Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione della III Domenica di Avvento e della festa di S. Lucia (Venezia / Santuario diocesano di S. Lucia, 13 dicembre 2020)
13-12-2020

S. Messa in occasione della III Domenica di Avvento e della festa di S. Lucia

(Venezia / Santuario diocesano di S. Lucia, 13 dicembre 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Saluto le autorità, il rettore don Gianmatteo Caputo, i rappresentanti del Movimento Apostolico Ciechi e quanti partecipano “in presenza” a questa S. Messa nel Santuario diocesano che è intitolato a santa Lucia, la vergine e martire siracusana.

È bello poter celebrare nel giorno del “dies natalis” (il giorno del martirio) della Santa che idealmente unisce le Città di Venezia e Siracusa nel luogo che ne custodisce le spoglie mortali.

Saluto anche coloro che ci seguono attraverso Antenna 3, che ringrazio per la costante attenzione (anche liturgica), sia quanti ci seguono sui social attraverso la pagina Facebook di Gente Veneta.

Quest’anno il calendario pone la festa di santa Lucia in coincidenza con la terza domenica del tempo di Avvento, denominata domenica “Gaudete”, ovvero, della gioia; il motivo è l’invito della liturgia: “Rallegratevi sempre nel Signore… Il Signore è vicino!” (cfr. Fil 4,4.5).

Com’è possibile vivere la gioia in questi tempi così complicati e faticosi? Com’è possibile “rallegrarsi” in un contesto di vita così condizionato dall’attuale pandemia che, nei tempi e nelle conseguenze, sembra spegnere e, di fatto, spegne – a volte anche definitivamente e penso ai tanti, troppi, decessi… – le nostre aspettative umane?

I discepoli del Signore, in tali circostanze, si pongono ancor più in ascolto della Parola di Dio. Allora, oggi – domenica della gioia – lasciamo che la Parola di Dio, proclamata nelle letture, trovi spazio tanto nel nostro cuore quanto nella nostra intelligenza. Non è sufficiente che la Parola di Dio scaldi il cuore dei discepoli; deve, anche, illuminarne l’intelligenza. I discepoli di Emmaus, riconosciuto il Signore, dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore… quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32).

La fede è luce – ossia intelligenza, senso, progetto, visione – e allo stesso tempo è amore – ovvero cuore, calore, accoglienza -. Si crede realmente quando si hanno gli occhi di Dio e il cuore di Dio. I martiri (come Lucia) sono la sintesi più alta di tale fede, che vede quello che gli altri non vedono, e di un cuore che abbraccia Gesù e anche il loro carnefice; non c’è martirio cristiano se manca il perdono del cuore. Attenzione ad usare bene questa espressione: i martiri non sono quelli che danno la morte, ma sono quelli che, quando soccombono, vincono nel perdono che danno al loro carnefice.

Nella prima lettura il profeta Isaia legge la storia d’Israele nella luce e sotto lo sguardo di Dio: il bene e il male, la verità e le falsità, la schiavitù e le fragilità, la giustizia e le ingiustizie, la libertà e la grazia. Tutto è scritto nel nostro rapporto col Signore, Creatore e Salvatore, e tutto questo ridona speranza – una speranza che cammina con i piedi per terra – e genera gioia. “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio”, dice il profeta (Is 61,10). La potenza degli uomini è in mano all’onnipotenza di Dio.

Questo in modo “pieno” – nel Nuovo Testamento – sarà il cantico mariano del Magnificat, in cui la Vergine a partire dal suo sì al progetto di Dio, allarga lo sguardo sulle vicende del mondo e intravvedendo in esse, nonostante tutto (diremmo noi…), il segno della benevolenza e  misericordia di Dio che si riversa su ogni generazione “rovesciando” le sicurezze umane: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia…” (Lc 1,51-54).

Tutti siamo chiamati a vivere tale “rovesciamento” che, in termini cristiani, si chiama “conversione”: riscoprire la fonte della gioia che nasce solo dalla confidenza con Dio e, quindi, dall’accogliere i suoi doni – i doni dello Spirito Santo – tra i quali ve n’è uno che, in questo tempo, risulta particolarmente prezioso: la sapienza.

E la sapienza vuole “sapère”, ossia conoscere ma, anche, “sàpere”, ossia assaporare, gustare. La Sapienza, dono dello Spirito Santo, è insieme conoscere e gustare Dio. Solamente chi conosce e gusta Dio con il cuore e con l’intelligenza fa esperienza del Dio di Gesù Cristo.

Si apre, qui, per il cristiano la strada della vera gioia, quella che si costruisce in ogni frangente del vivere, nella consapevolezza che Dio abita ogni vicenda della vita ed è presente come Padre e prima di tutto ci vede e ci vuole suoi figli, capaci di testimoniare il Vangelo che, appunto, è la “buona notizia”, la notizia che ci dà gioia e illumina, ci rigenera nel bene.

