Omelia del Patriarca nella S. Messa per i funerali di mons. Ezio Memo (Burano - Chiesa arcipretale di San Martino, 4 gennaio 2018)
04-01-2018

S. Messa per i funerali di mons. Ezio Memo

(Burano – Chiesa arcipretale di San Martino, 4 gennaio 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi confratelli nell’episcopato, presbiteri, fedeli,

riprendo le parole di Gesù appena ascoltate nel Vangelo: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

 

L’immagine del chicco di grano che muore rende al meglio gli ultimi anni della vita terrena di don Ezio che oggi, nella fede, affidiamo al Signore Gesù, vincitore della morte. Il nostro commiato avviene in questa chiesa arcipretale di San Martino di Burano molto cara a don Ezio, la chiesa del suo battesimo.

Qui oggi vi sono alcuni dei tanti che don Ezio ha servito nel ministero, con dedizione e zelo, da quell’ormai lontano 26 giugno 1955, giorno in cui fu ordinato presbitero dal Patriarca Roncalli; altri sono già in Paradiso.

Ai familiari, al nipote Arrigo, al parroco don Enzo, agli amici e a tutti coloro che hanno voluto e vogliono bene a don Ezio va la nostra vicinanza e affetto. A quanti, poi, lo hanno fraternamente sostenuto nel tempo della malattia – qui desidero ricordare, fra gli altri, il dottor Cerni – va il grazie più sincero.

L’impressione che sempre ricavai dai colloqui con don Ezio fu di un prete di grande fede, profondamente unito al Signore Gesù, figlio della Chiesa di cui volle essere servitore umile e coraggioso.

Scrisse durante l’Anno Sacerdotale indetto da Papa Benedetto XVI un breve testo, datato 31 luglio 2009, festa di sant’Ignazio di Loyola. In questo testo riporta una frase del colloquio che ebbe con l’allora patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, il giorno successivo l’ordinazione: “Si ricordi – disse Roncalli – che è diventato prete non per se stesso, ma per gli altri, come il Signore Gesù non è venuto per essere servito ma per servire”.

E il commento di don Ezio è chiaro: “Farsi prete dovrebbe comportare, nella più totale disponibilità, l’essere il servo, l’amico, il fratello di ogni uomo per aiutarlo nel difficile e faticoso cammino dell’esistenza”.

Rimarco quanto egli stesso volle precisare: “Ho usato – scrisse don Ezio – un verbo al condizionale: ‘dovrebbe‘, perché anche il prete è un uomo, è un povero uomo, che sperimenta nella sua propria carne, nonostante abbia ben presente l’ideale, la finitudine di ogni essere umano: fragilità, incoerenza, incostanza ed anche peccato”.

Don Ezio era nato il 7 settembre 1931 in questa bella isola che sempre ebbe nel cuore anche quando, per motivi di ministero, risiedette lontano da essa. Don Ezio per oltre sessant’anni esercitò il ministero e – come succede per molti presbiteri veneziani (lo dico con animo grato a Dio) – si impegnò a star vicino alla gente che amava come prete, ovvero come fratello e padre nella fede. Negli ultimi tempi, poi, il Signore gli chiese di esercitare il ministero della sofferenza offerta per la salvezza delle anime.

Continuò così a celebrare la Santa Messa in casa, attorniato da una piccola comunità; il prete rimane sempre tale, anche quando le forze fisiche vengono meno e non si è più in grado di esercitare il ministero in modo attivo ma, sempre, ci si può unire alle sofferenze di Gesù crocifisso nella celebrazione del sacrificio eucaristico.

Dove veniva mandato, don Ezio sapeva di non trovarsi per caso ma perché inviato da Gesù di cui sempre desiderò essere segno trasparente, semplice, credibile. Il sì detto nel momento dell’ordinazione, il prete lo testimonia, ogni giorno, nel ministero, con le sue scelte, le sue parole, lo stile della vita. Le promesse sacerdotali “costruiscono” l’io del prete; il suo sì, il prete lo testimonia lasciandosi condurre dove il Signore vuole sull’esempio del sì di Maria, la madre dell’eterno Sacerdote.

