Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione della festa di S. Lucia (Venezia / Santuario diocesano di S. Lucia, 13 dicembre 2021)
13-12-2021

S. Messa in occasione della festa di S. Lucia

(Venezia / Santuario diocesano di S. Lucia, 13 dicembre 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Saluto le autorità presenti, il rettore di questo Santuario diocesano don Gianmatteo Caputo e tutti voi che partecipate a questa S. Messa nel giorno della festa di santa Lucia, la vergine e martire siracusana le cui spoglie sono qui custodite e venerate.

Questa celebrazione ci consente di riconoscere ancora una volta che il bene primo e fondamentale della Chiesa è la santità. E la santità non si declina mai in termini astratti o generici e superficiali, ma si realizza molto concretamente nella vita delle persone.

Si può parlare di santità, allora, attraverso i tanti e singoli santi dei diversi secoli che hanno un nome, un volto, una storia: ci sono tra di essi gli apostoli, i martiri, i dottori della Chiesa, i fondatori di ordini religiosi, figure di uomini e donne vergini per il Signore, persone impegnate nella vita familiare e sociale fino anche alle più recenti e splendide figure che sono avviate sulla strada della santità ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa.

E qui mi limito a richiamarne solo alcune: innanzitutto Giovanni Paolo I (Albino Luciani, già indimenticato nostro Patriarca), il vescovo don Tonino Bello, Armida Barelli (cofondatrice dell’Università Cattolica), il magistrato Rosario Livatino, la religiosa suor Maria Laura Mainetti (uccisa da alcune ragazze mentre perdonava e pregava per le autrici del delitto).

La santità è davvero il filo rosso che attraversa, fino ad oggi, tutti i secoli della vita della Chiesa. E non dovremmo mai dimenticare che la comunità ecclesiale ha sempre saputo uscire dalle epoche più difficili e tormentate – di “crisi” – non attraverso delle operazioni o delle riforme di carattere teologico o pastorale, ma attraverso la riforma operata e portata avanti dalla santità.

Sono insomma i santi vescovi, presbiteri, diaconi, religiosi e religiosi, fedeli laici che delineano e rendono presente, nei diversi momenti storici, il carisma della santità.

Lucia è nel gruppo di donne sante degli inizi della Chiesa che, accanto agli apostoli e ai primi martiri, sono esplicitamente citate con il loro nome [Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia] nel Canone Romano, la prima ed antica preghiera eucaristica che guida e scandisce il cuore della celebrazione eucaristica che, a sua volta, è il cuore dell’intera vita della Chiesa. Non è, infatti, la Chiesa che in prima o ultima istanza “fa” l’Eucaristia ma è l’Eucaristia che “fa” la Chiesa.

Il martirio, in particolare, è una forma che potremmo definire “originaria”/ esplicativa della santità; i primi santi della Chiesa sono stati così i martiri, ovvero coloro che non hanno avuto bisogno di una verifica attraverso i previsti procedimenti canonici – oggi necessari per sancire l’eroicità delle virtù dei santi – perché è l’evento finale e il compimento stesso della loro vita che si impone con forza dirompente come attestato di santità.

Nel martirio – che ha riguardato, come sappiamo bene, anche Lucia – risalta il sì pieno e totale della persona, la sua fedeltà alle promesse battesimali e quindi l’appartenenza, senza “se” e senza “ma”, al Signore Gesù; quest’appartenenza è descritta in modo limpido anche dalla prima lettura di oggi, tratta dal profeta Osea: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21-22).

Il martire, insomma, ha la consapevolezza di avere qualcosa di ben più importante e necessario di quello che potrebbe perdere (e che perde) con il sacrificio della vita.

La santità, in molte sue espressioni, riesce a mettere in evidenza come le fragilità e le debolezze (o presunte tali) che appartengono alla persona – nel caso di Lucia l’essere giovane ma anche l’essere donna o l’essere parte di una minoranza culturale e, quindi, potenzialmente osteggiata – non sono mai ostacolo alla professione, anche pubblica, della fede. Anzi, con san Paolo, potremmo dire: “…mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).

La santità può – e molto spesso, in effetti, succede – realizzarsi anche nelle pieghe delle debolezze e delle fragilità umane perché si evidenzia che la santità, prima di tutto, è dono di Dio ed opera di Dio che, certo, ha bisogno della collaborazione umana per rendersi effettivamente presente. Anche la seconda lettura odierna, di san Paolo, ce lo ha ricordato con chiarezza: “…chi si vanta, si vanti nel Signore” (2Cor 10,17).

