Omelia del Patriarca nella S. Messa del Crisma (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 18 aprile 2019)
18-04-2019

S. Messa del Crisma

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 18 aprile 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi presbiteri, fratelli e sorelle,

in occasione della Messa crismale il nostro ricordo affettuoso, in attesa di poterlo incontrare, innanzitutto va a Papa Francesco che portiamo sempre nella nostra preghiera. Mi rivolgo poi a voi presbiteri per dirvi grazie per il servizio che offrite alle comunità cui siete mandati.

Un pensiero cordiale va ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai fedeli laici, ringraziandoli per la loro partecipazione a questa celebrazione in cui si rinnovano le promesse sacerdotali e vengono benedetti i sacri oli: il crisma, l’olio dei catecumeni e l’olio degli infermi.

La Messa del Crisma ha un significato particolare nella vita della Chiesa, perché dice il ruolo insostituibile del sacerdozio ordinato e, nello stesso tempo, esprime la comunione ecclesiale. Infatti, i battesimi, le confermazioni, le unzioni dei malati e le ordinazioni che verranno celebrate nella nostra Chiesa particolare si serviranno proprio degli oli benedetti oggi dal Vescovo, segno visibile dell’unità nella Chiesa diocesana di cui è il Sacerdote originario.

Come prima cosa, desidero ricordare con affetto i confratelli che, dallo scorso Giovedì santo, il Signore ha chiamato a sé: don Aldo Marangoni, mons. Sergio Sambin, don Tarcisio Ghiotto, don Carlo Enzo.

Ricordiamo anche i confratelli anziani e malati, con i quali nei giorni scorsi mi sono fatto presente. Una particolare preghiera per chi, tra noi preti, vive momenti di difficoltà spirituale verso di sé, verso il presbiterio (confratelli e vescovo), verso il prossimo e verso Dio. Riscopriamo tutti la bellezza di un sacerdozio in sintonia con le promesse dell’ordinazione.

Insieme diciamo il nostro grazie a Dio per il dono stupendo del sacerdozio. Sì, il Giovedì santo – termine della Quaresima e inizio del sacro Triduo – è giornata sacerdotale e tempo favorevole per affidarci alla Misericordia del Padre, chiedendo perdono dei nostri peccati, della nostra inadeguatezza, dei nostri limiti; tutti avvertiamo la nostra mediocrità come qualcosa che ci limita e segna purtroppo il nostro ministero e quanti ne fruiscono.

George Bernanos ne “La grande paura dei benpensanti” scriveva: “…uno dei principali responsabili, forse, dell’avvilimento delle anime è il sacerdote mediocre”. E, allora, partendo dal pensiero di Bernanos chiediamoci: da cosa nasce la mediocrità? La risposta è: da un amore che ama molto sé e poco gli altri, dall’aver smarrito la verità nella propria vita, in primis nei propri confronti; mancanza d’amore e di verità verso Dio, verso il prossimo, verso di sé. D’altra parte, l’amore è la richiesta ripetuta da Gesù a Pietro per ben tre volte (cfr. Gv 21, 15-17), il che vuol dire che l’amore non ha limiti.

Nel “Diario di un curato di campagna” Bernanos riporta il dialogo tra la contessa e il curato: «”[la contessa] L’amore è più forte della morte, così sta scritto nei vostri libri” – [il curato] “Non lo abbiamo inventato noi l’amore: ha il suo ordine, la sua legge” – [la contessa] “Dio ne è padrone” – ” [il curato ] Non è il padrone dell’amore, è l’amore stesso. Se vuole amare non si metta fuori dell’amore”… – [la contessa] “Le infedeltà di mio marito, l’indifferenza di mia figlia, la sua ribellione: è niente tutto questo…” – [il curato] “Signora, le parlo in quanto prete secondo i lumi che mi sono dati… Sono giovane ma non ignoro che esistono molte famiglie come la sua o più infelici ancora…» (George Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori 2014, p.135).

Cari confratelli, questa conversazione è illuminante: il Vangelo ci chiede che il parlare dell’apostolo sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno (cfr. Mt 5,37) che agisce nelle tenebre, a volto coperto, e opera per dividere mentre la verità – ci dice Gesù – libera (cfr. Gv 8,32) innanzitutto da noi stessi.

La mediocrità si sconfigge, allora, nutrendosi della Parola di Dio.  «”Hai detto bene, Maestro, e secondo verità – rispose lo scriba a Gesù –, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”… Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”» (Mc 12,32-34).

