Omelia del Patriarca nella S. Messa di indizione della Visita Pastorale (Mestre - Chiesa parrocchiale Sacro Cuore, 15 ottobre 2017)
15-10-2017

S. Messa di indizione della Visita Pastorale

(Mestre – Chiesa parrocchiale Sacro Cuore, 15 ottobre 2017)

 Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

  

 

Carissimi,

nella lettera Incontro al Risorto vi scrivevo, annunciando l’imminente Visita pastorale, che lo scopo di questo importante atto ecclesiale è “crescere tutti – pastori e fedeli – nella comunione reciproca e, soprattutto, verso il Signore Gesù, partendo dalla carità e dalla verità del Vangelo” (Francesco Moraglia, Lettera pastorale Incontro al Risorto, Marcianum Press 2017, pag. 8).

 

Perciò questo è, innanzitutto, tempo di conversione: il Vangelo appena ascoltato ci chiede d’indossare l’abito nuziale e ci ricorda che “molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). Per rimanere all’immagine della parabola, dobbiamo guardare allo sposo come a chi dà senso alla nostra vita: solo lo sposo, infatti, rende tale la sposa e accende il suo cuore. L’anelito missionario, a ben vedere, è il frutto di un cuore che ama.

 

A tutti affido una consegna: fare in modo che le collaborazioni pastorali, le parrocchie non più chiuse in se stesse e i vicariati, secondo il metodo del cenacolo che è espressione della Chiesa-comunione fondata sul battesimo, diventino soggetti evangelizzati ed evangelizzanti. E, secondo la logica del piccolo seme di senapa, crescano e diventino arbusti capaci di accogliere e dare ristoro a quanti sono oppressi, affaticati e feriti dalla vita, offrendo loro Gesù, la Sua parola, la Sua misericordia.

 

Si tratta di passare da una Chiesa di prestazioni o servizi offerti – secondo alcuni addirittura retribuiti – ad una Chiesa di relazioni umane e sacramentali ove la collaborazione diventa corresponsabilità e comunione.

 

Prendere su di sé tale mandato arricchisce e fa che le nostre comunità diventino terreno buono dove il seme caduto produce anche il centuplo (cfr. Mt 13, 1-23); tutto ciò è richiesto e reso possibile dal battesimo.

La Visita è, certamente, un importante punto d’arrivo ma, soprattutto, è punto di partenza; non è e non vuole essere qualcosa di calato dall’alto, piuttosto è e sarà il frutto di un cammino sinodale, ossia fatto insieme agli altri, lungo la medesima via, secondo i criteri di una fede profondamente radicata nella comunione ecclesiale.

È un mandato che dice fiducia, che incoraggia e contiene indicazioni, con qualche inevitabile correzione. E tutto in spirito di comunione ecclesiale col Vescovo.

È importante, allora, vivere la comunione fraterna fondandola sul Signore, radicandosi nella carità e nella verità del Vangelo. Il dialogo-annuncio di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Sicar è modello di ogni altro incontro e annuncio evangelizzatore.

 

Leggiamo, infatti, in Amoris laetitia che Gesù alla donna rivolse ”una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Amoris laetitia, n. 294).

 

Gesù pone alla donna una domanda che non pare pertinente e, invece, proprio da tale domanda avrà inizio il suo cammino di conversione che la porterà a essere evangelizzatrice del suo popolo: “«Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta!»” (Gv 4, 16-19).

 

La comunione tra pastori, fedeli e consacrati/e va costruita a partire da un rapporto col Signore fatto di amore, verità, di perdono: riscopriamo, nelle nostre comunità, la preghiera del Padre nostro recitato col cuore.

 

Il Santo Padre ci invita a essere comunità missionarie superando ogni forma di ripiegamento. Ci chiede di essere testimonianze gioiose, comunità in uscita che abitano le periferie non solo economiche (opere di misericordia corporali) ma anche morali (opere di misericordia spirituali), impegnate dove manca la luce del Risorto.

 

“Ogni Chiesa particolare, (…) sotto la guida del suo Vescovo, è (…) chiamata alla conversione missionaria… è il soggetto dell’evangelizzazione, in quanto è la manifestazione concreta dell’unica Chiesa in un luogo e in essa «è veramente presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica». È la Chiesa incarnata in uno spazio determinato, provvista di tutti i mezzi di salvezza donati da Cristo, però con un volto locale. La sua gioia di annunciare Gesù Cristo si esprime – continua il Papa – tanto nella sua preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali. Si impegna a stare sempre lì dove maggiormente mancano la luce e la vita del Risorto. Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto – conclude Francesco – anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma” (Papa Francesco, Lettera enciclica Evangelii gaudium, n. 30).

