attenzione, non puoi pretendere di essere felice in questo mondo. Chi pretende di essere felice, chi persegue la felicità, chi vuole la felicità – anche quando ha motivi veri per essere felice – non si ritrova mai felice perché deve sempre inseguire qualcosa.

La santità è, prima di tutto, entrare in sintonia con il Vangelo, ascoltare il Vangelo, lasciare che il Vangelo ci giudichi – mi giudichi – e trarne le conseguenze.

San Benedetto – oggi siamo, appunto, nella solennità di Tutti i Santi – è la guida riconosciuta (in Occidente) per la santità monastica. Ha una frase che è il frutto di un suo cammino. Dice che un uomo – lui parlava dell’abate, della guida dei monaci – non può essere guida per altri uomini fintanto che è una persona che guarda a se stessa, fintanto che è un egocentrico, un autoreferenziale; un uomo che pensa a sé e che giudica tutto non può essere esempio e guida per altri uomini che cercano la santità.

San Benedetto, allora, ci dà questa indicazione: mettere in crisi il proprio io. Se noi entriamo in un dialogo, in un confronto, meno sicuri di noi stessi e meno certi dei nostri giudizi, allora siamo nell’atteggiamento di chi si converte. Noi preti partecipiamo dei difetti di tutti gli uomini e poi abbiamo anche quelli dei preti, che gli altri uomini non hanno ma noi preti abbiamo… E tra questi, molte volte, vi è quello di non essere capaci di convertirci realmente, ossia di chiedere agli altri – alla comunità, alla parrocchia, ai confratelli – la conversione ma di non mettere mai, e prima di tutto, in questione noi stessi.

San Benedetto ci chiede di rientrare nel nostro io, di ripensare il nostro io e la nostra vita di fronte all’Io di Dio, di fronte al Tu che mi ama, che mi ha creato e che mi vuole un bene così grande!

Quando si entra in un cimitero capita di vedere anche dei campi nei quali ci sono delle sepolture antiche e – al di là dell’impegno della pubblica amministrazione – si nota che quelle tombe sono disattese e disadorne perché ormai i figli, i nipoti, i pronipoti di quelle persone non ci sono più. Cosa vuol dire una tomba tenuta bene? Vuol dire tante cose: presenza, amore, vicinanza, sollecitudine…

Ebbene, noi siamo nell’amore di Dio che è eterno. Ecco perché la vita continua, ecco perché la resurrezione – per chi crede veramente in un Dio che è Amore eterno – è conseguenza. E io rimango sempre nell’amore di Dio, continuo ad essere presente sempre nell’amore eterno ed onnipotente di Dio e Dio mi continua a mantenere nell’essere, nella vita.

Ritornando a quanto dicevo all’inizio, la vita – anche quando è lunga (poi ci sono anche delle vite brevi che rimangono degli enigmi, dei misteri) – è in realtà molto breve, perché si arriva alla fine della vita con il desiderio ancora di vivere. Certo, molte forze vengono meno e persone che prima avevamo – ed erano significative per noi – ora non ci sono più, ma anche quando si arriva alla fine della vita si desidera vivere.

La vita terrena, dunque, è un assaggio, è un antipasto, è un’antifona. Abbiamo tutti di fronte la vita eterna ma la vita eterna dipende da quegli anni – brevi o lunghi – della nostra vita terrena e la nostra vita terrena dipende, cristianamente, dalla capacità che abbiamo di superare il nostro io, la nostra autoreferenzialità. San Benedetto ci ricorda di nuovo: vuoi essere guida degli altri? Prima di tutto sii guida di te stesso, incominciando a metterti in questione.