Omelia del Patriarca nella S. Messa della Carità con gli operatori delle realtà di volontariato e dei servizi caritativi della Diocesi (Chiesa parrocchiale S. Maria Ausiliatrice / Gazzera, 17 dicembre 2016)
17-12-2016

S. Messa della Carità

con gli operatori delle realtà di volontariato e dei servizi caritativi della Diocesi

(Chiesa parrocchiale S. Maria Ausiliatrice / Gazzera, 17 dicembre 2016)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

 

 

Desidero, intanto, ringraziare la comunità parrocchiale che ci ospita, don Ottavio, don Luigi e don Valentino che hanno accolto subito e volentieri la richiesta di poter celebrare qui la Messa della Carità nella quale chi opera, ogni giorno in Diocesi, a favore delle necessità del prossimo si incontra per preparare il Natale.

I testi della liturgia che abbiamo ascoltato ci sono di grande aiuto perché – come avete sentito – il tema comune delle tre letture di oggi è la fede. La fede è il caso serio del cristiano perché il nostro rapporto con il Signore – prima di essere un rapporto di speranza e di carità – è rapporto di fede. E la nostra carità e la nostra speranza dipendono dalla fede. L’uomo e la donna di fede, la comunità credente, fanno certe cose che non farebbero se non avessero la fede. E la fede provoca la carità.

I santi hanno saputo fare certe cose che noi non sappiamo fare, non possiamo fare, non riusciamo a fare non perché erano più belli di noi, non perché erano più intelligenti di noi o perché avevano studiato più di noi, ma perché credevano più di noi. Erano uomini, donne, comunità che avevano una grande fede. La speranza è sostenuta dalla fede, noi speriamo le cose che crediamo.

Com’è facile, camminando per le vie di questo mondo, smarrire il fine della nostra vita! Certe volte noi non vogliamo pensare alla fine della nostra vita e ci adoperiamo – quasi ci confondiamo – nel fare tante cose. La nostra società, ad esempio, ha rimosso la morte e l’ha messa da parte; sogna una vita indefinita, continua, e si illude.

Mi ha fatto riflettere il fatto che uno dei più noti medici del nostro tempo, alla fine della vita, ha detto: io sono uno sconfitto, perché pensavo di depennare il cancro e non ce l’ho fatta… Ecco il sogno di un uomo invincibile. La scienza, però, ci dice che, scoperte alcune terapie, che prima non si conoscevano, il male si “specializza” e va oltre; è, quindi, nella natura corporale dell’uomo giungere alla fine. Noi speriamo le cose che crediamo e, molte volte, perdiamo il filo della vita; ci confondiamo pensando di essere immortali. Noi siamo chiamati alla risurrezione, che è un’altra cosa.

Le letture di oggi, ormai nell’imminenza del Natale, ci pongono in modi diversi il tema della fede. Acaz – prima lettura, del profeta Isaia, otto secoli prima di Cristo – non ha il coraggio di credere. L’alternativa di Acaz è: credi alla parola del profeta che ti parla in nome di Dio e ti dà un segno? La Vergine concepirà un figlio, questo è il segno di Dio ma… no, Acaz preferisce le alleanze umane. Traduciamo tutto questo nel nostro tempo: noi preferiamo la cultura dominante – le culture dominanti – o almeno siamo tentati da esse, dalle risposte della scienza e della tecnica… Non voglio dire che la scienza e la tecnica non abbiano valore, intendiamoci, ma non sono la risposta ultima dell’uomo.

Possiamo dire, quindi, che Acaz è “mondanizzato” e preferisce le alleanze umane; affida a delle alleanze umane la salvezza di Israele – lui era re di Giuda – e si alleerà con altri re non accettando il segno che Dio gli dava promettendogli la salvezza. La fede – lo dicevo prima – è il caso serio del cristiano e ci vuole coraggio nel credere; è una scelta, è un rischio, è un fidarsi, è un consegnarsi nelle mani di Dio.

San Paolo – abbiamo letto il prologo della lettera ai Roman che è il suo capolavoro – parla dell’apostolo come di colui che deve annunciare la fede; parlerà anche di obbedienza della fede e di suscitare l’obbedienza della fede. La fede, allora, da una parte è coraggio e dall’altra parte è anche obbedienza. Sì, Signore: parla perché il tuo servo ti ascolta.

La Sacra Scrittura non ci è data per esprimere una cultura teologica o esegetica o per far vedere che sappiamo un po’ di ebraico o di greco… Noi dobbiamo leggere la Sacra Scrittura come il libro con cui Dio fa direzione spirituale al popolo di Israele, Dio fa direzione spirituale all’umanità, direzione spirituale a me oggi: questa è la “lettura credente” della Bibbia.

Il coraggio di credere, dunque, e la fede come obbedienza, perché chi non obbedisce a Dio finisce per obbedire o al suo brutto carattere o agli uomini. C’è una bella frase di un autore che vi consiglierei di leggere, Chesterton: da quando l’uomo ha smesso di credere, finisce per credere a tutte le cose.. Quante volte ci è capitato di sentire nei telegiornali quanto vale il sommerso del mondo esoterico (i maghi, le maghe…); più si perde la fede, meno si obbedisce a Dio e più si diventa superstiziosi e creduloni. L’obbedienza della fede – di cui parla Paolo – ci libera e ci rende forti.

E poi il Vangelo: noi siamo abituati, molte volte, a dare grande sottolineatura al “sì” di Maria, ma oggi abbiamo ascoltato il “sì” di Giuseppe! E questo è molto bello, perché nel momento in cui il figlio di Dio si fa uomo, ha bisogno di due “sì”: quello di Maria e quello di Giuseppe. Maria e Giuseppe dispiegano un coraggio forte. Maria conclude l’incontro con Dio e con l’angelo dicendo: ecco, sono la serva del Signore. E Giuseppe accetta una paternità che lui stesso non riusciva a comprendere fino in fondo, che gli avrebbe creato dei problemi e che non sarebbe stata capita. Ecco perché il Vangelo ci dice: attenzione quando tutti parleranno bene di voi… La fede è mandata al mondo attraverso i profeti, i testimoni, le comunità cristiane ma non è del mondo.

Se Dio entra nella mia vita e io pretendo di incapsulare Dio nella mia vita, nei miei pensieri, nei miei progetti, nei miei programmi, allora io distruggo Dio. Vi ricordate la pagina del Vangelo che dice: guai a pensare di cucire delle toppe di panno buono su indumenti vecchi… si spacca il vestito. E guai a mettere vino nuovo in otri vecchi, si spaccheranno gli otri… Non possiamo costringere Dio nei nostri progetti e nei nostri pensieri.

Dio cambia la vita di Giuseppe e Maria, non sono loro a cambiare la vita di Dio ma Giuseppe e Maria cambiano la loro vita perché accolgono Dio, non secondo i loro piccoli progetti umani  ma nella fede.

Ci auguriamo allora – e lo auguriamo soprattutto agli operatori della carità – di essere prima di tutto, per poter essere uomini e donne di carità, uomini e donne di fede perché la fede è l’inizio del nostro rapporto personale con Dio. Nel circolo virtuoso di fede, speranza e carità, proprio nel crescere in queste tre virtù siamo portatori del Dio della verità, della pace, dell’amore.

Chiediamo che chi opera nella nostra Chiesa particolare e serve il prossimo sia uomo di fede, donna di fede, comunità di fede per poter essere  uomo, donna e comunità di vera speranza e di vera carità. Buon Natale a tutti!