 

Le nascenti collaborazioni pastorali – e non solo loro – sono chiamate, secondo il metodo del cenacolo, ad operare questo discernimento, questa purificazione, questa riforma.

 

La Visita pastorale coinvolge il Vescovo, i presbiteri, i diaconi, le persone consacrate, i laici; camminare in maniera sinodale – insieme – è già un reale segno di conversione e testimonianza ecclesiale.

 

La Visita pastorale – dice il Direttorio dei Vescovi – è azione apostolica che il Vescovo compie verso la sua Chiesa, animato da carità pastorale, in cui egli si rende presente come principio e fondamento visibile dell’unità (cfr. Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi “Apostolorum successores”, n.220).

 

Camminare insieme – sinodalmente – ci porterà ad amare e curare le nostre comunità con uno sguardo non solo più evangelico (Gesù manda i discepoli a due a due Cfr. Lc 10,2) ma anche più attento al territorio (gli altri) recando la buona notizia del Vangelo, ossia Gesù stesso.

 

La Chiesa e le Chiese particolari, quale legame?

 

Alla Chiesa di Dio che è a Corinto (1Cor 1,2 e 2Cor 1,1): così san Paolo inizia le due lettere ai cristiani di quella città. Per l’Apostolo la Chiesa universale è presente nella Chiesa particolare (la Chiesa diocesana).  

 

L’Apostolo così testimonia una tradizione che sarà ripresa da san Ignazio (107 d.C.), da Origene e negli atti del martirio di Policarpo: la Chiesa universale è presente nelle Chiese particolari – le Diocesi – senza essere il risultato della loro somma.

 

È attraverso le Chiese particolari (Diocesi) che si dà la Chiesa universale; la Chiesa universale è quindi nelle Chiese particolari – nella nostra Chiesa particolare – a partire da esse (Ecclesia in et ex Ecclesiis). Solo però nella comunione con la Chiesa universale le Chiese particolari sono autentiche (Ecclesiae in et ex Ecclesia).

 

La Chiesa universale vive nelle Chiese particolari: per questo, in ogni Eucaristia si menziona il Papa e il Vescovo esprimendo così la comunione ecclesiale di cui Papa e Vescovo, nella successione apostolica, sono i garanti.

 

Il termine comunione esprime bene l’ecclesiologia del Vaticano II, insegnamento che è ripreso dal magistero post-conciliare.

 

L’Eucaristia al centro delle nostre comunità

 

Carissimi, tutto parte dall’Eucaristia. Siamo perciò chiamati a riscoprire la Chiesa-comunione a partire da ciò che la costituisce, ossia l’Eucaristia; l’Eucaristia è strettamente legata al ministero ordinato del Vescovo e dei preti, ossia al sacerdozio ordinato e posto a servizio del sacerdozio comune dei battezzati.

 

Il legame eucaristia / ministero ordinato / battesimo si attua nella Chiesa universale che – come detto – vive in ogni Chiesa particolare (la Diocesi). Sì, nella Chiesa particolare i cenacoli si comprendono a partire da tale logica; essi sono il soggetto ecclesiale che bene esprime, nelle nostre comunità, la Chiesa intesa come popolo di Dio e comunione.

 

Nel gesto sacramentale dell’ultima Cena – compiutosi sulla croce – Gesù, spezzando il pane, dà attraverso i Dodici – una volta per sempre – il potere alla Chiesa di ripetere tale gesto in Suo nome e in Sua memoria.

 

È, quindi, dall’Eucaristia che nasce la Chiesa e gli Apostoli – con l’imposizione delle mani – trasmetteranno il potere che, a loro volta, hanno ricevuto da Gesù. Sarà bello vedere come le nostre comunità – adulti, giovani, bambini – durante la Visita pastorale sapranno crescere in questa consapevolezza e gioiosa gratitudine: è Gesù-Eucaristia che “fa” la Chiesa, solo dopo vengono i nostri gesti. È, quindi, Cristo che incessantemente edifica nell’Eucaristia la Sua e la nostra Chiesa; diamo, quindi, nelle nostre comunità più spazio, attenzione e importanza alla celebrazione e all’adorazione eucaristica.

