Omelia del Patriarca nella S. Messa della IV domenica del Tempo di Pasqua nel Santuario di S. Maria Assunta a Borbiago di Mira (3 maggio 2020)
03-05-2020

S. Messa nella IV domenica del Tempo di Pasqua

nel Santuario di S. Maria Assunta a Borbiago di Mira (3 maggio 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

ancora una volta, e speriamo per poco, ci incontriamo grazie ai mezzi di comunicazione. Viviamo questa Eucaristia sperando, presto, di tornare a vivere la celebrazione comunitaria.

In questa domenica del “Buon Pastore” siamo chiamati a conoscere come Gesù sia il vero e unico Buon Pastore a cui tutte le nostre comunità sono chiamate a guardare. Ne consegue la preghiera affinché noi preti possiamo essere capaci di rendere presente Gesù Buon Pastore tra la nostra gente, sia sul piano umano che sul piano sacramentale.

Non è un richiesta sentimentale: c’è la consapevolezza che, sia sul piano umano che sul piano spirituale, il sacerdote è il segno di Gesù in mezzo al popolo. Se non riusciamo a fare questo e anche se abbiamo fatto tante altre cose, abbiamo fallito.

Un prete che pensa come Gesù, che parla come Gesù, che agisce come Gesù, è il dono più grande che una comunità possa ricevere da Dio; camminare con la propria gente non scandendo il passo secondo il senso comune ma secondo il sentire e la verità di Dio.

Sì, abbiamo bisogno di questo, di recuperare il senso di Dio, soprattutto in questo tempo in cui – come abbiamo visto – è diventato “facile” morire, in questo tempo in cui abbiamo visto che tutti siamo fragili, in questo tempo in cui abbiamo imparato che dobbiamo ripartire non come nulla fosse accaduto ma facendo tesoro della lezione dura che ci ha impartito la pandemia da Covid-19.

Il Buon Pastore è dunque chiamato a fare, con la sua comunità, una sintesi tra vita e fede. La fede o è capace di intercettare la storia – di abitare la storia e un territorio – o è una pura astrazione mentale. Quanti cristiani si sono smarriti, non sono stati incapaci più di rigenerarsi – anche avendo alle spalle magari un passato glorioso – e sono caduti in una fede intellettualistica che parla molto, ad oltranza, e finisce per parlarsi addosso!

Cosa diventerà il cristiano se non ama una fede concreta? Diverso è il confronto ideale, il dialogo fecondo, tra fede e ragione, tra fede e cultura, tra fede e territorio. Altra cosa è, invece, disquisire parlandosi addosso, tutto affidando e confidando nella propria cerchia sempre più ristretta e anziana e incapace di rigenerarsi.

Gesù, nel Vangelo odierno (Gv 10,1-10), pone se stesso come la porta. Per gli ebrei la porta per eccellenza era quella che li introduceva nel Tempio, la casa di Dio; pensiamo ai salmi “dell’ascesa”, che si cantavano nell’ascesa verso Gerusalemme dove ci si recava ad offrire il sacrificio pasquale.

Forse mentre Gesù parla – e dice quello che Giovanni riporta al capitolo decimo – sta proprio guardando uomini e donne che entrano nella porta del Tempio detta “delle pecore”: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le pecore conoscono me» (Gv 10,14). E Gesù ha l’ardire inaudito di porre se stesso – la sua persona – come la vera porta, cioè come l’accesso obbligato per l’incontro con Dio.

Questa è la “pretesa” cristiana, a cui nessuna modernità può dire qualcosa. “Io sono”: il testo di Giovanni è chiaro. Gesù si pone, allora, come il criterio ultimo per leggere la storia e la propria vita, la storia del mondo e quella della Chiesa.

La seconda lettura – tratta dalla prima lettera di san Pietro Apostolo (1Pt 2,20-25) – termina con un pensiero che siamo invitati a trasformare in criterio di discernimento. E questo criterio, guardate bene, è ancora Gesù: «Siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1Pt 2,25).

I dialoghi delle settimane precedenti – Gesù con la donna samaritana, Gesù con il cieco nato, Gesù con Tommaso, Gesù con i discepoli di Emmaus – sono sostituiti nella prima lettura odierna con il dialogo-annuncio dell’apostolo Pietro alla casa di Israele (e che, quindi, rivolge anche a noi) nella festa di Pentecoste.

