Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione del “Pellegrinaggio Mindszenty” (Ungheria / Basilica di Esztergom, 7 maggio 2022)
07-05-2022

S. Messa in occasione del “Pellegrinaggio Mindszenty”

(Ungheria / Basilica di Esztergom, 7 maggio 2022)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

       

Eminenza Reverendissima, cari confratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle giunti da varie parti dell’Ungheria per rinnovare la bella tradizione del “Pellegrinaggio Mindszenty”,

a tutti rivolgo un cordiale saluto.

Vi confido la gioia di poter condividere questo momento e, a tal proposito, ringrazio di cuore S.E. il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo metropolita di Esztergom -Budapest e Primate d’Ungheria, per il Suo cortese invito.

Ci riunisce, ora, l’Eucaristia che stiamo celebrando e che ci identifica pienamente come cristiani. L’Eucaristia “contiene” tutto il Vangelo; in essa, infatti, vi è Gesù – il Risorto, il Vivente – che vince la morte e ci dona la vita.

L’Eucaristia è l’amore di Gesù per il Padre e per gli uomini; quell’amore che l’umanità, da sempre, aveva inutilmente desiderato, cercato e mai attuato; l’amore che vince ogni male umano incominciando dal peccato.

L’antifona d’ingresso della Messa odierna così recita: “Sepolti con Cristo nel Battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Alleluia” (Col 2,12).

Potremmo affermare che tutta la vita dell’indimenticabile ed indimenticato venerabile Cardinale József Mindszenty – a cui dobbiamo il nostro essere pellegrini oggi qui a Esztergom – è stata il commento, l’esegesi, di questo versetto paolino. In queste parole troviamo infatti la cifra e la misura della grande personalità di quest’uomo, di questo cristiano, battezzato, sacerdote, vescovo e Primate d’Ungheria.

“Sepolti” e “risorti” con Cristo: con Lui e come Lui il cristiano vince soccombendo perché si tratta, qui, della vittoria che rimane, non quella che fa notizia sui giornali o nelle cronache “mondane” dello spettacolo e della politica.

Il brano degli Atti degli Apostoli ci consegna alcuni momenti di vita della prima comunità cristiana che attestano come la fede battesimale – “sepolti” e “risorti” in Cristo – guarisce e salva. E così si propaga, per irradiazione da persona a persona, tra conversioni e nuovi credenti.

Abbiamo appena ascoltato una pagina del Vangelo che, per noi, è realmente “parola di vita”, a cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare. Molti – racconta l’evangelista Giovanni – seguono Gesù, almeno fino a quando dà da mangiare i pani (cfr. tutto il capitolo 6 dell’evangelista Giovanni), ma quando il discorso di Gesù si fa più esigente sono parecchi ad andarsene. Quando viene chiesto di mettersi in gioco c’è chi viene meno, perché è debole o perché manca la fede che è rapporto personale con Gesù Cristo e non una adesione esteriore a delle formule o a delle abitudini, seppure rispettabili.

Insieme a Pietro, illuminati dall’esempio di vita del Cardinale Mindszenty, anche noi invece vogliamo professare la nostra fede e rinnovare il nostro legame con Gesù, la nostra appartenenza a Lui e alla sua Chiesa a partire dal nostro battesimo: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,69).

Pochi giorni fa, proprio in questo tempo di Pasqua, abbiamo sentito risuonare quella pagina del Vangelo che potremo considerare l’inizio della vita della Chiesa e che il Vangelo sigilla in quelle parole rivolte da Gesù risorto ai suoi discepoli ancora impauriti e chiusi nel cenacolo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” (Gv 20,21).

In quella Pasqua ha avuto inizio il tempo della Chiesa in cui i battezzati sono chiamati a dire con la vita – attraverso la fede, la carità, la speranza – che Gesù è il Signore. Il nostro tempo è il tempo della testimonianza cristiana che scaturisce, proprio, dal battesimo e, per alcuni, assume la forma massima, ovvero la testimonianza del martirio: ecco allora le persecuzioni, le gravi umiliazioni e le sofferenze patite a causa del Vangelo e della fede professata, con coraggio e perseveranza, pagando di persona tra le difficoltà e le vicende tumultuose della storia.

È l’esempio che ci viene dal venerabile Cardinale Mindszenty, alla cui testimonianza vogliamo guardare. Lasciamo parlare la sua vita, la sua storia e, soprattutto, la sua fede.

“Voglio essere un buon pastore che, se necessario, dà la vita per il proprio gregge, per la propria Chiesa, per la propria patria”, diceva l’8 dicembre 1945 qui a Esztergom mentre iniziava il suo servizio come Arcivescovo dell’antica Strigonio e come Primate d’Ungheria nominato dal venerabile Pio XII. Era il periodo della guerra – con il suo carico di violenze, miserie e distruzioni – in cui l’Armata Rossa aveva preso possesso dell’Ungheria con il proposito ipocrita di “liberare” il Paese ma, in realtà, occupandolo e saccheggiandolo e favorendo poi la nascita del nuovo regime con tutte le inevitabili e pesanti conseguenze sul piano politico, sociale ed ecclesiale.

