Omelia del Patriarca nella S. Messa solenne per la Festa del patrono S. Michele Arcangelo (Mestre - Duomo S. Lorenzo, 29 settembre 2019)
29-09-2019

S. Messa solenne per la Festa del patrono S. Michele Arcangelo

(Mestre – Duomo S. Lorenzo, 29 settembre 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Stimate autorità, cari confratelli nel sacerdozio, diaconi, consacrati, fedeli laici,

la festa del patrono san Michele Arcangelo ci raccoglie quest’anno nel Duomo di Mestre nel giorno di domenica che, da duemila anni, identifica il ritrovarsi settimanale della comunità cristiana che crede in Uno che è risorto dai morti (per rimanere al Vangelo) e attesta ogni volta che, nello scorrere del tempo, Dio rimane l’unico Signore della vita. La domenica è da riscoprire; è una giornata di ossigeno spirituale e mentale, dell’anima. E sarebbe bene che anche chi non è credente avesse una giornata alla settimana per riflettere su tutte le altre giornate.

È quanto ci ricorda sempre anche l’arcangelo Michele fin dal suo stesso nome – che significa, infatti, “Chi come Dio?” – e poi nella sua missione di aiuto e sostegno nella lotta contro il male e quindi per difendere, custodire e promuovere il vero bene dell’uomo. Riuscire a comprendere tutto questo e vivere con consapevolezza il primato di Dio – un primato di amore, di giustizia e di misericordia – è, perciò, il miglior augurio che ci possiamo rivolgere in questo giorno.

Molte volte è facile fare il controcanto al male ma guardate che esiste anche il bene. Il bene è silenzioso ma, con buona pace di chi fa il male, il bene è della maggioranza.

Un particolare saluto ed augurio va, con gratitudine, alle donne e agli uomini della Polizia di Stato che hanno san Michele Arcangelo per patrono  in una professione a contatto con le fragilità e le contraddizioni della nostra società ma anche con le scelte di chi ha deciso di delinquere.

Le letture bibliche che sono state proclamate in questa liturgia domenicale sono forti e dirette, capaci di parlare alla vita personale di ciascuno di noi ed anche a quella comunità più ampia che è la città. Se crediamo, infatti, che è Parola di Dio è Dio è eterno, allora Dio è contemporaneo a ciascuno di noi e quindi, per il credente, la Parola di Dio vuol dire anche un riflettere e un prendere contatto con se stesso e la vita di tutti i giorni.

Il profeta Amos (prima lettura) si inserisce nel solco di una tradizione di profeti che hanno saputo osservare la vita di una società e ne sono giunti quindi a denunciare le storture, le contraddizioni e i peccati, chiamando ogni cosa con il loro nome e senza aver timore di offrire una testimonianza scomoda. Basterebbe richiamare anche solo l’inizio della missione del profeta Isaia che riporta la voce di Dio e si scaglia decisamente contro sacrifici, offerte ed anche preghiere “inutili” mentre ciò che conta è solo una cosa: convertirsi, cambiare vita. Ecco le sue parole: “Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,16-17).

Nel passo di oggi il profeta Amos stigmatizza l’atteggiamo dei buontemponi che vivono la vita così come viene; sono persone pericolose, soprattutto se hanno impegni e responsabilità nei confronti di altre persone. Qui si fa riferimento, in particolare, a chi – potente e ricco – vive con insana spensieratezza e con ostentazione consuma le risorse e le energie senza preoccuparsi – senza prendersi cura – della vita dell’intero popolo; con queste basi, afferma il profeta, il futuro sarà necessariamente segnato dalla rovina e dall’esilio.

Nella seconda lettura san Paolo esorta espressamente il discepolo Timoteo a coltivare quelle virtù fondamentali e necessarie per combattere la buona battaglia della fede e cercare di raggiungere la vita eterna a cui è destinato (cfr. 1Tm 6,11-12).

