Omelia del Patriarca nella S. Messa solenne della Festa della Madonna della Salute (Venezia, 21 novembre 2020)
21-11-2020

Festa della Madonna della Salute

(Venezia, 21 novembre 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

Stimate autorità e carissimi fedeli,

l’odierna Festa della Madonna della Salute ci riporta alla situazione vissuta dai nostri padri che, quasi quattro secoli or sono, a cominciare dal Doge e dal Senato della Repubblica Serenissima, decisero di rivolgersi alla Madre del Redentore – alla quale, in una circostanza simile all’attuale, già si erano rivolti – perché venisse in loro soccorso di fronte al terribile contagio (allora era la peste) che sterminava la popolazione di Venezia e di tante altre regioni.

In questo 2020 è la pandemia da Covid-19 ad aver travolto le nostre vite – a livello personale, familiare, economico, sociale, ecc. – e la stessa celebrazione di questa Festa ne è condizionata al punto da viverla con profonda fede interiore ma accompagnata dalla dovuta prudenza esteriore, nel saggio rispetto delle norme a tutela della sicurezza e della salute di tutti.

L’attuale situazione ci aiuta a ricomprendere l’origine di questa festa così tipicamente veneziana e, riprendendo le motivazioni iniziali, ci richiama all’essenziale, ossia ci fa andare al cuore della celebrazione che è: ritornare a Dio – attraverso la materna intercessione di Maria – al fine di chiedere per noi, per i nostri cari e per ogni uomo, salvezza/salute e pace.

È un’invocazione che rivolgiamo con fiducia e speranza, accogliendo l’invito della Madre a guardare di nuovo a Gesù Suo Figlio – l’unico Signore e Salvatore – e ad ascoltare finalmente quanto ci dirà, come avvenne nell’episodio evangelico delle nozze di Cana appena proclamato dal diacono (cfr. Gv 2,1-12). Allora, per usare le parole del Vangelo, ci sarà dato il “vino buono” della festa ritrovata, della gioia autentica, della rinascita e della vera ripresa che tutti auspichiamo e attendiamo; una ripresa non solo economica ma anche antropologica, ricordando il discorso di Papa Francesco, rivolto alla Chiesa italiana riunita alcuni anni fa a Firenze ed incentrato sull’umanesimo cristiano, ossia evangelico.

Rivolgo uno speciale saluto a quanti, non potendo essere fisicamente presenti, ci stanno seguendo attraverso i mezzi di comunicazione sociale – l’emittente televisiva Antenna 3 Nordest e la pagina Facebook del settimanale diocesano Gente Veneta – che ringrazio per il loro sempre accurato servizio.

La nostra richiesta di salute e salvezza – che, oggi, nella preghiera, poniamo in modo particolare nelle mani della Vergine – è per tutti i malati (di Covid-19 e non solo), per gli anziani, per chi è negli ospedali, nelle case di cura, nelle carceri, per quanti sono pesantemente segnati dalle conseguenze della pandemia come anche per i medici, gli operatori sanitari e quanti – in questo tempo di sofferenza – hanno responsabilità pubbliche di governo, di amministrazione e di decisione sul bene comune che oggi vuol dire certamente e prima di tutto la salute ma anche la possibilità di lavorare.

E pensando proprio alla difficile situazione economica, lavorativa e occupazionale della nostra città (che non è solo la città storica) e di tutto il Nordest, ho voluto dare un segno raggiungendo la Basilica in gondola perché vedo nei gondolieri non solo uno dei simboli di Venezia ma anche le attuali grandi fatiche dei lavoratori e delle loro famiglie.

Concretamente penso ai lavoratori dipendenti ed autonomi, agli esercenti, ai ristoratori, agli artigiani, alle piccole e medie imprese, da sempre tessuto connettivo del nostro territorio, senza tralasciare i liberi professionisti e il mondo variegato delle partite Iva.

La prima lettura tratta dal profeta Isaia (cfr. Is 63,7-9) ci ricorda che fare esperienza del Dio Salvatore (soprattutto nel tempo della tribolazione), avvertire il Suo amore, la Sua compassione e i benefici che da Lui provengono, genera in noi una vita nuova in grado di riscattare e sollevare il popolo e le persone che soffrono.

Nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti” – uscita poche settimane fa e dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale – Papa Francesco dedica un capitolo intero (il terzo) alla necessità e all’opportunità, che oggi ci sono date, di “pensare e generare un mondo aperto”.

“Pensare…”: sì, il pensiero ha in sé una forza generativa e, dunque, “pensare” è sempre anche “generare”, Dio voglia sempre per il bene e mai per il male. Un mondo nuovo e aperto non è il risultato del caso ma di un “buon” pensiero. E non è, certamente, un cammino facile e scontato, anche perché ostacolato da tanti, troppi, “megafoni” del pensiero unico dominante e del “politicamente” corretto.