Trent’anni prima – si era al culmine della prima tremenda guerra mondiale – il giovane József era divenuto sacerdote.

La vita del Cardinale fu, sin dagli inizi, intessuta di fede cristiana e di amore per la propria terra e il proprio popolo. Lo testimonia anche il cambio di cognome, avvenuto nel 1914, e che lo porterà ad essere associato in modo indelebile al suo villaggio d’origine, Mindszent, nella campagna ungherese.

La sua biografia ci dice che era nato da una famiglia profondamente cristiana dove ogni giorno, al tramonto, si raccoglievano tutti, genitori e figli, a pregare la Madonna con il Rosario; il padre era contadino e viticoltore ma anche impegnato nella vita politica e sociale del suo paese. Decisivo fu, in particolare, il ruolo educativo della madre.

“Nella nostra casa regnava silenzioso – racconterà ormai anziano – l’amore di una madre intelligente e buona, che ci circondava di calore, di protezione e, assieme al talento e all’attività di mio padre, costituiva per noi un esempio luminoso… Una profonda e serena religiosità spingeva mia madre a insegnare a me e ad altri ragazzi del villaggio a servir messa…” (József Mindszenty, Memorie, Milano 1975, pagg. 9-10).

Il Cardinale Mindszenty, in tutta la sua vita, ha così personificato e fatto fiorire il battesimo che aveva ricevuto e che fedelmente ha tradotto di giorno in giorno in un’esistenza segnata dal coraggio, dall’onestà e da un amore indiviso – senza “se“ e senza “ma” – verso Dio e verso il suo popolo. La repressione e la persecuzione, le prolungate ed umilianti prigionie, il domicilio coatto non riuscirono mai a “silenziarlo” e ad allontanarlo dalla verità e dall’amore.

Il rito e il sacramento del battesimo – anche il nostro (non dimentichiamolo!) – è fatto di rinunce e di promesse. E così deve essere la nostra vita nella quale siamo ogni giorno chiamati a dire no al peccato, alle seduzioni e alle opere di Satana (origine di ogni peccato) e a dire il nostro “sì” per confermare e testimoniare la nostra fede in Dio – che è Padre, Figlio e Spirito Santo – e la nostra appartenenza alla sua Chiesa.

Umanamente parlando, Mindszenty passò attraverso tante “sconfitte” eppure risultò sempre, alla fine, il vincitore di tutte le menzogne e violenze fisiche e psichiche e dei vari opportunismi degli uomini di cui fu oggetto e, più volte, arrivò ad affermare che la sua tenace resistenza ai suoi aguzzini presupponeva il perdono. Non si preoccupò, insomma, delle minacce che gli provenivano dal di fuori ma attinse continuamente alla sua forza interiore umana, culturale e spirituale, di fede per restare libero e fedele alla sua chiamata e alla sua missione, per continuare a crescere come uomo, come cristiano e come pastore e così proseguire ad evangelizzare.

Costante era il suo riferimento alla Vergine Maria, in relazione anche e soprattutto all’identità più vera e profonda del popolo ungherese, al punto che una volta, nel corso dell’anno mariano indetto per il 1947/48, si rivolse ai fedeli con questa esortazione: “Le giornate mariane devono rinvigorire l’autocoscienza cattolica: rimanete cattolici e ungheresi… Siate ungheresi, popolo di Santo Stefano e della Madre di Dio!”. È l’invito caloroso che, con le sue parole, mi permetto, oggi, rivolgere anche a voi.

Attento alla vita morale e di fede dei giovani, incoraggiò il clero e la comunità ecclesiale a favorire e guidare pellegrinaggi ai santuari mariani. In uno di questi, sempre in quell’anno mariano, rifletteva così: “Quando l’uomo si inchina davanti alla potenza e alla sublimità di Dio, allora cresce in dignità. Io non temo affatto che la grandezza dell’uomo venga messa in pericolo dalle esigenze di Dio. Temo piuttosto per l’uomo a motivo dell’uomo…”. Parole lucide e di straordinaria attualità, soprattutto in questi nostri giorni.

Il suo essere “Primate d’Ungheria” è stato vissuto in una costante identificazione con il popolo a cui fu inviato e “legato” in modo fortissimo. E le sue stesse vicende personali hanno ben rappresentato e riassunto le vicende, i drammi e il “calvario” del nobile popolo ungherese e di quella parte d’Europa che è stata a lungo sotto il dominio di matrice stalinista.