 

Nella comunione col Vescovo i presbiteri – mandati alle differenti comunità della Diocesi – rendono presente la cosa più preziosa, l’unica Messa iniziale; è la Chiesa, attraverso l’imprescindibile ministero ordinato dei Vescovi e dei presbiteri, che rende attuale (qui e ora) la comunione con Cristo (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione “Communionis notio”). Questa è la Chiesa-comunione, questa è la Chiesa-popolo di Dio, questa è la Chiesa di Cristo.

 

Si comprende allora – come già detto – perché in ogni Eucaristia si menzioni il Papa e il Vescovo; non è un fatto di cortesia formale ma di sostanza, perché così si esprime la realtà della comunione ecclesiale nella successione apostolica che, alla fine, ci unisce al Signore Gesù. C’è vera Eucaristia là dove c’è vera Chiesa e, viceversa, c’è vera Chiesa dove si dà una vera Eucaristia.

 

Così la Visita pastorale, ben prima delle questioni amministrative, deve verificare e far crescere tale comunione; in ultima istanza, deve suscitare la fede e l’amore-carità perché, nella Chiesa, tutto procede proprio dalla fede e dall’amore-carità in cui si radica ogni altro gesto del discepolo.

 

Quali priorità?

 

Priorità della Visita pastorale è vivere la sacramentalità della Chiesa, ossia riscoprire il rapporto con Gesù, unico Salvatore – “via, verità e vita” (Gv 14,6) -; in tal modo le collaborazioni pastorali e le parrocchie – servendosi del metodo del cenacolo – esprimono la loro profonda realtà ecclesiale.

 

Non si tratta, quindi, di assegnare ruoli o incarichi ma di riscoprire e vivere il sacramento del battesimo; la Chiesa non è un’azienda o una fondazione, ma il grande sacramento universale di salvezza, ossia il segno salvifico di Cristo.

 

Il discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste – è il primo annuncio cristiano nella storia – avviene sotto l’influsso dello Spirito Santo e ha un centro che è Gesù risorto annunciato dalla Chiesa, ossia da Pietro, dagli apostoli, dalle donne: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole… Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni(At, 2, 22.32). Pietro dice “noi”; non io, noi, ossia la Chiesa. E questo anche se Pietro era stato posto da Gesù come il fondamento.

 

L’annuncio della Pasqua è il compimento storico della rivelazione. La Chiesa da sempre vive tale annuncio e mai dovrà vergognarsene, anche quando – come oggi – risulta “politicamente non corretto”.

 

Il discorso di Pietro a Pentecoste, poi, contiene una domanda che mantiene tutta la sua attualità anche per noi oggi: «Che cosa dobbiamo fare…?» (At 2, 37). La risposta è sempre la stessa: vivere secondo questa fede e non più secondo le logiche degli uomini, il cosiddetto senso comune.

 

Bisogna entrare nell’esistenza battesimale, che è vita in Cristo: Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2, 38). Questo invito ritorna con forza al termine del Vangelo di Marco, a noi particolarmente caro, che si esprime così: Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16).

 

Per le nostre comunità il progetto è: vivere il battesimo con gioia, con semplicità e con amore, vigilando perché tale gioia, semplicità e amore non si trasformino in “imparaticci” umani scivolando dalla gioia, semplicità e amore del Vangelo alla gioia, alla semplicità e all’amore del mondo. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14,27).

 

Nella pastorale ordinaria l’annuncio della Parola deve ricentrarsi sulla persona di Gesù. Questo vale per l’omelia domenicale, per il primo annuncio ai lontani, per la catechesi dell’iniziazione cristiana ma, anche, per la catechesi agli adulti, tutte realtà che oggi vanno ripensate nel nostro contesto sia a livello personale sia comunitario e, qui, ritorna l’importanza dei cenacoli; la Visita pastorale chiedo che segni per le nostre comunità questo cammino. Dobbiamo aiutarci reciprocamente: Vescovo, preti, diaconi, consacrati/e, fedeli sposati e laici.

 

L’annuncio cristiano non è di tipo intellettuale e neanche psicologico e socio-politico: il Vangelo coincide, piuttosto, con Gesù e la sua Parola che rimane per sempre. L’evangelizzazione non può pensarsi, solo o prima di tutto, come questione linguistica e culturale; sarebbe una grave ingenuità o distorsione della questione della salvezza.