Tali virtù sono innanzitutto il frutto della grazia di Dio ma, in quanto virtù, devono essere fatte proprie dall’uomo a livello di cuore e di ragione perché l’uomo non è solo cuore (pura volontà) e neanche sola intelligenza (pura ragione).

L’uomo, inoltre, è, ad un tempo, amore e ragione ma è anche la sua storia personale, familiare, sociale la sua sensibilità, la sua corporeità, insieme a tanti altri imponderabili. Con questa consapevolezza guardiamo, allora, alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Sono dimensioni e contenuti della vita – lo comprendiamo bene! – di cui la nostra vita personale e lo stesso buon andamento di una città non possono fare a meno. E ogni qualvolta tali virtù vengono a mancare – o sono soffocate – sperimentiamo tutta la pesantezza del vivere e dello stare insieme e, infine, la triste rovina di tante pretese o certezze solamente umane.

Io consiglierei la lettura della vita di sant’Agostino perché è un uomo modernissimo, dal tragitto tribolato pur avendo la vicinanza di una madre eccezionale (Monica). E poi arriva alla conversione. Sant’Agostino ci aiuta a capire che noi da soli non ce la facciamo. I nostri buoni propositi hanno, purtroppo, il fiato corto.

La conversione è di tutti: sia di chi è nato ed è stato partorito in parrocchia, in patronato, sul sagrato della chiesa ma anche di chi non ha mai avuto a che fare con questi ambienti. Dio è più grande degli uomini. Dio è misericordioso ma la vita degli uomini ha un inizio e una fine (ecco il Vangelo di oggi). Ma ritorniamo ancora a sant’Agostino; quando ripenserà ai percorsi e tragitti della sua vita dirà: “Non volevo credere”. E dovrà sanguinare la sua anima, la sua volontà, nel momento in cui deciderà di convertirsi.

Nel brano di Luca questi temi ritornano con potenza e chiarezza. L’immagine e la descrizione della vita dopo la morte (con l’inferno in cui finisce l’uomo ricco) e lo stesso dialogo finale tra questi ed Abramo ci fa comprendere qualcosa di estremamente importante: la vita eterna inizia qui, la vita eterna è già ora. E, quindi, il tempo che ci è donato in questa vita terrena è quanto di più prezioso possiamo avere. Non va sprecato, non va buttato via, non va consumato in ciò che non vale e non porta frutto.

Non si tratta di demonizzare il denaro e le ricchezze di beni; ad essere condannata è, piuttosto, la chiusura del cuore e della mente che il denaro e le ricchezze inducono – con la tentazione sempre viva dell’onnipotenza e dell’autosufficienza – e che fanno dimenticare il vero bene e, oltretutto, ci impediscono di vedere e venire incontro agli altri, soprattutto a chi più povero e messo ai margini (“scartato”) dalla società.

Il ricco, in un certo senso, è una persona “a rischio” perché non manca di nulla, non chiede nulla a nessuno, è spesso autoreferenziale e autosufficiente; per il ricco tutto ha un prezzo. Il povero, invece, è abituato a dipendere e, certe volte, nonostante la sua buona volontà. Ma non esiste l’affermazione “ricco=cattivo” e “povero=-buono”; sarebbe una semplificazione ingiusta… Quanti poveri sono attaccati a quel poco che hanno e quanti ricchi, magari in silenzio, sostengono e aiutano…

Il problema è un altro, come ci direbbe ancora sant’Agostino: è il nostro cuore. Il nostro cuore fa la differenza anche nella città. Ecco perché nel Nuovo Testamento si chiede di pregare per chi ha responsabilità pubbliche, perché è importante essere governati da persone buone. Non buoniste, ma buone. E la bonta si declina sempre ed anche con l’intelligenza. Dobbiamo cercare di essere persone che tengono insieme cuore e testa perché siamo uomini, siamo persone responsabili.

A salvare il cristiano ma anche, potremo dire, a salvare una comunità non è mai il benessere economico, il prestigio, il denaro, l’esercizio del potere. La strada giusta consiste, invece, nel saper trattare le realtà penultime e quotidiane – le realtà che affrontiamo ogni giorno – non come un punto di arrivo o come il “tutto” ma come il segno di qualcosa che viene dopo.