Uomo evangelicamente libero, fu grande difensore della libertà, della libertà religiosa e di coscienza in modo particolare, negli anni in cui si sviluppava la “via crucis” del cattolicesimo ungherese con la nazionalizzazione delle scuole cattoliche; la sempre più ridotta e, via via, annullata possibilità di offrire un’educazione religiosa ai giovani, lo scioglimento degli ordini e delle congregazioni religiose e il procedere verso una concezione materialista del mondo e della vita. E non cessò di denunciare, fino alla fine, la mancanza di queste libertà fondamentali.

Il quadro che offrirà, ancora nel 1974, non ha bisogno di ulteriori commenti: “La libertà di coscienza e di religione garantita nella costituzione in pratica viene negata. L’insegnamento facoltativo della religione è stato messo al bando dalle scuole della città e dei centri più importanti… La gioventù viene educata esclusivamente secondo uno spirito ateo contro la volontà dei genitori. I fedeli sono sottoposti a discriminazioni in molti settori della vita quotidiana. Recentemente gli insegnanti e le insegnanti credenti sono stati posti di fronte all’alternativa di scegliere tra la loro professione e la loro fede…” (József Mindszenty, Memorie, Milano 1975, pag. 372).

Quanto dobbiamo avere a cuore la libertà e quanto è importante – lo dico soprattutto ai molti giovani presenti – saper dire dei “sì” e saper dire dei “no” in fedeltà al Vangelo di Gesù e al nostro battesimo, da autentici testimoni e, quindi, martiri.

Altrettanto importante è difendere e promuovere la libertà di educazione di una società. Il pensiero cattolico riconosce lo Stato e il suo ruolo in campo educativo ma evidenzia soprattutto il concetto di sussidiarietà in cui il depositario del diritto-dovere dell’educazione resta prima di tutto la famiglia, che va sostenuta in questo suo compito dallo Stato anche nel poter esercitare veramente un’effettiva libertà di scelta. Richiamare e richiedere maggiore libertà di educazione non è mai una lotta confessionale ma una battaglia per il pluralismo, per il bene e per la stessa laicità – una sana laicità – di una società.

Negli ultimi anni della sua vita il Cardinale Mindszenty certamente pagò – con la sua persona sempre più “scomoda” e il suo trasferimento dalla forzata residenza nell’ambasciata americana di Budapest prima a Roma e poi, più tardi, a Vienna – il prezzo e le conseguenze di una particolare visione politica e della conseguente diplomazia, ma questo è ben noto a tutti. Fu il tempo del suo “esilio definitivo”. Ma non vennero mai meno la comunione, l’ammirazione, l’affetto e la stima della Chiesa nei suoi confronti.

Desidero qui ricordare come nel 1971, in occasione dell’apertura del Sinodo dei Vescovi, il santo Papa Paolo VI lo chiamò a concelebrare con lui la S. Messa e lo definì “glorioso testimone”, “esempio di intrepida fermezza nella fede e di infaticabile servizio alla Chiesa, con l’opera generosa dapprima, e poi con un vigile amore, con la preghiera e con una prolungata sofferenza”.

Ho provato, poi, una forte emozione leggendo nelle memorie del Cardinale Mindszenty un episodio che risale proprio a quei tempi romani: «Nella basilica di S. Paolo mi si avvicinò un sacerdote, mi prese la mano, la baciò, mi ringraziò per le sofferenze che avevo sopportato per la Chiesa e alla fine mi disse: “Sono il cardinale Siri” (Siri è stato a lungo il mio Arcivescovo, a Genova, e proprio lui mi ha ordinato sacerdote). Profonda impressione mi fecero le visite ai cardinali… In S. Pietro celebrai una messa di ringraziamento sulla tomba di Pio XII» (József Mindszenty, Memorie, Milano 1975, pag. 362).

Ormai ottantenne ma ancora forte e fiero (e finalmente libero di muoversi), infine, intraprese numerosi viaggi in varie parti del mondo per continuare quella che definì la sua “missione di salvezza”“cercare le anime, consolarle e aiutarle” – per tenere viva la speranza, specialmente tra gli ungheresi esuli e lontani dalla patria, e parlare a tutti di Gesù Cristo, ossia di quella Verità e di quell’Amore che avevano riempito e sostenuto continuamente la sua vita e la sua fede.

Con le parole di Pietro nel Vangelo proclamato poco fa, con tutti gli Apostoli e i Santi della Chiesa d’Ungheria e della Chiesa universale, in particolare con Santo Stefano re d’Ungheria, spinti ed esortati dalla testimonianza eloquente di santità del Cardinale Mindszenty, anche noi – giunti pellegrini oggi ad Esztergom – vogliamo confessare con forza: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,69).

La Vergine Maria, Patrona Hungariae, Madre di Dio e Madre nostra, ci conceda di confermare ogni giorno e di far fiorire la grazia del nostro battesimo. E ottenga dal Signore per il nostro mondo il dono della pace, della giustizia, del perdono e della riconciliazione.