Omelia del Patriarca nella S. Messa per il quarto anniversario della morte del Cardinale Marco Cè Patriarca emerito di Venezia (Venezia - Basilica cattedrale di S. Marco, 12 maggio 2018)
12-05-2018

S. Messa nel quarto anniversario della morte

del Cardinale Marco Cè Patriarca emerito di Venezia

(Venezia – Basilica cattedrale di S. Marco, 12 maggio 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Carissimi presbiteri, diaconi, consacrati, consacrate, fedeli laici,

rivolgo un saluto affettuoso a don Valerio, segretario fedele ma soprattutto amico sincero del Patriarca Marco, che oggi è qui a pregare con noi.

Con lui mi rivolgo a coloro che hanno amato il Patriarca Marco e che sono stati toccati dalla sua paternità, dal suo animo signorile nel Signore e dal suo stile fraterno.

Sono contento che il quarto anniversario del suo ingresso nella casa comune del Padre celeste cada proprio nel giorno – liturgicamente siamo già entrati nella festa di domani – della solennità dell’Ascensione. Con il Cardinale viviamo il mistero della Chiesa, che è sempre “già” (nel Cristo risorto) e “non ancora” (per noi pellegrini).

Se il Cardinale potesse oggi rivolgersi a noi – da uomo amante della Parola di Dio (che ascoltava, meditava e annunciava con la semplicità dell’apostolo) e della liturgia – prenderebbe spunto dai testi della odierna celebrazione e ci richiamerebbe al nostro ultimo destino, il Paradiso, con il suo sguardo paterno e di bontà.

Nella solennità dell’Ascensione, oggi tutta la Chiesa – e, con lei, ciascuno di noi – è invitata, pur rimanendo a tutti gli effetti cittadini di questo mondo, a sollevare lo sguardo al cielo e a guardare il fine ultimo verso  siamo incamminati per vivere meglio il tempo presente che il Signore, nella sua misericordia, ci chiede sia plasmato dalla nostra fede, speranza e carità. Quel tempo che, se vissuto nella fede e nella carità, si apre ad una speranza reale e concreta perché la fede è il fondamento delle cose che si sperano e l’amore è la pienezza della fede.

Il Cardinale inoltre, proprio a partire dall’annuncio pasquale, ci avrebbe ripetuto: “Non abbiate paura!” (cfr. Mc 16,6).

Con questa annuale celebrazione di suffragio per l’amato Patriarca Marco, desideriamo dire a lui il nostro grazie per il suo servizio episcopale alla Chiesa che è in Venezia di cui fu vescovo per ventitré anni – un periodo lungo e difficile – e poi, umilmente, rimase, in essa, con una presenza discreta e orante, fino a quando il Signore lo chiamò a sé facendogli il cenno ultimo, esattamente quattro anni fa; era il 12 maggio 2014, circa a quest’ora.

Un clima sociale difficilissimo segnò l’inizio del suo episcopato; succedeva al Patriarca Albino Luciani, Papa per soli trentatré giorni. Per la Chiesa erano anni di forti passioni ed entusiasmi e – come spesso avviene dopo un’assise conciliare – di forti tensioni; anni destinati, comunque, a segnare il futuro.

Il titolo di Patriarca – come ebbe modo di dirmi, al momento del mio primo incontro con lui – era per lui un nome oltremodo caro perché ne aveva ben presente il significato che aveva sempre cercato di vivere e tradurre nel suo servizio ecclesiale. E quel nome di Patriarca – origine della paternità – gli fu sempre presente, particolarmente nei momenti difficili (ecclesiali e sociali) della vita di un vescovo, quando è chiamato a scelte non semplici, talvolta impopolari, in genere non capite da molti ma non per questo meno necessarie.

Sempre durante il primo incontro che ebbi con lui, volle sottolineare – lo ricordo bene – come questo nome “patriarca” ricordi che si è chiamati a essere padri per la gente a cui si è mandati; anzi, sottolineava come indicasse l’origine della paternità di un territorio ecclesiastico più ampio di una diocesi. Patriarca è, infatti, termine ecclesiastico antichissimo che amava più di ogni altro titolo che si potesse dare ad un vescovo, ad un amico.

Un titolo che dice l’inizio di qualcosa che manca nella nostra società; ci lamentiamo a volte, sbagliando, dei giovani perché non sono figli e ci dimentichiamo che, se non hanno fatto esperienza di genitorialità (paternità e maternità) non potranno mai riscoprire e vivere la fraternità e la figliolanza. La pietà è il senso della paternità di Dio nella vita di un uomo, di una comunità di una società. Il Cardinale Marco si impegnò sempre per incarnare ed esprimere al meglio tale paternità.

Le parole pronunciate dal Cardinale, all’inizio del suo servizio episcopale in questa Chiesa, dicono la sua anima di pastore: “Sono venuto a Venezia per adorare Cristo, e deporre davanti a Lui l’oro, l’incenso e la mirra della mia umile esistenza, per la Sua sposa che è questa Santa Chiesa e per gli uomini di questa terra… Io infatti in mezzo a voi altro non vorrei essere che epifania di Cristo, il battistrada che dice: dopo di me c’è uno più grande di me” (Marco Cè: vescovo, padre e fratello, Edizioni CID 2002, p. 5). Il suo annuncio alla Chiesa di Venezia fu così teologico, cristologico e, quindi, anche vera attenzione all’uomo.

Così, dopo l’iniziale e comprensibile timore, il Patriarca Marco a Venezia si sentì subito a casa propria e la sua fiducia si mutò presto nella gioia di chi si sentiva accolto e amato. La seguente testimonianza, – da lui rilasciata a sedici anni di distanza dall’ingresso – è eloquente: “Ho trovato innanzitutto l’accoglienza. Mi sono sentito accolto, ho trovato molta franchezza e molta sincerità”.