Qui Gesù parla di verità, intelligenza, amore; non di bonarietà o furbesca diplomazia quando si dice non dicendo oppure non si dice dicendo o, ancora, si dice qualcosa confondendo. Così si dimentica che la verità, in quanto tale, ha una sua forza propria.

Sempre nel “Diario di un curato di campagna”, il parroco di Torcy ragiona e discute col giovane confratello sulla verità: «Quando incontri sulla tua strada una verità, guardala bene in modo da poterla riconoscere, ma non aspettarti che ti faccia l’occhiolino. Le verità del Vangelo non lo fanno mai. Con le altre verità, quelle che non sai mai dire esattamente dove hanno bazzicato prima d’arrivarti, le conversazioni a tu per tu sono pericolose… Tuttavia – precisa ulteriormente –, se per caso ho un’idea – di quelle che potrebbero tornare utili alle anime… – cerco di portarla davanti al buon Dio, la riverso subito nella preghiera. Ed è da non credere come cambia d’aspetto. Non la riconosco più certe volte…» (George Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori 2014, p.41).

Amore, verità e preghiera: questo è l’antidoto contro la mediocrità. Così, un prete che ama con forza e intelligenza (le due cose vanno sempre insieme), e prega, sa riconoscere il bene ovunque sia e sa ringraziare Dio per chi è migliore di lui; è bello saper riconoscere che ci sono giovani o anziani, mamme o papà e anche confratelli migliori di noi, in cui c’è più generosità, semplicità, pazienza, fede e carità.

Quando sappiamo riconoscere – anche con un po’ di fatica – il bene presente nell’altro, allora c’è il vero amore, la vera virtù, la vera umiltà, le condizioni per costruire non una virtuale ma una concreta pastorale condivisa, di reale comunione; allora si dà spazio al confratello, non ci si ferma più a dibattiti un po’ inconcludenti su questioni ecclesiastiche.

Ancora una volta, vogliamo dire grazie al Signore perché noi preti, in quanto membri del popolo di Dio (in forza del battesimo), fruiamo per primi del ministero dei confratelli ed è vera grazia, per un prete (e anche per le persone che a lui si rivolgono), avere una guida saggia, un vero padre spirituale che non sia solo buono ma che sappia, al tempo opportuno e con prudenza, individuare le vie da intraprendere sul piano umano e sacerdotale.

Noi preti abbiamo bisogno di un aiuto spirituale particolarissimo perché il nostro ministero ci chiede di prenderci cura degli altri, tanto nell’ordinarietà della loro vita quanto nei momenti più difficili e delicati per una persona, una famiglia, una comunità. Oggi il servizio sacerdotale è più impegnativo che nel passato e – come dice Papa Francesco – si svolge sempre più nelle periferie, non solo materiali ma spirituali.

Chiediamo, quindi, al Signore che nel presbiterio fioriscano tali padri spirituali, un po’ monaci, un po’ missionari, persone di preghiera capaci di decidere ciò che è giusto nel momento opportuno, con coraggio e carità. Chi non decide sbaglia e mette in difficoltà chi verrà dopo di lui.

Per tale paternità non basta l’efficientismo decisionale, non basta conoscere la teologia e neanche possedere una forte e calda umanità; ci vuole la santità che non si improvvisa e ci è data con la preghiera prolungata, affrontando la vita serenamente, senza spirito polemico o aggressività, sapendo perdonare e soprattutto stando alla presenza di Dio. E si tratta di vincere il protagonismo di chi cerca visibilità improprie o ha il complesso del primo della classe.

Il presbitero e il vescovo, seppur in modi diversi, sono pastori ma – è bene ricordarlo – rimangono anche e sempre “pecorelle” del Signore; solo Gesù è vero e unico pastore. Nella sua prima lettera Pietro parla di Gesù come del “pastore delle nostre anime” (1 Pt 2,25); la lettera agli Ebrei lo presenta come “il grande pastore delle pecore” (Eb 13,20).

Avere consapevolezza che noi siamo, insieme, pastori e pecorelle del Signore, ci aiuta a crescere e a diventare più pastori, ad esserlo secondo il cuore di Gesù e come Lui ci vuole, plasmati di carità e verità, autorevoli quanto miti ed umili di cuore.

