Omelia del Patriarca nella S. Messa per la solennità del patrono San Marco Evangelista (Venezia, Basilica Patriarcale di San Marco - 25 aprile 2020)
25-04-2020

S. Messa nella solennità del patrono San Marco Evangelista

(Venezia, Basilica Patriarcale di San Marco – 25 aprile 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

                  

Carissimi,

dalla basilica cattedrale dedicata all’evangelista Marco celebro per voi e con voi in questa modalità “virtuale” e col desiderio grande di poter presto tornare a celebrare insieme; è l’auspicio, questo, di tutta la Chiesa italiana. È sempre tramite Antenna 3, Rete Veneta e Gente Veneta Facebook che è possibile questo nostro collegamento.

Rivolgo un saluto a tutti: famiglie, anziani, bambini, giovani, sacerdoti, canonici della basilica, diaconi, persone consacrate, malati. Un grazie particolare va ai medici e agli operatori sanitari; fra loro troppi stanno pagando con la vita. Esprimo una preghiera accorata per tutti i deceduti, per i loro familiari e amici.

Saluto, infine, le autorità civili e militari in questa giornata del 25 aprile così significativa per la Repubblica Italiana e per gli italiani. Un ricordo – durante la S. Messa – va a tutti i caduti, non dimenticando il sacrificio di tanti sacerdoti.

Alla nostra amata Italia l’augurio di una rinascita oggi come quella di cui i nostri padri furono protagonisti, pagando anche col sangue, per far risorgere una comunità finalmente libera dopo la tragedia immane della guerra. Oggi, come allora, l’impegno di tutti permetta di superare la grave emergenza sanitaria ed economica che, in modo drammatico, ne consegue e si delinea. L’Italia non sia lasciata sola e possa riscontrare che l’Europa non è un nome ma una vera comunità di Stati.

L’evangelista Marco ci può aiutare in questo tempo difficile di pandemia nel quale ci sono richiesti coraggio, pazienza e nervi saldi, sia sul piano delle scelte umane sia su quelle cristiane, in una sorta di conversione. E proprio alla conversione si riferiscono le prime parole di Gesù nel Vangelo di Marco: «Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15).

In questo periodo siamo chiamati a camminare insieme – ecco la conversione civile! – e a ricostruire ciò che, solo lentamente, prenderà forma nella vita di ciascuno di noi e nella convivenza sociale. Gli uomini non sono isole e, se qualcuno aveva tale convinzione, Covid-19 in poche settimane ha dimostrato che gli uomini sono una famiglia (una volta si usava l’espressione “famiglia umana”). Covid-19 ci ha ricordato che il vivere per l’uomo è sempre un “convivere”; la pandemia non ha fatto distinzioni tra Stati e Stati, in base all’appartenenza o meno al G7 piuttosto che al G20.

Innanzitutto, per le scelte umane, ci viene richiesto un forte senso di responsabilità personale; il bene comune, prima che alle pubbliche istituzioni, è affidato ai cittadini.

Per le scelte cristiane, invece, si apre il cammino arduo della fede/ fiducia in un Dio che conduce oltre i pensieri e gli schemi degli uomini; è un cammino non semplice, e non scontato, che manifesta la “consistenza” dei discepoli.

Marco è l’interprete della predicazione di Pietro e ci svela il volto di Dio come il volto di Colui che conduce per strade inesplorate. Nel suo Vangelo Marco ci presenta il Centurione, ai piedi della croce: è l’esempio di questo cammino e, come lui, anche Pietro, gli altri apostoli, le folle.

Tutti sono invitati e chiamati a questa conversione e cioè a scoprire il vero volto di Dio nella vicenda umile e dolorosa di Gesù. Il Centurione era un pagano e quindi aveva un’idea ben precisa di Dio; lo immaginava dispotico, arbitrario e capriccioso ma quando vede Gesù morire in quel modo esclama: «Davvero quest’uomo era figlio di Dio!» (Mc 15,39).

A noi, oggi, è richiesto di percorrere tale cammino che l’evangelista Marco indica, nel suo Vangelo, ad ogni discepolo e comunità.

Sì, una cosa è certa: Covid-19 ci lascerà differenti da come ci ha trovati, sia nei comportamenti personali sia in quelli pubblici.

Mi hanno molto colpito le parole del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, insignito lo scorso ottobre del Nobel per la Pace. Intervistato dal Financial Times ha affermato che «le economie africane stanno fissando un abisso» ed ha invitato il G20 a fornire supporto, in particolare ai sistemi sanitari, perché «milioni di vite sono a rischio» (cfr. Rainews, 9 aprile 2020).

È suonato, quindi, un campanello d’allarme a livello mondiale, come quando a Venezia risuona la triplice tonalità della sirena che annuncia un’onda d’acqua particolarmente alta.