La vera vigilanza cristiana come anche la vera virtù cristiana della speranza consistono nel possedere il senso di Dio, nello stare alla sua presenza, nel sapere che il tempo è il modo secondo cui noi oggi viviamo il nostro essere in attesa dell’eternità che è il possesso pieno della nostra esistenza tutta concentrata in un solo istante senza un futuro che lo può arricchire e un passato che lo può depauperare.

Se è vero che, uscendo da questo mondo, non portiamo dietro nulla è vero anche il contrario: noi usciamo da questo mondo portando con noi non il grado, l’ufficio o l’incarico che abbiamo raggiunto ma il modo con cui l’abbiamo esercitato il nostro ufficio, di papà e mamma, di cittadini, di preti, di vescovi, di amministratori, di politici… Ci portiamo tutto quello che abbiamo fatto o non fatto. Se per un verso lasciamo tutto, per un altro portiamo con noi tutta la storia, tutte le nostre scelte. Noi ora stiamo costruendo l’eternità perché la vita eterna è già qui, inizia già ora.

Ce lo ripete tante volte san Paolo quando ci parla della nostra vita “in Cristo”“Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,26-27) -, una vita nella quale siamo stati inseriti appunto a partire dal sacramento del battesimo che abbiamo ricevuto e nella quale siamo immersi. E che siamo chiamati a far fiorire con una vita buona, bella, vera: in famiglia, nella nostra rete di amicizia e di contatti, sul lavoro, nel contesto sociale e cittadino, nella comunità ecclesiale.

Certo, non è sempre facile cogliere e sperimentare questa realtà che già ci appartiene ma, come ricorda anche san Giovanni nella sua prima lettera, “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).

I mali sociali denunciati dal profeta Amos, le virtù personali e comunitarie che san Paolo ha raccomandato a Timoteo e le parole di Gesù nel Vangelo ci interpellano sul tempo che ci è stato donato e sui beni che abbiamo ricevuto. Tutto passa, infatti, ma solo la carità rimane e il modo in cui abbiamo fatto le cose.

È da riscoprire la vitalità e la necessità di assumere e tradurre – nella concretezza della vita quotidiana delle persone, delle famiglie, delle comunità, di una città intera – tutte le opere di misericordia. Tutte, sia le corporali sia le spirituali, per essere comunità ecclesiali e civili in grado di “abitare”, con verità e amore e le periferie economiche e quelle morali per riaccendere una luce e una speranza.

Riscopriamo i doni di grazia che segnano la nostra vita, ad iniziare dal battesimo – è il senso del cammino dell’anno pastorale appena iniziato – affinché “non sia motivo di vanto ma piuttosto un’occasione per interrogarsi se, come comunità cristiana, si è un santuario di Dio aperto sul mondo e sulle sue domande o se, piuttosto, si è diventati un popolo ecclesialmente autoreferenziale e incredulo. Le nostre comunità sono piccoli ma vivi santuari in cui abita la Parola di Dio con la sua gioiosa radicalità oppure, un po’ come i due discepoli di Emmaus, siamo comunità sfiduciate che hanno smarrito il gusto del Vangelo e della fede e di conseguenza della cultura che la fede genera?” (dalla prefazione al sussidio per l’anno pastorale 2019/2020 “Dall’acqua e dallo Spirito”).

Il patrono san Michele Arcangelo ci aiuti a vivere bene il tempo che ci è dato, ad usare bene le risorse che ci sono messe a disposizione, ad esercitare con responsabilità gli uffici e i compiti (da quelli professionali all’impegno nella vita sociale, politica, economica ecc.) che ci sono affidati. E ci spinga, soprattutto, a rimettere Dio e la vita in Lui – quella vita eterna che ci è già data – al centro del nostro orizzonte.

Buona festa di san Michele a tutti!