 

La Parola di Dio – lo ricorda il profeta Ezechiele – ci apre uno scenario del tutto diverso: Non [ti mando] a grandi popoli dal linguaggio astruso… dei quali tu non comprendi le parole; se ti avessi inviato a popoli simili, ti avrebbero ascoltato, ma la casa d’Israele non vuole ascoltare te, perché non vuole ascoltare me: tutta la casa d’Israele è… di cuore ostinato. Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia. Non li temere, non impressionarti davanti a loro; sono una genìa di ribelli” (Ez 3,6-9).

 

Certo, la fede non è una lista di precetti. Ma evitiamo, per piacere, che si riduca ad annuncio generico, reticente o mondanizzato. Anche noi – come il profeta – dobbiamo superare il timore che può prendere ogni evangelizzatore, ossia la “prudenza” della carne di cui parla l’apostolo Paolo (cfr. Rm 8, 5-13).

 

Papa Francesco, in un’omelia, ha affermato: «Giovanni e Pietro sono stati portati al Sinedrio, dopo la guarigione dello storpio, e i sacerdoti hanno proibito loro di parlare di questo nome di Gesù, della Resurrezione; loro con tutto il coraggio, con tutta la semplicità, dicevano: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”, l’annuncio». Ed ecco: «Noi cristiani per la fede abbiamo lo Spirito Santo dentro di noi, che ci fa vedere e ascoltare la verità su Gesù, che è morto per i nostri peccati ed è risorto. Questo è l’annuncio della vita cristiana: Cristo è vivo! Cristo è risorto! Cristo è fra noi nella comunità, ci accompagna nel cammino» (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 24 aprile 2016).

 

Carissimi, facciamo nostro questo invito del Papa e chiediamoci se, nel nostro servizio ecclesiale, siamo reticenti o addirittura silenziosi quando dovremmo avere, invece, il coraggio di testimoniare – con le parole e con la vita – Gesù.

 

Al termine del lungo discorso eucaristico (che molti dei presenti giudicarono “duro”), Gesù disse agli apostoli: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Immaginiamo con quanta tristezza disse quelle parole… eppure le disse!

 

Oggi preparare e amministrare i sacramenti – battesimo, prima comunione, confermazione, matrimonio, unzione dei malati, riconciliazione e aggiungo anche la celebrazione dei funerali -, molto più che per il passato, diventa un vero e proprio gesto missionario.

 

Attualmente, nella vita cristiana e liturgica, non si deve dare nulla per scontato; i sacramenti dell’iniziazione sono diventati vere opportunità per incontrare genitori, nonni, zii, familiari, amici e, in essi, molti “lontani”.

 

Ci vuole più amabilità e pazienza di una volta. Più la fede della gente è fragile e traballante, più si lascia guidare da criteri umani. E così da parte di un parroco, di un diacono o di una catechista si richiede prima di tutto di saper accogliere e ascoltare con spirito fraterno, senza nascondere le bellezze e le esigenze del Vangelo.

 

In tal modo, in una comunità, molto dipende dal modo in cui si è accolti: bisogna saper incontrare, dedicare tempo, cercare di andare incontro alle persone con la carità che annuncia la verità del Vangelo. Un’accoglienza cordiale – magari inattesa o addirittura “simpatica” – può segnare una svolta nella vita di una persona, portandola a rivedere i suoi precedenti giudizi o, appunto, pregiudizi.

 

Qui – e so che non è facile – un presbitero, soprattutto un parroco, ogni tanto deve sapersi fermare; l’episodio evangelico di Marta e Maria è emblematico (cfr. Lc 10,41-42). Bisogna, allora, saper discernere i gesti specifici del ministero ordinato e aprirsi con fiducia e prudenza alla formazione di un laicato corresponsabile. E qui ritorna la logica del cenacolo.

 

La celebrazione sacramentale poi, non deve vederci protagonisti in modo autoreferenziale; né noi né le nostre comunità dobbiamo inventare una “nostra” celebrazione. Dobbiamo essere, con le parole e lo stile, umili servitori della preghiera di Cristo e della Chiesa (“Gesù Cristo prega per noi, prega in noi, è pregato da noi” – Dal «Commento sui salmi» di sant’Agostino / Salmo 85, 1; CCL 39, 1176-1177). Servitori “inutili” ma necessari, come ci chiede il Vangelo (cfr. Lc 17, 10).