Covid-19 ci ha trovati impreparati, ha limitato e costretto non gli abitanti di un’area circoscritta, ma dell’intero pianeta: tutti i continenti, seppur in modalità differenziate, devono misurarsi con la pandemia. La salute, fino ad un recente passato, era considerata, dai più, bene individuale (della persona); ora, dopo Covid-19, nessuno non può non vederne la rilevanza sociale.

Tutta la visione della persona va, perciò, ripensata in rapporto al bene comune. Il seguente passo dell’enciclica Laudato si’ – che cita il Catechismo – è chiarificatore: «…nessuna creatura basta a se stessa, … [le creature] esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre» (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 86).

Noi non conosciamo a sufficienza i futuri scenari ma una cosa è certa: non sarà sufficiente cambiare esteriormente alcuni stili di vita, attenendosi solo ai nuovi protocolli sanitari richiesti. Se Covid-19 ci ha colti impreparati non significa che tutto è successo all’improvviso e proprio per questo è necessario un ripensamento a 360° del bene comune in tutte le sue forme.

Covid-19 ha fatto saltare in pochi giorni tutte le nostre sicurezze, un modello di convivenza sociale che consideravamo “evoluto”, “sicuro”, “affidabile” e in grado di garantirci – come si dice, dalla culla alla tomba… – è andato in tilt. Siamo diventati consapevoli che tutti siamo a rischio e che un’altra edizione di Covid-19 (Dio non voglia!) potrebbe ripresentarsi.

Dopo Covid-19 saremo capaci di abitare in modo diverso la nostra casa comune? Tutto si gioca a livello di scelte valoriali; è quindi una sfida culturale che avrà molteplici ricadute sull’assetto concreto del vivere. L’uomo sarà finalmente posto al centro dello scacchiere? Sarà considerato nella sua unicità irripetibile come essere in relazione, parte di una comunità? Ritorna qui il tema della persona e del bene comune.

Quale visione del bene comune? L’uomo è considerato solo come individuo o anche come persona? L’uomo è visto come fine o come un mezzo? E ancora: i diritti delle persone sono diritti e i desideri sono desideri. Non corriamo forse il rischio di confondere le due cose?

Sì, l’uomo va pensato sempre più come relazione, non intendendo il termine “relazione” solo sul piano filosofico ma anche culturale, sociale, economico, finanziario, mediatico. Siamo nell’era della globalizzazione in cui s’interagisce sempre, anche se manca la consapevolezza.

La globalizzazione, in sé, non è né buona né cattiva e riguarda non solo la comunicazione, la cultura, la finanza e l’economia ma anche – come oggi i fatti ci hanno detto in modo drammatico – la salute.

Covid-19 si propaga in tempo reale, viaggia sugli aerei, sulle metropolitane, sulle navi da crociera e sulle navi della marina militare; per il passato, invece, una pandemia non doveva fare i conti con la velocità e la facilità degli odierni spostamenti da un continente all’altro.

La sfida per un futuro inclusivo parte così da nuovi modi di intendere e investire sulla persona e sul bene comune che – attraverso i principi e i criteri di giudizio, le direttive operative della dottrina sociale cristiana, nel rispetto di una sana laicità – si traducano appunto nel prendersi cura degli altri e del bene comune.

Certo, in passato, le dichiarazioni d’intenti sull’uomo come fine e non come mezzo non sono mancate, ma gli ultimi secoli – nei quali la Chiesa avrebbe accumulato un “ritardo” nei confronti del mondo – delineano una storia di sfruttamenti, ingiustizie e guerrre più atroci che in passato.

Con uno spirito costruttivamente critico dobbiamo far tesoro di tutto ciò e pensare in maniera concreta la persona nel tempo della globalizzazione, ossia una modalità di convivenza che, alla luce di valori antropologici fondanti, diversi da quelli visti troppo a lungo, tenga realisticamente conto dei limiti dell’uomo, incominciando dal limite dei limiti (la morte).

È necessario ripensare in modo più correlato ed evangelico il binomio persona/bene comune, perché persona e bene comune insieme stanno o insieme cadono.

L’Occidente è sempre più plasmato dalla tecnoscienza, considerata in maniera acritica per i successi a cui perviene in ordine all’efficienza e alla crescita della ricchezza, peraltro non equamente distribuita. Così si sono messi in secondo piano indicatori più “umani”: la persona, la famiglia, il bene comune, la destinazione universale dei beni, la solidarietà, la sussidiarietà, la salute pubblica ed individuale. E, oggi, se ne raccolgono i risultati.