Si tratta del primo discorso – il primo annuncio – che la Chiesa rivolge al mondo. Questo è un discorso su cui dovremmo sempre ritornare perché è un discorso paradigmatico e fondante tutti gli altri discorsi che verranno dopo; è un discorso insuperabile, è un discorso normativo, è il discorso della Pentecoste. Un po’ come la preghiera del Padre nostro che è una preghiera paradigmatica; ogni preghiera cristiana non può non contenere l’animus del Padre nostro.

Questo è il discorso dell’apostolo Pietro, pre-scelto per essere fondamento degli altri apostoli; è il discorso della Pentecoste, cioè il discorso pronunciato quando la Pasqua giunge a maturazione. Vale quindi la pena di mettere a fuoco i punti caratteristici destinati a rimanere nel tempo.

Pietro è il “Buon Pastore” quando parla: usa la carità della verità. E usa la carità della verità che noi pastori dobbiamo usare sempre per dire Gesù, per dirlo chiaramente, per dirlo con speranza, ponendo un annuncio. Gesù non è un “codicillo” della pastorale o della predicazione o della vita cristiana: è il centro! Dio, dice Pietro, ha posto come Signore e Messia «quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Sì, Pietro ha il coraggio di dire la verità! E la verità è di nuovo Gesù.

Secondo punto dell’annuncio di Pietro è il richiamo: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri pecccati…» (At 2,38. Fatevi battezzare: non c’è cristianesimo se non c’è conversione, se non c’è conversione battesimale.

La conversione battesimale deve portare il cristiano e deve portare la comunità cristiana ad esprimere una fede amica dell’uomo, di tutto l’uomo, di ogni uomo. E i mesi che ci stanno davanti ci chiedono di essere cristiani e comunità responsabili. Non saranno mesi facili. Saranno mesi in cui saremo chiamati alla responsabilità, alla solidarietà, a ripensare le nostre convivenze e il nostro modo di stare insieme e di essere “città”, di essere “comunità”.

Il cristiano sa che il suo essere cittadino nasce da una idealità, da una visione che trae forza dal suo rapporto con il Vangelo: questa è la caratteristica cristiana. Si tratta, quindi, di avere una visione ed anche la forza per attuarla. Mi fermo solo su questo punto: avere una visione. Significa essere portatori di un discernimento. Questo deve fare il cristiano, questo deve fare la comunità cristiana.

La ragione economica e la visione sociale fanno parte dei “saperi” umani. Il cristiano non ha nulla contro la razionalità economica, ma la considera una parte – ripeto una parte – della razionalità umana. Non considera l’economia come il tutto o come un assoluto. Nel risolvere, allora, i problemi – che siano questioni mediche, scientifiche, economiche, i bilanci dello Stato – deve subentrare la responsabilità politica, in quanto l’economia è solo un aspetto dell’attività umana e della polis. Se i bilanci, il rigore e il profitto diventano il criterio ultimo allora l’uomo diventa un mezzo e non più un fine e se l’intero sistema economico, sociale e culturale, opprime l’uomo allora l’uomo non è più un mezzo, ma un fine.

Ne consegue che il welfare (oggi pensiamo soprattutto all’attenzione verso il sistema sanitario ma non solo… pensiamo al lavoro e al benessere dei cittadini) sarà qualcosa che verrà dopo il criterio dell’economia. Capite? Verrà dopo, dopo, dopo… E abbiamo visto con quali risultati!

Pensiamo all’impreparazione nell’affrontare la pandemia, non tanto nel conoscere un virus, che poteva essere anche legittima e logica (un virus può essere sconosciuto) e non parlo dell’impreparazione di uno Stato, ma di tutti gli Stati, che siano europei o americani. Non avrebbero potuto prevedere qualcosa di più? Non avrebbero potuto prevenire non dando l’impressione di correre di volta in volta ai ripari? Non è questo un discorso politico, ma umano e antropologico. E, ripeto, non parlo di uno Stato specifico ma di tutti gli Stati perché Covid-19 non fa differenze tra G7 o G20, tra un continente e l’altro!

Uno Stato, un sistema economico o finanziario, un sistema di welfare, che hanno regole proprie, sono in realtà parti di un tutto più grande, di cui questi sono una componente. Ciò che è fondamentale, allora, è la visione di uomo che abbiamo! Quando si assiste ad una crisi finanziaria e ad una crisi economica, le ragioni vanno ricercate nella visione complessiva, non solo nella finanza e nell’economia, perché queste si muovono all’interno di scelte culturali e politiche ben precise.

