Omelia del Patriarca nella S. Messa della solennità del patrono San Marco Evangelista (Venezia, Basilica Patriarcale di San Marco - 25 aprile 2018)
25-04-2018

S. Messa nella solennità del patrono San Marco Evangelista

(Venezia, Basilica Patriarcale di San Marco – 25 aprile 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Cari fratelli e sorelle,

anche quest’anno affidiamo la nostra amata città di Venezia e tutte le genti venete alla protezione dell’evangelista Marco, soprattutto raccomandando tutti coloro – nessuno escluso – che vivono nei nostri territori.

Un grazie per la loro presenza alle autorità, in particolare al Sindaco e al Prefetto. Come cittadini – soprattutto oggi, data importante per la nostra vita civile – diciamo loro vicinanza e lealtà; come cristiani assicuriamo il bene più grande che abbiamo, la nostra preghiera.

Oggi – solennità dell’evangelista Marco – esprimo la mia gratitudine a Papa Francesco perché, nella recente esortazione apostolica Gaudete et exsultate, ci ha voluto ricordare il fine e le esigenze del Vangelo partendo dall’Inizio di tutto, cioè Gesù, il Vangelo in persona.

Ecco le sue parole: “Gesù (…) il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di una esistenza mediocre, annacquata, inconsistente…” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, n. 1).

Sì, Gesù è il Vangelo in persona che ci domanda non qualcosa ma tutto e ci offre in cambio la vera vita, la felicità; in una parola, ci vuole “santi”. E così, fin dall’inizio dell’esortazione, il Papa indica il cuore e il fine del Vangelo.

Siamo ormai alla vigilia del Sinodo dei Vescovi sui giovani; per l’intercessione dell’evangelista Marco chiediamo che i nostri ragazzi possano scoprire la bellezza e il fascino della santità che nasce dal Vangelo.

È ancora vivo in me, e in quanti vi hanno partecipato, il ricordo del pellegrinaggio ad Assisi in cui oltre 2200 – ragazzi e ragazze “della cresima” della nostra Diocesi, accompagnati da genitori, sacerdoti, catechisti, insegnanti di religione ed educatori – si sono recati ad Assisi, la città di Francesco e Chiara. Ancora una volta i giovani ci hanno mostrato che sono terra buona per il seme della Parola; non so se noi adulti siamo sempre dei buoni seminatori… È necessario, però, che trovino testimoni della fede che propongano loro percorsi di vita. È stato un gesto significativo, in vista del Sinodo sui giovani, di cui ringrazio il Signore e tutte le comunità parrocchiali che si sono attivate per tempo.

Come sappiamo, la Chiesa – con l’eucaristia – intende dire il suo grazie al Padre per i doni che ha ricevuto e tale ringraziamento è rivolto al Padre essenzialmente per il dono di Suo Figlio Gesù. Luoghi particolarmente significativi, per tale rendimento di grazie, furono quelli in cui i martiri – i testimoni per eccellenza – avevano unito il loro sì a quello di Cristo tanto che un luogo di culto legato in modo certo ad un martire, in assenza di altre testimonianze sicure su quel martire, ne attesta l’esistenza.

Già nella prima lettera ai Corinti, Paolo riferisce ciò che aveva appreso al momento della sua conversione e, quindi, a metà degli anni trenta del I secolo: «…ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (1Cor 11, 23-25).

L’eucaristia è, per la Chiesa, momento fondante, fa parte del suo DNA ed è il gesto ecclesiale per eccellenza, un gesto che deve convertire la vita dei discepoli e, quindi, delle comunità.

Quando non fu possibile celebrare in tali luoghi, si volle mantenere un vivo legame con questi testimoni e così nei nuovi altari si murarono le reliquie dei martiri, i primi santi riconosciuti dalla Chiesa.

La nostra bella basilica cattedrale, dedicata a san Marco, fu costruita proprio per dare degna accoglienza alle spoglie dell’evangelista giunte, secondo la tradizione, in modo alquanto travagliato in città; l’altare sorge proprio sui resti mortali dell’evangelista martire, testimone, santo.