Non c’è carattere, temperamento o educazione umana che possano avere la forza di resistere – da soli – alle minacce, alle torture e alle persecuzioni oppure agli ammiccamenti e agli accomodamenti mondani: è la grazia di Dio che permette il conseguimento di una fedeltà che si perpetua nel tempo e sa anche andare, se necessario, contro tutto e contro tutti.

Lucia, allora, ci è stata donata come esempio di giovane donna che sa resistere, non solo spiritualmente ma anche corporalmente, e alla fine vince. È, infatti, proprio del martire vincere soccombendo.

Sarebbe poi un errore gravissimo ritenere che la santità, ed in particolare quella espressa con il martirio, sia un capitolo da relegare sulle pagine – di carta o virtuali – dei testi di storia, come se non fosse più attuale.

Già Paolo VI, negli anni ’60, canonizzando un gruppo di fedeli ugandesi martirizzati alla fine dell’Ottocento, si chiedeva (e chiedeva) come e se si sarebbe potuto prevedere che, accanto alle storie dei santi confessori e martiri africani dei primi secoli della Chiesa, “si sarebbero aggiunte nuove storie non meno eroiche, non meno fulgenti, nei tempi nostri” (Paolo VI, Omelia in occasione della canonizzazione di Caroli Lwanga, Matthiae Mulumba Kalemba ed altri 20 martiri ugandesi, 18 ottobre 1964).

Né possiamo ritenere che l’espressione e la professione pubblica della fede siano conquiste di libertà sempre assodate o fatte una volta per tutte, insieme al riconoscimento della rilevanza della dimensione spirituale e religiosa dell’uomo nella vita privata e pubblica.

Papa Francesco, rivolgendosi all’inizio di quest’anno ai rappresentanti del Corpo diplomatico presso la Santa Sede, aveva espresso in proposito una preziosa riflessione che prendeva spunto dalle conseguenze – ancora ben presenti tra noi, anche in questi tempi – della pandemia da Covid-19.

“Le esigenze di contenere la diffusione del virus – ha affermato il Santo Padre – hanno avuto ramificazioni anche su diverse libertà fondamentali, inclusa la libertà di religione, limitando il culto e le attività educative e caritative delle comunità di fede. Non bisogna tuttavia trascurare che la dimensione religiosa costituisce un aspetto fondamentale della personalità umana e della società, che non può essere obliterato; e che, nonostante si stia cercando di proteggere le vite umane dalla diffusione del virus, non si può ritenere la dimensione spirituale e morale della persona come secondaria rispetto alla salute fisica. La libertà di culto non costituisce peraltro un corollario della libertà di riunione, ma deriva essenzialmente dal diritto alla libertà religiosa, che è il primo e fondamentale diritto umano” (Papa Francesco, Discorso del Santo Padre ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 8 febbraio 2021).

E che la salute dell’anima sia importante come e più di quella del corpo ce l’ha testimoniato con forza Gesù stesso quando – siamo nel secondo capitolo del Vangelo di Marco – gli viene portato un paralitico e Lui, il Signore, prima lo perdona dei suoi peccati e poi lo guarisce dalla sua malattia (cfr. Mc 2,1-12).

Ci sono poi pagine del Vangelo, come quella che è stata proclamata poco fa (Mt 10,17-22), che possono apparire (e anche lo sono) difficili e ardue ma sono pagine che si comprendono bene solo nel momento in cui si vivono.

I martiri, gli uomini e le donne come Lucia, le hanno comprese ed hanno sicuramente provato e verificato sulla loro pelle anche queste altre parole di Gesù: “…quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi… Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” (Mt 10,19-20.22).

Chi ha fatto un atto eroico per il Signore, anche a scapito della propria vita e con scelte umanamente non facili e comode, chi ha vissuto pienamente l’appartenenza al Signore può testimoniare e dire anche a noi oggi quanto sono vere quelle parole che, in un altro passo del Vangelo di Marco, Gesù dice ai suoi discepoli: “…non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,29-30).

Queste pagine del Vangelo siano di sostegno e conforto per tutti coloro che sono o saranno chiamati forse non al sacrificio della vita nel sangue ma, certamente, ad una testimonianza coraggiosa e audace nei diversi contesti e momenti dell’esistenza umana. Non mancheranno mai – ad ogni discepolo e discepola del Signore – l’aiuto, il suggerimento, il consiglio, e la guida necessaria; sperimenterà, anzi, in quei frangenti la forza nella debolezza e la grazia di chi, per dono e con l’aiuto di Dio, sa vincere soccombendo.

Attraverso l’intercessione di santa Lucia, vergine e martire, chiediamo nella preghiera, per noi e per tutti, la luce per discernere il bene dal male e la gioia di vivere sempre nella fedeltà e nell’appartenenza al Signore.