Molti stanno già “costruendo” le tendenze culturali dei prossimi anni. Si tratta – come è facile comprendere – di una questione fondamentale perché significa disegnare quale uomo, quali diritti, quali doveri, quale economia, quale società e, quindi, decidere del “destino” nostro e di tanti nostri fratelli. Guai, poi, se si cedesse ad una sterile elaborazione intellettuale. Mettere a fuoco, in un modo o in un altro, tale problematica – un mondo aperto o chiuso, includente od escludente – tocca, ovviamente, anche assetti istituzionali ed equilibri geopolitici con tutte le conseguenze economiche, sociali e politiche che ne derivano.

In questo contesto diventa fondamentale, per la comunità cristiana, ripensare nell’oggi l’essenziale (Gesù Cristo), rendendo più efficace la sua azione evangelizzatrice che rimane la più grande carità che la Chiesa può offrire al mondo e non potrà dispiegarsi adeguatamente se non sarà in grado di intercettare le culture che plasmano la nostra società, come pure gli stili di vita che si stanno imponendo a livello planetario in un mondo sempre più globalizzato.

Invito a prendere in mano il testo dell’enciclica “Fratelli tutti” perché offre elementi sufficienti per rispondere alla nostra riflessione e in modo da riconoscere e ricostruire, da prospettive complementari, il pensiero che il mondo oggi elabora. È un pensiero che risente e, in parte, coincide con la mentalità individualista che considera la persona in maniera del tutto riduttiva – la persona ridotta a “individuo” – disarticolandola, fatalmente, dal popolo a cui appartiene (cfr. FT n. 182). Sul piano relazionale tale mentalità incoraggia un modello funzionalista e privatista (cfr. FT nn. 187-189) che, nei rapporti umani, si traduce inevitabilmente nell’indifferentismo e in una progressiva insensibilità per le sofferenze di chi non entra nel proprio orizzonte di pensiero.

L’individualismo consumista (cfr. FT n. 222) si sposa col “paradigma efficientista della tecnocrazia” (cfr. FT n. 177), generalmente insensibile alle istanze del bene comune perché concentrato sull’utilità immediata o sui vantaggi a breve termine che, sovente, “spostano” in avanti costi sociali e ambientali ben superiori ai ricavi.

Non è difficile rintracciare in questo modello culturale l’approdo terminale di quella curvatura individualistica e liberista che contrassegna buona parte della modernità occidentale. Dobbiamo chiederci allora: questa è una traiettoria obbligata e ineluttabile, di cui si può al massimo tentare di correggere gli esiti nefasti, oppure si danno alternative possibili?

E ci poniamo anche un’altra domanda: a chi compete pensare un mondo aperto? Si tratta, cioè, di riflettere su un mondo che non sia generato e contraddistinto da quella mentalità dominante e pervasiva che vuole accreditarsi come l’unica possibile e che aspira a radicarsi non solo nei grandi centri di interesse ma anche nella rappresentazione mentale e nelle aspirazioni della gente comune.

“Fratelli tutti” propone coraggiosamente un pensiero alternativo, mettendo in conto il rischio d’essere tacciati di ingenuità o fantasia (cfr. FT nn. 127,190,261), giacché non si tratta di operare qualche piccola correzione ma di assumere una logica differente, che risponde ad un altro paradigma mentale, fondato sulla inalienabile dignità di ogni uomo e sulla comune e filiale dipendenza di tutti, fratelli tra noi e figli del medesimo Padre.

Tutto questo è stato ben evidenziato anche dalla seconda lettura di oggi (Rm 8,28-30): Cristo non è solo il Figlio unigenito di Dio, ma è il “primogenito tra molti fratelli”.

La Chiesa possiede le risorse spirituali e culturali necessarie per immettere nella società del presente e del futuro un pensiero in grado di modificarne il suo corso inerziale. D’altronde, da chi il mondo dovrebbe attendersi una parola ”nuova” se non anzitutto da chi è chiamato ad essere custode della Parola di Dio, del Vangelo che è per i piccoli e i poveri? A chi compete curare l’anima dell’umanità che giace malata se non, anzitutto, a coloro a cui Dio ha affidato la sua Parola di salvezza, assicurandovi l’efficacia indefettibile della Sua custodia?

Non si tratta di sottoporci a complicati sforzi intellettuali, anche se l’elaborazione del pensiero esige tempo, pazienza e tenacia che fanno dubitare delle facili scorciatoie a buon mercato o delle verità ridotte a slogan. Non si tratta nemmeno d’inculcare uno stile d’azione alternativo, di tipo “precettistico” e che, comunque, avrebbe il fiato corto.

Il compito che spetta alla Chiesa nella costruzione di un mondo almeno in parte alternativo all’attuale – un mondo “aperto” – è più vasto e impegnativo. Più vasto, anzitutto, perché la medesima virtù teologale della carità ha numerose traduzioni nella vita, come ben esprime “Fratelli tutti” (cfr. FT nn. 164-165.180-181.186); alcune sono affidate ai singoli nella vicinanza delle relazioni interpersonali, altre invece ad una pluralità di soggetti nell’impegno di una politica che, per il cristiano, è forma alta di carità.