Dona sempre emozione sentire proclamare il Vangelo di Marco sotto le volte della nostra splendida Basilica, come poco fa abbiamo sentito: <<E disse loro: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato…”. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano>> (Mc 16, 15-16.20).

Ci uniremo poi alle preghiere rivolte a Dio per intercessione dell’evangelista. Sulle offerte eucaristiche – il pane e il vino – fra poco sentiremo dire: “Accogli, Signore, il sacrificio di lode che ti offriamo nel ricordo glorioso di san Marco, e fa’ che nella tua Chiesa sia sempre vivo e operante l’annunzio missionario del Vangelo” (Preghiera sulle Offerte).

L’edificio-chiesa, allora, non è solo uno spazio funzionale per accogliere la comunità ma luogo sacro che entra in rapporto con l’assemblea che celebra la liturgia. Il rischio è cadere in un funzionalismo non più in grado di intendere il linguaggio simbolico e, prima ancora, la dimensione simbolica della realtà; alla fine, è l’incapacità dell’uomo a porsi le domande più vere e profonde che lo riguardano.

Percepire ciò che ci circonda, nel suo significato simbolico, è importantissimo a livello religioso per la comunità cristiana ma lo è già sul piano umano, per la comunità civile; il simbolo, infatti, rimanda a qualcosa che va oltre la materialità, oltre l’efficienza, oltre la produzione, oltre il guadagno e dice la capacità dell’uomo di andare verso una realtà ulteriore e anche verso un “Oltre” che, alla fine, mi dice chi sono e chi è l’uomo, la sua capacità di trascendersi e qual è il fine della convivenza sociale e civile.

L’evangelista Marco raccoglie e trasmette la predicazione dell’apostolo Pietro, colui che Gesù scelse per confermare i fratelli nella fede. Quello di Marco è il Vangelo più breve e si caratterizza per uno stile essenziale e una forma, talvolta, rude; è il Vangelo di un testimone, è il Vangelo per chi proviene dal paganesimo, il Vangelo di sempre.

Marco domanda a chi si accosta al suo Vangelo di vivere con tutto il cuore l’esperienza di Gesù morto e risorto, di andar oltre la conoscenza teorica perché non basta leggere il Vangelo o far l’esegesi di un testo; sarebbe addirittura fuorviante leggerlo male e cioè far dire alla Parola di Dio quello che uno porta già in sé.

Del Vangelo ci si nutre e poi si lascia che la Parola ci assimili. Tale parola risulterà dolce e amara; dolce perché Parola di salvezza, amara perché annuncia le tribolazioni interiori ed esteriori dei discepoli. Marco non fu solo evangelista, annunciatore del Vangelo, ma anche martire!

Bisogna, quindi, entrare in comunione con Gesù, la sua persona, la sua vicenda, la sua storia. Ricordiamo il veggente dell’Apocalisse: «…mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10, 9-10).

Il discepolo entra in tal modo in un cammino che coinvolge la totalità della sua persona che viene letteralmente “afferrata”; tra il termine “discepolato” del Nuovo Testamento e il termine “alleanza” dell’Antico vi è uno stretto legame.

Il Vangelo di Marco è una sorta di guida per catecumeni che – passo dopo passo – vengono accompagnati al fonte battesimale. La pericope appena ascoltata appartiene alla chiusura del Vangelo; è l’invio in missione: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16, 15-16).

Qui si esplicita il legame tra fede e battesimo, tra Parola e sacramento. E sempre a partire da quanto appena detto, ovvero il Vangelo di Marco è un cammino personale, una sorta di “manuale” del catecumeno che conduce al battesimo. Ma rimaniamo catecumeni, tutti e sempre. Il catecumenato è un percorso simile ad un esodo spirituale che segna, per ogni discepolo, il passaggio dall’esteriorità all’interiorità.

