Omelia del Patriarca nella S. Messa in suffragio del diacono Giulio Saltarin (Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 12 giugno 2020)
12-06-2020

S. Messa in suffragio del diacono Giulio Saltarin

(Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 12 giugno 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

viviamo quest’Eucaristia nel suffragio e soprattutto nel ricordo del carissimo diacono Giulio, a tre mesi dalla sua morte.

Non avevamo potuto salutarlo, come avremmo desiderato, in occasione dei suoi funerali ma eravamo a metà marzo di quest’anno; iniziava un periodo singolare ed inedito, in piena emergenza e durante il “lockdown” per la pandemia in atto. Ci ritroviamo adesso, con immutato affetto e gratitudine, nella nostra amata basilica cattedrale di S. Marco dove Giulio ha operato a lungo con amore ed autentica passione.

Siamo di nuovo particolarmente vicini, con affettuoso e spirituale abbraccio, alla moglie Lilia che ha condiviso con Giulio tanti anni di vita, nel contesto del loro amore – sigillato dal sacramento dal matrimonio – e della comune ed intensa fede cristiana, rafforzata anche dall’ordinazione diaconale di Giulio avvenuta nel 2003.

Giulio è divenuto diacono, infatti, in giovane età come, purtroppo, è stata giovane l’età in cui è tornato alla casa del Padre, a soli 55 anni.

Ringraziamo Lilia per le letture che ha voluto scegliere per questa Messa e che, per questo, accompagnano oggi la nostra preghiera.

Le parole che compongono la prima lettura (Is 38,10-14.17-20) sono tratte dal profeta Isaia e sono messe in bocca a Ezechia, re di Giuda, nel tempo della sua grave malattia. Raccontano di una vita che sta per essere spezzata troppo presto ed esprime così, all’inizio, un grido di sofferenza e di amarezza. Mai, in alcun modo, viene però meno la fede, intesa come fedeltà al Signore e come esigenza di affidarsi di nuovo a Lui in una invocazione incessante. E non viene meno neppure la pace vera che solo il Signore – Autore della vita e unico Salvatore – può dare.

L’esistenza terrena del carissimo diacono Giulio è stata segnata da una malattia lunga e progressiva che lo ha, via via, debilitato e infine spento ma non l’ha mai scoraggiato e abbattuto, anche nei giorni in cui il quadro diventava più drammatico. La malattia, insomma, lo ha provato duramente ma, in realtà, non è riuscito a sconfiggerlo. Personalmente ne conservo un ricordo chiaro e vivissimo che, tra l’altro, mi viene anche dai nostri ultimi incontri, avvenuti in ospedale e sempre insieme alla fedele e amta Lilia.

Mi sembra, anzi, di poter dire oggi qualcosa in più. Sin da quando ho iniziato a conoscere il diacono Giulio, che ho potuto apprezzare sia per il prezioso servizio nella portineria della Curia Patriarcale sia per quello svolto – con pazienza e dedizione ammirevoli – nella sacrestia di S. Marco, rimasi colpito dal fatto che sapeva sempre collegare, in modo concreto, la sua visione di fede con le piccole e grandi vicende della vita. Sì, la fede era davvero il cuore e il motore della sua vita; lo ripeto, nelle piccole e nelle grandi cose.

Brillava ed emergeva così la sua serena saggezza, la sua capacità di equilibrio, la trasparenza della sua persona che univa in semplice (ma pregevole) sintesi una grande maturità umana ad una sempre maggiore sensibilità e maturità cristiana, ecclesiale e – nello specifico – diaconale. Le due dimensioni (la crescita umana e quella di fede, nella nostra Chiesa di Venezia e nella vocazione e missione del diacono) si sono sempre più intrecciate e sono andate di pari passo. Il tempo della sua sofferenza e malattia ha, di volta in volta, reso manifesto con forza questo tratto caratteristico e, se possibile, l’ha rafforzato ed evidenziato ancora di più.

Il Vangelo di Marco che è stato appena proclamato (Mc 4,35-41) ci riconsegna la persona di Gesù, il Signore, che placa la grande tempesta scatenatasi sul lago di Tiberiade e che ai discepoli paurosi – di ieri e oggi – ripete le seguenti parole che interrogano e scuotono: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?” (Mc 4,40).

Tornano qui alla mente l’immagine e le parole di Papa Francesco che, a fine marzo, aveva commentato questo stesso brano in una Piazza San Pietro tutta vuota, in piena emergenza da pandemia e appena pochi giorni dopo la morte del nostro Giulio: “Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te… L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore… Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai” (Papa Francesco, Meditazione durante il momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020).

Anche il diacono Giulio, con tutta la sua esistenza e fino agli ultimi scampoli, ha sperimentato questi passaggi e ha confermato e testimoniato la sua fede, il suo amore e la sua speranza nei confronti dell’unico Signore e Salvatore a cui ha continuamente affidato e offerto – con gioia e con fiducia – la sua vita di uomo, di marito, di diacono, di figlio prediletto di questa Chiesa.

Ora che, ne siamo convinti, il carissimo Giulio è entrato nella gioia e nella vita eterna, possiamo affidare anche a lui le necessità e le nostre preghiere per questa Chiesa che ha tanto amato – ricordiamo oggi, in modo particolare, la nostra comunità diaconale ed anche i due diaconi don Augusto e don Daniele che, tra pochi giorni, diverranno presbiteri – mentre rinnoviamo alla moglie Lilia e a tutti i suoi cari la vicinanza affettuosa della Chiesa veneziana.