“In quei giorni – narra il Vangelo di Luca –, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda” (Lc 1,40).  E, proprio sull’esempio di Maria, il sì del prete deve essere libero, cordiale e indiviso.

Don Ezio visse il suo sacerdozio con fede e fedeltà, svolgendo i servizi che gli venivano assegnati: in parrocchia, in Curia e nell’insegnamento – compito che svolse con passione e senso di responsabilità – spaziando dalle scienze matematiche a quelle bibliche.

Dal 1989 al 2002 don Ezio fu Pro-vicario generale e Moderator Curiae e specialmente in questo delicato e impegnativo compito, a servizio dell’intera comunità diocesana, conobbe bene la nostra Chiesa e fu conosciuto da molti.

Fu anche apprezzato Segretario Aggiunto della Conferenza Episcopale del Triveneto, dal 2002 al 2014, incarico che svolse – come suo solito – con competenza, puntualità e riservatezza; di ciò Lo ringrazio anche a nome dei confratelli Vescovi.

Fin da giovanissimo dovette misurarsi con una salute malferma; tutto il suo ministero fu segnato da tale fragilità a cui, però, si accompagnava una volontà forte. E, come sempre avviene, quando nella vita di una persona entra il misterioso ospite che risponde al nome di “sofferenza” – e quando tale ospite viene accolto con fede -, allora si plasma l’uomo nuovo, più forte e vero.

Si diventa così sacerdotalmente più simili a Gesù, vero, sommo sacerdote. La lettera agli Ebrei attesta che Gesù “imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8).

In tal modo si diventa più maturi, più capaci di affrontare – nel ministero – quelle situazioni in cui le risposte umane dicono la loro insufficienza.

Soprattutto da quando aveva lasciato gli incarichi pastorali per ritirarsi qui – nella sua amata isola di Burano – don Ezio era stato, in modo ancora più intenso, visitato da questo scomodo ospite che ha nome “dolore” e che ci rende partecipi della fecondità del Crocifisso-risorto; sperimentò così, in sé e fino in fondo, la Parola di Dio che attesta il travaglio della redenzione: “…gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23).

Don Ezio ci ha lasciati durante l’Ottava del Santo Natale, tempo in cui la Chiesa celebra il compiersi delle promesse che – attraverso Israele – Dio ha fatto all’umanità intera. La santa notte di Betlemme vive il realizzarsi dell’attesa dell’Antico Testamento, il Dio con noi, l’Emmanuele, il Signore che si fa vicino e salva, anche dentro il dolore della morte. E al prete – lo ricordo spesso nei funerali dei confratelli – si chiede qualcosa di specificamente sacerdotale nel momento della morte.

Ringraziamo – con don Ezio – il Padre celeste per il dono del sacerdozio. Ho ricordato prima quanto il Patriarca Roncalli disse a don Ezio in occasione dell’ordinazione: il prete è l’uomo per gli altri ma, per essere tale – e lo capiamo bene! – deve appartenere solo a Dio; ecco il senso ultimo delle promesse sacerdotali, l’obbedienza e il celibato vissuti con libertà, responsabilità e gioia.

Come traspare anche dal suo testamento spirituale, don Ezio fu sempre conscio e grato al Signore del dono ricevuto e visse il sacerdozio come la via che si percorre con amore, trepidazione e gratitudine a Dio.

Carissimo don Ezio, anche a te, come a ogni nostro confratello che ci precede nella casa del Padre – dove un giorno tutti speriamo di vivere per sempre col Signore Gesù – chiedo: portaci nella tua preghiera, porta il nostro Seminario, i nostri confratelli più giovani, gli anziani, i malati e quanti hanno dolori e ferite particolari.

La Vergine Nicopeia – venerata nella Patriarcale Basilica Cattedrale di San Marco di cui tu fosti canonico – ti accolga nella Gerusalemme celeste, dischiudendoti il mistero del Dio che è amore, giustizia e misericordia.