Gesù non lo possiamo osservare da lontano, come pretendeva Zaccheo che voleva vedere Gesù che passava senza esser visto (la furbizia umana prima della conversione). Gesù lo vediamo quando rispondiamo al suo sguardo d’amore, quando lo guardiamo da vicino lasciandoci coinvolgere con tutta la nostra persona; vedere Gesù così come Gesù è e non come noi lo immaginiamo o vorremmo che fosse. Quante volte questo accade e quante volte sentiamo e vediamo fuorvianti devianze nella lettura della figura di Gesù…

Marco, nel suo Vangelo, propone quindi il cammino del discepolato, non una lettura “intellettuale” o da scuola; si diventa discepoli entrando nell’interiorità, andando oltre una comprensione dell’evento cristiano che sia solo esteriore – ossia umana, psicologica e sociopolitica – per giungere alla conoscenza interiore di Gesù attraverso un reale ascolto della Parola, entrando nella storia della salvezza, lasciandoci condurre dalla Parola e non conducendola noi.

Il cammino che propone Marco è – secondo il linguaggio biblico – un esodo del cuore, un esodo interiore ma non per questo meno reale.

Lo stile di Gesù si esprime, in modo emblematico, nelle parabole che rivelano custodendo; sì, rivelano custodendo il mistero da eventuali sguardi irriverenti o solo curiosi. Le parabole proteggono il mistero e lasciano che si manifesti, dischiudendo il progetto di Dio; alla fine, soltanto chi ha lo sguardo del discepolo può leggere in profondità, ossia in prospettiva sapienziale, il mistero di Gesù e – questo avviene unicamente se ci lasciamo coinvolgere personalmente, a partire dalla preghiera che nasce dal silenzio.

È quindi entrando in rapporto personale con Gesù, l’unico Maestro, che il progetto di Dio su di noi si chiarisce e, più ci inoltriamo nel Suo progetto crescendo nella fede dei poveri di Israele, la fede di Abramo e soprattutto di Maria di Nazareth, più comprendiamo ciò che prima non aveva senso e rimaneva oscuro e incomprensibile e che ora, seppur non in modo scontato e automatico, si apre alla fede e, fra tenebre e bagliori, ci fa cogliere in modo nuovo quanto prima risultava enigmatico o assurdo e ora, invece, entra a far parte del  mistero, ossia del dono di Dio.

È la professione di fede che Marco pone sulle labbra del centurione che, ai piedi della croce, rappresenta ciascuno di noi nel suo cammino personale e catecumenale verso il Signore Gesù: «Il velo del tempo si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a Lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”» (Mc 15, 38-39).

Marco apre un cammino inaugurando il genere “Vangelo” e prendendoci per mano ci conduce all’incontro con Gesù, ovvero ci fa suoi discepoli.

Affidiamo allora noi stessi, le nostre comunità e tutta la nostra Chiesa che è in Venezia all’intercessione dell’evangelista e martire Marco.

Invochiamo ancora la sua protezione su tutti coloro che vivono ed operano nei nostri territori. E rivolgiamo una preghiera ardente anche per il nostro Paese – soprattutto in questi giorni politicamente faticosi ma così importanti per il bene comune – affinché sappia discernere e, quindi, sappia percorrere le strade, oggi necessarie, per vivere nel bene comune, nella giustizia e nella pace.

Il mottetto, che fra poco ascolteremo all’offertorio, inizia con le parole: “Quasi leo fortissimus nullum pavens occursum, idola subvertitet gloriam Domini gentibus annuntiavit. Alleluja!“. Che significa: “Fortissimo come un leone senza temere alcuna avversità, rovescia gli idoli e annuncia a tutte le genti la gloria del Signore. Alleluja!”.

Il leone diventa l’immagine di una fede che non teme di affrontare gli idoli, iniziando da quelli del proprio cuore, e che annuncia la gloria e il Signore!

A tutti coloro che portano il nome di Marco, a tutti i veneziani e a tutte le genti venete vada l’augurio di guardare all’evangelista Marco ma, soprattutto, di lasciarsi guardare da lui.

Ringrazio per la sua presenza il Vescovo emerito di Lismore (Australia) mons. Geoffrey Hylton Jarrett che concelebra quest’eucaristia.

Buon San Marco a tutti!