L’una e l’altra necessitano di un particolare sguardo sulla realtà, sempre da “costruire” con pazienza e tenacia, “uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità” (cfr. FT n. 187). L’educazione a questo sguardo è compito esigente e inderogabile a cui la Chiesa non può sottrarsi senza colpa; è questo il contributo che ogni battezzato deve offrire perché la convivenza umana sia riedificata sul disegno buono di Dio.

Nel tempo la Chiesa si è impegnata a trasmettere questa sua visione ad ogni generazione che veniva al mondo, perché tutte le conquiste “culturali” e “morali” vanno sempre riguadagnate in una continua opera di educazione.

Lo sguardo che consente di spendersi in modo generoso per il bene comune non è esito del caso. È il frutto di una responsabilità che sta alla base di opere e scelte e dialoga con ogni realtà presente sul territorio allo scopo di elaborare una cultura laica ma che proceda dal Vangelo. Solo così la fraternità e l’amicizia sociale troveranno sicuro fondamento e potranno “ispirare” il consenso degli uomini e delle donne di buona volontà.

Eppure non basta la denuncia dell’individualismo, del consumismo e del materialismo in opposizione allo sguardo di Cristo sul mondo, perché esiste una sorta di “anestesia” che potrebbe impadronirsi anche di credenti che non pongono realmente la Parola di Dio al centro del loro modo di pensare ma si adagiano sul pensiero unico dominante.

Non a caso Papa Francesco parla sovente di una Chiesa mondana o mondanizzata: “La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale… Si tratta di un modo sottile di cercare «i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21)… Dal momento che è legata alla ricerca dell’apparenza, non sempre si accompagna con peccati pubblici e all’esterno tutto appare corretto. Ma se invadesse la Chiesa, «sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale»” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium n. 93).

E anche più di recente, in un’omelia a Santa Marta, ha ribadito: “La mondanità è una cultura; è una cultura dell’effimero, una cultura dell’apparire… Ha dei valori superficiali. Una cultura che non conosce fedeltà, perché cambia secondo le circostanze, negozia tutto… È una cultura dell’usa e getta, secondo quello che convenga” (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 16 maggio 2020).

Si ha così l’apparenza della solidarietà evangelica ma, in realtà, si tratta di “orizzontalismi” e “ideologie” senza una vera speranza trascendente e, per questo, alla fine opprimenti. Uno sguardo sull’uomo che non abbia di mira la salvezza integrale e ultima non è ancora uno sguardo animato dalla carità di Cristo.

La Chiesa anche oggi, guardando alla originalità e forza del Vangelo, vorrà ancora offrire – in umiltà e semplicità – le risorse spirituali necessarie e, proprio sull’esempio di Francesco d’Assisi come ricorda il Papa nell’ultima enciclica, testimonierà le scelte culturali e caritative oggi così preziose per educare ad una vera fraternità gli uomini e le donne e, in particolare, i bambini, i ragazzi, i giovani. Ci dona poi speranza constatare che, sopra tutti, c’è già dato un Nome, il vero fratello di tutti gli uomini e soprattutto dei dimenticati, scartati e reietti: Gesù Cristo, il Risorto, il nostro Santissimo Redentore!

Siamo grati al Santo Padre Francesco, non solo per averci consegnato l’enciclica “Fratelli tutti” ma anche per il dono speciale che, in questi giorni, ha fatto alla nostra Chiesa che è in Venezia estendendo – secondo le consuete condizioni, ma nei diversi modi consentiti dalle circostanze attuali – la possibilità di ottenere l’indulgenza plenaria a quanti, in particolare, partecipano attraverso i mezzi di comunicazione a questo Pontificale e a tutti i fedeli che visiteranno chiese parrocchiali o rettoriali, santuari o cappelle nel territorio del Patriarcato fino a domani (22 novembre). L’indulgenza è stata estesa anche a chi – anziano o ammalato – non potrà uscire di casa per gravi motivi (e a chi li assiste) ma si unirà spiritualmente nella preghiera del Santo Rosario.

La Madonna della Salute, nostra fortissima Capitana da mar, ci ispiri e ci guidi in quest’opera culturale, educativa e antropologica di “pensare e generare un mondo aperto” e rinnovato, orientato al bene di tutti, senza escludere o dimenticare nessuno. Ci assista e ci protegga anche oggi – nelle nostre fatiche e difficoltà attuali -, susciti e rafforzi soprattutto la fede, la carità e la speranza.

A Lei poi affidiamo in modo particolare coloro che sono contagiati, i loro familiari, i medici, gli operatori sanitari, i volontari, chi decide del bene comune. A Lei affidiamo anche quanti in questi mesi hanno, dolorosamente e spesso in solitudine, concluso il loro cammino terreno.

A tutti auguro una serena, responsabile ed autentica Festa della Madonna della Salute!