Riappropriamoci, allora, del nostro battesimo, le radici cristiane della nostra vita, riscopriamole nella gioia della testimonianza. Il battesimo è, insieme dono e responsabilità, annuncio che Dio è Padre e noi apparteniamo a Lui, in Gesù Cristo, eterno Figlio Unigenito. Lucia era a conoscenza e assaporava tale mistero e, in fedeltà ad esso, scelse il martirio.

La giovanissima età non ha impedito a Lucia di venir meno. Lucia fu fedele a Dio e al suo battesimo fino alla morte; non tradì la sua appartenenza a Gesù, anche quando tutto ciò le richiedeva di scegliere fra la propria vita e il Signore.

I martiri sono coloro che accolgono, nella loro vita, la grazia di Dio e sono rimasti fedeli alle promesse battesimali fino alla fine.

Il dono della sapienza ci permette di fare discernimento in ordine al vivere bene, a ciò che è vero, alla giustizia; una buona vita secondo il Vangelo che è lo stesso Signore Gesù. È quanto annuncia la seconda lettura di oggi: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1Ts 5,21-23).

Discernere, decidere, rischiare. Questo è il discernimento cristiano, questo è il discernimento ultimo che ogni martire (e anche Lucia) ha compiuto nel momento del dono totale di sé a Cristo e al suo Vangelo, di fronte all’alternativa: io, la mia vita, il mio benessere, i miei beni e i miei affetti umani o Lui, il Signore? Ed è proprio nell’atto del martirio che si vede la consistenza o l’inconsistenza battesimale del cristiano.

Lucia, chiamata a scegliere tra salvare se stessa e confermare l’appartenenza a Gesù, ha preferito Gesù. Dinanzi ai suoi persecutori e prima di affrontare il martirio – così narrano storia e tradizione -, Lucia si è aggrappata alla verità e alla bellezza del battesimo e non ha temuto la violenza di chi, in nome di un potere umano/mondano, cercava di distoglierla dal Signore, anzi rispose: “Io giorno e notte medito la legge del mio Dio… Giammai potrai smuovermi dal mio proposito e farmi acconsentire al peccato”.

Come nella Madre del Signore, che pochi giorni fa abbiamo acclamato come l’Immacolata, così in Lucia contempliamo una splendida testimonianza di quell’ “umanità al femminile” pienamente riuscita perché capace di pronunciare in ogni situazione – con la vita – il sì generoso, coraggioso e gioioso che rimanda al sì di Maria che ci ha donato Gesù come il Natale, tra pochi giorni, ci farà celebrare.

Il Vangelo, infine, ci dona un altro potente testimone: Giovanni Battista, “venne… per dare testimonianza alla luce”, “voce di uno che grida nel deserto” (Gv 1,7.23).

Sì, fermiamoci sul deserto, costante nella storia d’Israele, e sulla festa delle “Capanne” che ricordava proprio il soggiorno d’Israele nel deserto in cammino verso la terra promessa, guidato dal suo Signore. La festa delle “Capanne” o delle “Tende” è la più gioiosa fra le feste ebraiche, un’autentica esplosione di vitalità popolare nel tempo della vendemmia.

Ogni deserto – anche i nostri, quelli del nostro tempo, con le fatiche e sofferenze che li segnano – sono “luogo” e “tempo” di prova, anche di morte, diventando allo stesso tempo una rinascita; rimandano così al Triduo Sacro, al venerdì di passione e alla domenica di Pasqua.

Diventa una vera ri-creazione – una nuova creazione – soltanto, però, se l’uomo si dispone a fare esodo, ossia a partire per questa traversata verso Dio, fonte di vita e vera gioia.

Dal deserto proviene anche Giovanni Battista – uomo austero e penitente (togliamo anche noi qualcosa dalla nostra vita…) –, il testimone per eccellenza, l’unico, tra i profeti che poté indicare fisicamente l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.

Il Battista è l’uomo che appartiene a Dio e, per questo, non teme nessun potere umano e mondano, neanche quello di “quella volpe” di Erode; allora, la volpe era per gli ebrei l’animale insieme scaltro e vigliacco perché sceglieva le prede più fragili e deboli e poi, dopo averle depredate, scappava nascondendosi. Erode è chiamato da Gesù “quella volpe” (Lc 13,32); Erode è un archetipo, un modello.

Lucia e Giovanni Battista: non erano la luce (anche se noi veneriamo Lucia come la santa della luce), ma essi hanno vissuto sempre “nella” luce di Cristo, l’hanno testimoniata con la vita donata proprio per Cristo/Verità, unico Signore e Salvatore.

Per questo, a pochi giorni dal Natale “inedito” che ci accingiamo a celebrare, desideriamo anche noi ritornare alla fonte dell’unica gioia per recuperare forza, speranza, fiducia e volontà di ripartire da Dio e così potremo rallegrarci davvero, perché solo Dio dà gioia.

La perdurante pandemia – che, purtroppo, non dà ancora tregua – ci costringerà a fare a meno di tante cose a cui eravamo abituati ma non vogliamo fare a meno dell’essenziale, di ciò che veramente vale. Fissiamo lo sguardo su Gesù, sul Divino Bambino che nasce a Betlemme: è Lui la nostra vita, la nostra luce, la nostra speranza, la nostra gioia.