E allora, cari amici e care amiche che vi riconoscete nella fede cristiana, il Vangelo ha un pensiero sociale, un pensiero sociale cristiano, che vuole valorizzare l’economia, la finanza e l’organizzazione dello Stato e il welfare, ma all’interno di una visione dell’uomo che non è mezzo, ma è fine, soprattutto se è un uomo debole, soprattutto se è una persona fragile. Ecco perché sentiamo il bisogno di dare il nostro contributo perché l’economia, la finanza e lo Stato si muovano con leggi proprie e autonome, ma non come degli assoluti.

Così, in altre parole, economia, finanza e organizzazione dello Stato vanno letti, vanno interpretati, vanno connessi con la centralità della persona, con il principio della proprietà privata (certo) ma all’interno di un principio di solidarietà, di un principio di destinazione universale dei beni e di un principio di sussidiarietà, in una scelta preferenziale per gli ultimi.

Ecco la sfida della ripartenza che non può essere ridotta solo ai distanziamenti, alle mascherine e ai guanti che sono certamente doverosi e obbligatori e che dicono il senso di responsabilità di una comunità. Ma non bastano.

Come successe dopo la seconda guerra mondiale. Dopo le tante sofferenze che avevano segnato gli anni dal 1940 al 1945 e dopo le sofferenze che avevano preparato la guerra, l’Italia ha saputo ripartire con una Costituzione in cui si metteva in chiaro una ben precisa visione dell’uomo.

Ricordo – e vorrei parlarne più a lungo, ma lo accenno soltanto – il “Codice di Camaldoli”, frutto di pensatori cristiani non intellettualoidi, ma che pensavano ad una fede che intercettasse l’uomo e l’economia. Hanno voluto ripartire, questi intellettuali, non dalla pura economia o dalla pura finanza (eppure alcuni di loro erano degli economisti); non hanno voluto ripartire solo da una riorganizzazione efficiente della macchina statale ma da una visione della persona. E quindi hanno voluto costruire una convivenza diversa da quegli anni tragici che i nostri nonni e i nostri genitori hanno dovuto vivere. Hanno messo al centro la persona nei rapporti familiari, politici, sociali. È stata l’Italia della speranza!

Il Buon Pastore sa testimoniare davanti alla sua comunità un amore vero, concreto e reale, un amore per la sua gente, per la sua terra, per il suo tempo, per il suo territorio, che non sia critico, ma costruttivamente critico, non facile al parlare, ma capace di proposte, in cui si mette in gioco e mette in gioco la sua comunità.

Martin Luther King diceva: «I have a dream» (Io ho un sogno). Ma ha lasciato la vita per quel sogno. Noi abbiamo troppe persone che sognano e poi mandano avanti gli altri a realizzare quei sogni…

Gesù si è presentato a noi, nel Vangelo di oggi, come il pastore che precede, incalza e sospinge il gregge; non lascia sole le pecore, apre loro la pista, rischia e sfida l’incognito. Questo è il modo con cui il pastore ama Dio: «Mi ami… Pasci le mie pecore» (cfr. Gv 21).

Oggi è la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, è la giornata in cui ricordiamo l Seminario. Oggi entrare in Seminario richiede coraggio, richiede libertà d’animo, richiede un amore grande per il Signore, per la Chiesa, per tutte le persone. Non per le persone di una certa categoria, di un tipo o di un altro, ma per tutte le persone. Certo: avendo sempre una preferenza per i poveri, i sofferenti e gli emarginati, perché hanno più bisogno.

Chiediamo, allora, oggi di avere in dono dei preti. Fare il prete oggi non è sinonimo di crescita sociale, come lo è stato talvolta, purtroppo, in passato. Il Seminario è di tutti, il prete è di tutti. Amiamo perciò di più il nostro Seminario e affidiamolo con la preghiera, più spesso, alla Madonna della Salute.

La Basilica della Madonna della Salute a Venezia – il santuario a noi tanto caro – è anche, dal 1817, la cappella del nostro Seminario. A Lei, a Maria, che veneriamo con il titolo di Madonna della Salute e in questo Santuario come la Madonna di Borbiago, affidiamo il nostro Seminario e i nostri cari seminaristi.

Buona domenica e… coraggio! I mesi che ci stanno davanti saranno affascinanti perché difficili. E le cose difficili rendono felici. Buona domenica a tutti.