Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione della Tredicina di Sant’Antonio e del pellegrinaggio diocesano di Venezia alla Basilica del Santo (Padova, 8 giugno 2019)
08-06-2019

S. Messa in occasione della Tredicina di Sant’Antonio e del pellegrinaggio diocesano di Venezia alla Basilica del Santo

(Padova, Basilica di Sant’Antonio – 8 giugno 2019)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

Cari fratelli e sorelle,

questo nono giorno della Tredicina di Sant’Antonio cade già nella festa di Pentecoste; stiamo, infatti, celebrando la messa vigilare di questa solennità. Le due feste solenni di Pasqua e Pentecoste – come sappiamo – costituiscono dal punto di vista teologico, liturgico e spirituale un tutt’uno, una realtà indivisibile.

Il Nuovo Testamento, in alcuni passi, ci presenta la risurrezione di Cristo e l’effusione dello Spirito Santo come eventi verificatesi nello stesso giorno.

Ricordiamo, ad esempio, il Vangelo secondo Giovanni: “La sera di quel giorno (Pasqua), il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo…»” (Gv 20,19-22).

L’evangelista Luca propone, invece, negli Atti la cronologia veterotestamentaria, ossia frappone tra i due eventi i cinquanta giorni che stanno tra l’uscita del popolo dall’Egitto e l’arrivo al Sinai, dove sul monte Oreb Dio farà Alleanza con Israele e donerà la Legge: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2,1-4).

I Vangeli, come sappiamo, sono testimonianze di fede che narrano in modo vero e sincero la vicenda di Gesù, la sua vita, morte e risurrezione. Ma come si sono formati i vangeli? Che storia hanno?

Innanzitutto, i Vangeli sono la testimonianza degli apostoli, narrano quello che essi hanno visto e sentito vivendo con Gesù. In un certo momento la Chiesa ha incominciato a predicare il Vangelo trasmettendo la “buona notizia” di Gesù da persona a persona e, successivamente, vedendo che i testimoni della vita di Gesù venivano meno, ha sentito l’esigenza di mettere per iscritto quanto aveva ricevuto compiendo un lavoro di selezione, sintesi e adattamento del messaggio con fine catechetico, riportando i fatti con sincerità e verità.

I Vangeli, quindi, sono scritti con l’intento di annunciare la salvezza compiutasi in Gesù risorto che dona lo Spirito Santo.

Non è presente in loro l’attenzione di chi redige un verbale; ecco perché l’effusione dello Spirito Santo – il giorno stesso di Pasqua o cinquanta giorni dopo – non è un problema, essendo questione teologica e non cronologica.

Nei Vangeli si proclama la storia della salvezza, che ha il suo compimento nel dono dello Spirito da parte di Cristo risorto. Ciò che interessa i discepoli, allora, è annunciare la salvezza, l’opera di Gesù che è il buon samaritano dell’umanità.

Lo Spirito Santo si comunica all’uomo e dona la vita di Dio e, così, lo Spirito “in-abita” l’uomo e lo rende tempio di Dio. Ma Dio non si impone all’uomo, non ne piega la volontà. E, allora, di cosa ha “bisogno” Dio per potersi donare all’uomo rispettandone la libertà?

Sant’Antonio – seguendo la tradizione biblica, teologica e spirituale – risponde, in una omelia di Pentecoste, rimarcando che l’uomo può ricevere il dono dello Spirito Santo solo se è umile.

Ascoltiamo le parole di Antonio: “…la dispersione [confusione] delle lingue avvenne nella torre di Babele (cf. Gn 11,8-9), per il fatto che la superbia disunisce e disperde, mentre l’umiltà riunisce. Nella superbia c’è la dispersione, nell’umiltà c’è la concordia. Ecco che si compie così la promessa del Signore: non vi lascerò orfani, ma vi manderò lo Spirito Paràclito” (Sant’Antonio di Padova, Sermoni domenicali, Domenica di Pentecoste, I,3).

Quindi è l’effusione dello Spirito a rendere possibile la santità dei discepoli; in tal modo Antonio, e con lui tutti i santi, sono l’esito riuscito della Pasqua/Pentecoste del Signore Gesù. Oggi, Pentecoste, è la festa della santità!

Noi uomini siamo le sole creature che possono rivolgersi al loro creatore chiamandolo Padre, in quanto Dio ci ha voluti figli nel Suo Unigenito Figlio; così, in Gesù Cristo, tutti siamo figli di Dio.

L’ultima invocazione della preghiera del canone ricorda che tutto avviene grazie a Lui: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli “ (dalla Dossologia eucaristica).

Sempre, ogni santo, di ogni epoca, è il risultato di un affidarsi all’azione salvifica di Dio in modo pieno, libero, responsabile. Umiltà e fede sono due virtù si richiamano a vicenda e segnano l’inizio della nostra relazione con il Signore.

Il Vangelo appena proclamato parla proprio del dono dello Spirito: “Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui…” (Gv 7,37-39).

Antonio fu così grande teologo che la Chiesa lo proclamò dottore; fu anche un instancabile predicatore e un insigne taumaturgo. La Chiesa potrà avere e già ha avuto dei santi che non furono teologi, che non ebbero il dono della predicazione o quello delle guarigioni; mai, però, vi è stato o vi potrà essere un santo privo di umiltà.

Umiltà – nel vocabolario cristiano – fa rima con santità; è una regola che non ammette eccezioni! Possiamo anche dire che santità e umiltà stanno insieme o insieme cadono. Non a caso la Beata Vergine Maria, Regina di tutti i santi, nel Magnificat esclama: “…il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1,47-48).

Assume, poi, un chiaro valore di conferma a quanto sopra detto il fatto che Antonio tenga insieme umiltà e mansuetudine; ciò significa che l’umiltà si accompagna sempre ad altre virtù e, addirittura, le genera.  Questo perché sono molte le situazioni in cui l’uomo si trova e, quindi, l’umiltà prende anche altre forme, come quella della mansuetudine.

Ecco cosa ci dice Antonio in queste sue parole: “Nella cartilagine e nella carne, delle quali è composto l’orecchio, sono indicate le virtù della mansuetudine e dell’umiltà, delle quali nulla è più caro a Dio e agli uomini. L’udito di ogni uomo dev’essere fornito di queste due virtù per rispondere con mansuetudine e umiltà ad ogni affronto, molestia o ingiuria verbale…” (Sant’Antonio di Padova, Sermoni domenicali, Domenica di Pentecoste II,8).

Sembra che qui Antonio – definito da Papa Gregorio IX “scrigno delle Scritture” – si riferisca al libro di Geremia, dove Dio rimprovera la durezza degli Israeliti ma, nonostante ciò, non vogliono convertirsi.

Anche innanzi a questo grido di Dio, la sordità di Gerusalemme rimane invincibile e proprio per questo Dio si lamenta che la città santa, da Lui amata e prediletta ha, oramai, un “orecchio incirconciso”, ossia non vuole o non può più ascoltare la voce di Dio.

Per Antonio umiltà, contemplazione e compassione sono virtù profondamente unite fra loro e insieme fanno incontrare l’uomo con Dio, l’uomo con se stesso, l’uomo col prossimo.

Anche noi – è il mio augurio – facciamo dell’umiltà, contemplazione e compassione la via maestra che conduce all’incontro con Dio, con noi stessi e col prossimo.