L’episcopato di Marco Cè si è caratterizzato per lo stile sacerdotale, per il modo sincero e amabile d’esser vescovo. Desidero richiamare quelle parole che dissi, in Basilica, anche il giorno delle esequie del Cardinale, riprendendo semplicemente quanto egli aveva espresso al termine del suo servizio episcopale: “Nella mia vita non ho voluto fare altro che il sacerdote. Ho avuto i miei momenti di conversione a Dio, ma in una grande continuità”. E poi aggiungeva: “I ricordi più belli sono nelle cose umili, in tanti incontri in cui ho visto che la mia vita, la mia presenza, diventava significativa per le persone” (Marco Cè: Vescovo, padre e fratello, Edizioni CID 2002, pp. 15-16).

Chiedo ai seminaristi di leggere e rileggere il volume che raccoglie vari testi del Cardinale e che è stato editato quest’anno, anche in ricordo dei duecento di anni di presenza del nostro Seminario alla Salute. Nella mia vita, auguro a me e ai miei confratelli di poter dire negli ultimi istanti: “Nella mia vita non ho voluto fare altro che il sacerdote”.

Al termine del suo servizio episcopale il Patriarca si presenta come uomo dell’Eucaristia e della Parola di Dio amata e annunciata, sempre rispettoso dell’interlocutore e con la passione che non è tanto quella dello studioso che sfoggia erudizione (lui che, pure, era competente e colto ma non gli interessava dimostrarlo agli altri…) ma la passione del credente e dell’evangelizzatore che sa d’esser mandato a portare un messaggio di cui Lui è il primo destinatario.

Rimangono vive tutte le sue realizzazioni e qui ricordo soprattutto i Gruppi d’Ascolto della Parola di Dio e la pratica degli esercizi spirituali diocesani, da lui fortemente voluti e desiderati come frutto destinato a rimanere nel tempo nella Chiesa che è in Venezia: il fine di entrambi era aiutare i singoli e le comunità a giungere a pensare e ad amare come Gesù. Al cristiano non basta, infatti, essere persone capaci di buona coscienza; bisogna essere, piuttosto, capaci di retta coscienza e la differenza non è poca.

Il Patriarca Marco è stato un pastore innamorato della Parola di Dio e impegnato a garantire alla sua Chiesa percorsi semplici ma reali che avessero sempre come punto di riferimento e di arrivo l’Eucaristia e una retta coscienza (la coscienza di Gesù in noi), presentandosi come il servitore di Gesù – unico e sommo sacerdote – e offrendosi pienamente nel servizio impegnativo di guida della Chiesa a lui affidata.

Che quest’anno l’anniversario dell’incontro del patriarca Marco cada – proprio il giorno dell’Ascensione ci riempie di gioia perché il cielo è la comune meta finale. Là dove il Signore ci ha preceduto, un giorno saremo anche noi con tutti i nostri fratelli. Il Patriarca Marco ci ha preceduti ma tutti speriamo di giungervi, per incontrarci nella piena libertà dei figli di Dio.

Dobbiamo quindi pensare di più, con maggiore coraggio e convinzione, che siamo con il fiore del campo e l’erba che al mattino fiorisce e la sera è già secca ma il nostro destino ultimo è superare la mutevolezza e la precarietà del tempo presente, per giungere alla fruizione del Bene, del Bello e del Vero che è lo stesso Dio.

In questa liturgia vigilare dell’Ascensione risuona, per tutti noi, l’augurio che Gesù rivolge nella parabola dei talenti al servo laborioso e umile:  “Bene, servo buono e fedele (…), sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 21).

Chiediamo al Patriarca Marco – nello spirito dell’odierna solennità dell’Ascensione – che là, dove lui ormai si trova nella gioia compiuta, sostenga con la sua preghiera tutti noi – l’amata Chiesa che è in Venezia – chiedendo, attraverso l’intercessione della Madre del Signore (la Madonna Nicopeia e la Madonna della Salute), il dono grande di numerosi ma, soprattutto, santi sacerdoti e di aiutare i nostri giovani ad aprirsi al dono del prossimo Sinodo.

Non dobbiamo avere vergogna di parlare di santità, che è il “problema” della Chiesa; solo la santità ci rende uomini, donne e comunità vive, reali, attente, giustamente idealiste e capaci di farsi piccole per annunciare la grandezza del’uomo e la bellezza del Vangelo cristiano.

Chiediamo alla Madre del Signore – a Venezia così amata e pregata – che ci aiuti a comprendere il senso della festa dell’Ascensione; una festa che ci lascia “nel” mondo pur non essendo “del” mondo, una festa in cui la speranza non è fuga dal presente, la carità è adesione alle piaghe e alle sofferenze degli uomini e la fede è quel sapere che può cambiare le relazioni umane cominciando (a differenza delle scienze umane) dal cuore dell’uomo, che conosce solo il Signore.

Chiediamo al Patriarca Marco che ci dia una saggia spiritualità del “già” e del “non ancora”. Chiediamo a lui di invocare con noi, anche oggi, la Stella Maris nelle note suggestive della melodia di Ravetta che riusciva a commuoverlo ogni volta che l’ascoltava.

La Santa Madre del Signore, in questi giorni che ci conducono alla pienezza della Pasqua, come fece duemila anni fa nel Cenacolo, ci tenga sotto il suo manto e ci raduni in attesa del compimento della promessa di Gesù, il dono dello Spirito Santo!