 

L’atto liturgico sacramentale – posto dal Vescovo e dai presbiteri in comunione con lui, a favore di tutta la comunità – è momento ecclesiale e non di un gruppo; è evento di grazia in cui Vescovo e presbiteri sono chiamati, nella fede e con l’autorità ricevuta, a porre il gesto con cui Gesù continua a donarsi alla sua Chiesa: Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue… io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo… io ti assolvo dai tuoi peccati…”. E tutto questo è compiuto a favore del popolo, senza il quale il sacerdozio ordinato non si potrebbe nemmeno spiegare.

 

Conclusione

 

Pietro e Giovanni, nella loro corsa a sepolcro, come vi scrivevo nella lettera Incontro al Risorto (cfr. pagg. 53-58), sono immagine viva dei discepoli che, in ogni tempo, senza indugio, vanno incontro al Signore vincitore della morte. Non si attardano, non si lasciano attrarre o distrarre da altro; vanno all’Essenziale, al Signore Gesù.

Sì, Pietro e Giovanni sono immagine della Chiesa fedele che guarda al Signore risorto; stanno vivendo l’esperienza della comunicazione di tale Evento reale che provocherà in loro stupore, gioia e, alla fine, il dono di sé. E tale esperienza la fanno come Chiesa, non da soli; insieme si recano al sepolcro e proprio nel loro andare insieme ci dicono cos’è la Chiesa.

Giovanni arriverà per primo al sepolcro ma non entrerà; attenderà Pietro e, solo dopo di lui, entrerà. Anche in quel loro attendersi dicono comunione, condivisione, corresponsabilità; dicono, insomma, il loro essere Chiesa. Pietro e Giovanni vanno al sepolcro con forze, età, sensibilità e ministeri ecclesiali diversi. La loro corsa, però, li accomuna e perciò si attendono.

Diventano segni evidenti di una Chiesa che procede “sinodalmente” verso il Signore Gesù. Una Chiesa che crede, ama e si esprime attraverso piccole comunità – come anche quelle di cui Voi fate parte – che, con i suoi membri, procede in spirito di comunione e tenendo fisso lo sguardo sul Risorto.

Carissime e carissimi, ciascuno e ciascuna di Voi – insieme con le Vostre comunità – sappia associarsi a questa splendida corsa – fatta di fede e di amore e… di comunione – per guardare con gioiosa speranza a Lui, il Signore.

 

Nel momento in cui viene indetta la Visita pastorale vi propongo, infine, questa testimonianza di sant’Agostino che sempre, sin da quando ero ragazzo, mi ha affascinato e interrogato; è una testimonianza che affido alla vostra carità, sapendo di poter contare sulla vostra preghiera affinché la Visita pastorale aiuti a fare delle nostre comunità – per usare proprio l’espressione di Agostino – una Chiesa “piena”.

 

Leggiamo nell’ottavo libro delle Confessioni che sant’Agostino si imbatteva in una Chiesa “piena”, “aperta” e “libera” che, in questo suo modo d’essere, offriva agli uomini e alle donne che ne facevano parte – ai giovani e agli anziani che la costituivano – percorsi propri. E all’interno dell’unica comunione ecclesiale e dell’unica fede custodita con amore, ognuno si muoveva secondo il suo dono.

 

È questa l’esperienza che Agostino – ancora pagano – fa nell’estate del 384, giungendo a Milano (disilluso) da Roma. Ai suoi occhi si presenta una Chiesa “piena”, “aperta” e “libera” perché fondata su una forte comunione di cui – in un’epoca di profonde divisioni ecclesiali – il Vescovo Ambrogio era il comune garante, il comune padre della fede. In lui si esprimeva la certezza della successione apostolica: il Vescovo rappresentante della sua unità, resa visibile in modo particolare nella celebrazione dell’unica Eucaristia.

 

Domandiamo, per intercessione della Madonna della Salute e la preghiera dell’evangelista Marco, che la Sacra Visita – per la nostra Chiesa che è in Venezia – diventi cammino verso questa “pienezza”, “apertura” e “libertà”.

 

Sotto la guida del Signore Gesù incamminiamoci verso questa “pienezza”, “apertura” e “libertà” in modo che ognuno possa mettere a servizio degli altri i suoi doni e così, da tale scambio, nasca una Chiesa – Vescovo, presbiteri, diaconi, consacrati e laici – capace di annunciare la bellezza, la ricchezza e la forza del Vangelo che salva.

 

Tutti camminiamo, nella carità e verità del Vangelo, verso il Signore Gesù che viene! Tutti camminiamo, insieme, incontro al Risorto! E se qualcuno fatica… andiamogli incontro, prendiamogli la mano e lasciamo che la sua mano prenda la nostra.