Omelia del Patriarca nella solennità di Ognissanti durante la S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2018)
01-11-2018

Solennità di Ognissanti – S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Ringrazio le autorità per la loro presenza, i confratelli sacerdoti, il diacono e tutti voi.

La liturgia della sera dei Santi preannuncia in qualche modo la liturgia di domani e questa celebrazione avviene nel luogo che, per il cristiano, è oggetto di fede e di nostalgia ma anche di riflessione. Bisogna che chi prega sappia esprimere anche la sensatezza della sua fede e della sua preghiera e, quindi, riflettiamo brevemente su quello che è, per il cristiano, la morte ed il cielo.

Si dice che Yuri Gagarin, il 12 aprile 1961, guardando come primo uomo la terra dall’atmosfera, disse (o almeno la frase gli fu attribuita): “Io qui non vedo nessun dio, non c’è alcun dio quassù…”. Eravamo nell’epoca dell’Unione Sovietica, uno dei regimi più sanguinari che l’umanità abbia mai conosciuto.

Riflettiamo, allora, come cristiani che devono essere in grado di rendere ragione della loro fede su che cosa vogliano dire le immagini che noi usiamo parlando di quello che è il nostro destino ultimo. Se non siamo in grado di rendere ragione del nostro destino ultimo, come possiamo arrivare alle scelte storiche di tutti i giorni che facciamo in quanto cristiani? Forse bisogna abbandonare un po’ il fideismo per arrivare ad essere persone di fede e comunità di fede.

Le immagini e i simboli appartengono al linguaggio umano; i fidanzati, gli innamorati, ad esempio, hanno dei loro simboli, dei loro linguaggi e dei loro codici espressivi che vanno al di là dell’immagine, del linguaggio e del codice usato, eppure dicono di più di quell’immagine.

E, allora, che cosa vuol dire il cielo? Gesù non è andato in cielo, Gesù è il cielo e dobbiamo capire che il linguaggio è finalizzato ad una realtà. Invece noi facciamo del simbolo il fine e quindi potremmo anche salire più in alto di quanto è andato Gagarin e dire: “Io qui non vedo nessun dio, non c’è alcun dio quassù…”.

Il linguaggio è espressivo di una realtà a partire da una logica umana insufficiente a descrivere il mistero. Sappiamo, ad esempio, quanto sia liberante e gratificante una giornata luminosa o quanto parli al nostro intimo l’azzurro del cielo; questi simboli e queste immagini sono uno strumento e non un fine.

Gesù è il cielo. Abbiamo bisogno di comunità e di cristiani che sappiano rendere ragione della loro fede. La vita eterna è entrare laddove Cristo ci ha preceduti, laddove è Cristo.

La rivelazione cristiana dovrebbe essere  più meditata e più pensata ma noi, in genere, tralasciamo la catechesi all’età della confermazione, intorno ai dodici anni… Ma nel frattempo si vedono i film, si va a teatro, si leggono libri, si va all’università e si giudica di tutto quello che riguarda la realtà religiosa a partire da quell’istruzione che si è fermata ai 12/13 anni poiché si è perseverato solo fino a quell’età…

Questa liturgia, allora, è l’occasione e il momento per fare un esame di coscienza e per dire se siamo capaci di rendere ragione della nostra fede. La difficoltà ad evangelizzare e ad essere comunità missionaria, molte volte, non è carenza di coraggio ma assenza di conoscenze e di esperienza cristiana.

I Santi, certamente, erano persone che magari non avevano una grande cultura ma avevano una grande  esperienza di Dio; i Santi facevano conoscenza di Dio in ginocchio, alzandosi presto al mattino e stando di fronte al Signore.

Abbiamo bisogno di riscoprire le certezze della fede, di imparare o ritornare ad imparare la grammatica della fede e del linguaggio della fede. Molte volte – di fronte agli amici, ai colleghi di lavoro, ai compagni di scuola – si tace e non si ha il coraggio, non si ha la forza, non si hanno gli strumenti per poter dire: io credo, io credo per questi motivi e tu continui ad essere padrone di non credere però mi devi rispettare come io rispetto la tua incredulità e tu non puoi deridere la mia fede…

Abbiamo bisogno di ritrovare la consapevolezza, l’importanza e la completezza della fede cristiana. Allora ritroviamo veramente le tre virtù teologali: una carità che è veramente carità se sostenuta dalla fede, una fede che sorregge la speranza, una speranza che è sostenuta dalla testimonianza della carità e non è una fuga nel futuro perché il presente ci rende difficile la vita e non siamo all’altezza del vivere.

Mentre mi preparavo ad entrare in chiesa, ricordavo le opere di misericordie che riguardano i defunti: c’è il seppellirli ma c’è anche il pregare per i vivi e per i defunti.

Noi sappiamo che il nostro vocabolario cristiano ci dice che non di solo pane vive l’uomo. Una fede amica dell’uomo è una fede che non fugge dal futuro ma non è neanche una fede che si ripiega nel presente come quello omologato dai mezzi di comunicazione o quello dell’efficientismo e della carriera… L’uomo non è queste cose, o meglio, non è solo queste cose!

Recuperiamo dunque il linguaggio della fede ma soprattutto cerchiamo di renderlo più intellegibile e allora non diremo più: “Io qui non vedo nessun dio, non c’è alcun dio quassù…”. Capiremo semmai che Dio può essere reso presente quaggiù attraverso comunità e persone consapevoli e capaci di dare testimonianza alla propria fede e alla propria preghiera.

E ricordiamo i nostri defunti perché dobbiamo loro tanto in termini di carità, di giustizia, di fede cristiana.