In un pianeta “sfruttato” viene negato il rispetto dell’ambiente; nel “creato”, che ci ricorda e conduce al Creatore, si pone in antagonismo – se non in teoria almeno nei fatti – il diritto al lavoro e quello alla salute.

Tali visioni – che sottendono similari progetti culturali e politici – hanno privilegiato, o non sufficientemente contrastato, scelte economiche che hanno diviso il mondo fra ricchi e poveri. La differenza tra persone abbienti e meno, alla fine, è accettabile; inaccettabile, invece, è che vi sia un mondo diviso fra i ricchi e i poveri, fra chi ha patrimoni immensi e chi muore di fame.

Come dice Papa Francesco, si è creata un’umanità di scarto e si sono creati degli invisibili che si finge di non vedere ma che si materializzano quando assumono la forma dei popoli della fame, del migrante o del “barbone”.

Le migrazioni sono destinate a crescere fino a quando le persone non troveranno condizioni di vita confortevoli nei loro Paesi d’origine. Questa è l’unica cosa su cui vi è pieno accordo e, allora, perché non far crescere questi Paesi, dopo il loro mai interrotto sfruttamento da parte dell’Occidente? È, prima di tutto, una questione di giustizia e poi anche di realismo politico.

Le modalità con cui, finora, si sono prese le decisioni da parte della politica non pongono al centro né la persona né i popoli ma altri interessi, anche se la retorica su tali temi non manca. Vi sono infatti élite che hanno la forza d’orientare la finanza, l’economia, l’informazione e la politica attraverso uomini e donne da loro creati.

E così talvolta, nella politica, possiamo trovare persone di poca esperienza e competenza, soggetti fragili e manovrabili; altro grave rischio è poi l’antipolitica, con la deriva populista. La politica, invece, è questione delicata e seria e, per il cristiano è, addirittura, atto di alta carità. La debolezza della politica è, inoltre, per i cittadini un formidabile argomento che li convince della inutilità del loro voto.

Certamente, per la seconda fase e per le ulteriori fasi post Covid-19, dovremo osservare con rigore le distanze negli spazi pubblici, indossare mascherine e guanti, non darci la mano ecc. Ma guai se ci fermassimo qui! Sono ben altre le sfide che ci attendono.

L’Occidente è giunto all’inverno demografico ed è estenuato dalle sue stesse scelte individualistiche, relativistiche e consumistiche; oggi la persona non si misura sul bene comune ma, piuttosto, il bene comune sui desideri e le aspettative delle persone.

In questi giorni, secondo l’ultimo rapporto Oxfam, l’1% della popolazione mondiale possiede l’82% delle ricchezze totali del pianeta. Questo dato, da solo, per la sua eloquenza dice a che punto siamo giunti. Ritengo, quindi, inutile aggiungere altri dati che ridurrebbero la portata di questo.

Abbiamo prodotto molto in termini di benessere e siamo caduti nel consumismo. Scienza e tecnica hanno dato molto all’uomo, in termini di conquiste e realizzazioni, e ne siamo grati ma non hanno saputo dargli ciò che era necessario, ossia un’anima, una saggezza, un’etica in grado di governare l’enorme potenziale della tecnoscienza.

Il fatto è che le conquiste devono riguardare l’intero orizzonte antropologico, in ogni sua dimensione, e non solo la ricerca genetica o gli studi economici. Bisogna ricomprendere anche l’etica, la filosofia e la teologia. Un uomo che non sa mettere in questione e ripensare il sistema che ha costruito e in cui vive con gli altri è destinato ad esserne divorato.

Ritorniamo, allora, alle parole di Gesù con cui Marco inizia il suo Vangelo;esse sono un richiamo alla conversione: «Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). La conversione evangelica non può essere unilaterale ma riguarda l’insieme e porta in sé una visione sulla realtà intera rifrangendo, nella vita quotidiana, le sue scelte. In altri termini è conversione del cuore, dell’intelligenza, della memoria, dei sentimenti e degli stili di vita affinché la fede sia amica dell’uomo, di tutto l’uomo. Come dice san Paolo nella lettera ai Romani: «…tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28).

Siamo invitati a camminare insieme e a ricostruire un sistema che, soltanto lentamente e con fatica, prenderà forma nella vita di ciascuno di noi e nella convivenza sociale. Siamo chiamati ad impegnarci non in una sfida individuale, ma a lavorare per gli altri e con gli altri. Come cristiani guardiamo un po’ più “lassù” per vivere meglio “quaggiù”!

San Marco, protettore delle genti venete, nostro patrono e a cui è intitolata questa magnifica basilica oggi deserta ma alla presenza spirituale di tutti voi che ci state seguendo da casa, ci aiuti a fare qualcosa perché il nostro tempo porti il segno di chi ha voluto ricostruire.

San Marco evangelista, prega per noi!