La verità disgiunta dalla carità non è più la verità del Vangelo, perché può diventare crudele; la carità disinteressata della verità non è più carità cristiana perché, alla fine, mente a se stessa e inganna gli altri.

Il criterio, allora, è il Vangelo colto anche nelle sue pagine difficili e scomode o, come oggi si sottolinea, non politicamente corrette; il Vangelo, se non si legge tutto ma scegliamo versetti o pagine “consone”, equivale a non leggerlo. Perché o la Parola di Dio ci trasforma o noi trasformiamo la Parola di Dio magari attraverso nostre personali esegesi che, alla fine, combaciano col nostro pensiero o con il pensiero dominante e mondanizzato, con il politicamente corretto che paga sempre.

Il nostro grazie a Dio per il sacerdozio si fa ancora più grande quando guardiamo ai nostri limiti. Ci capita infatti d’incontrare, nelle nostre comunità, uomini e donne – papà e mamme – ma anche dei giovani che esprimono una umanità migliore della nostra, forse poco loquaci nel parlare ma eloquenti nelle scelte di vita.

Le promesse battesimali ed anche quelle sacerdotali chiedono d’esser vissute. Nella lettera ai Romani, si parla di obbedienza della fede, (cfr. Rm 1,5); obbedire deriva da “ascoltare” ma… io ascolto? E chi ascolto? Come ascolto, quando ascolto? Perché sono infiniti i modi di chiamarsi “sostanzialmente” fuori rimanendo, però, solo “formalmente” legati alla promessa fatta; questo è vero nel matrimonio, nella famiglia, nella comunità civile, nella Chiesa, nel ministero ordinato.

Il celibato, cari confratelli, richiede la “castità” del cuore, della mente, della parola, del comportamento, dello stile di vita; significa non impossessarsi di alcuno. Nell’accompagnamento spirituale farsi carico delle persone significa semplicemente indicare a loro Dio e i fratelli e se si capisse che questo non avviene, allora, bisogna affidare prontamente quelle persone a chi, per loro, può fungere da vero padre.

Così il nostro sacerdozio si purifica, si rinnova e, soprattutto, cresce in noi e con noi, perché essere preti è una conquista continua e quotidiana, non facile, è impegno che dura tutta la vita; lo testimoniano quanti, e non sono pochi anche nel nostro presbiterio, l’hanno provato. Non è cosa facile, ma rende felici!

È, quindi, essenziale per noi, ministri ordinati (vescovi, presbiteri e in tutt’altro senso i diaconi), essere fedeli al Vangelo che annunciamo. Le nostre parole e i nostri gesti generano vita? Tale domanda, oggi, nella Chiesa s’impone con grande serietà.

Per essere fedeli al nostro sacerdozio dobbiamo fare attenzione a non essere preti loquaci quando parliamo agli altri e muti quando le stesse cose le dobbiamo dire a noi. Ripeto che noi pastori non possiamo dimenticare che siamo pastori ma rimaniamo anche e sempre pecorelle del Signore.

Non possiamo, poi, parlare, di vita fraterna o di pastorale condivisa, prescindendo dalle scelte concrete e senza metterci la faccia; per esempio, non invitando mai un confratello a presiedere un’eucaristia perché o è troppo giovane o troppo anziano o troppo diverso da noi o perché noi siamo migliori.

Il Giovedì santo, gli esercizi spirituali, il ritiro mensile, la confessione sacramentale devono aiutarci a crescere; capita invece che quando si è giovani si criticano gli anziani e, poi, quando si diventa anziani, si criticano i giovani e mai si arriva a scandire il proprio nome!

uesdtQuestQQ Le promesse sacerdotali ci invitano, così, a riflettere sul sacerdozio in quanto tale, andando oltre l’ufficio del momento; siamo invitati a guardare al dono del sacerdozio in quanto tale.

Fra poco ci sarà chiesto se si vuole “essere fedeli dispensatori dei misteri di Dio per mezzo della santa Eucaristia e delle altre azioni liturgiche, e adempiere il ministero della parola di salvezza sull’esempio del Cristo, capo e pastore, lasciandovi guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i vostri fratelli?”. Questa è la promessa sacerdotale fondamentale che va vissuta nella comunione ecclesiale; il resto, se c’è questo, viene spontaneamente ma, se questo manca, allora tutto è vana acrobazia che prelude ad una triste caduta.

Cari confratelli, consideriamo bene il ministero della parola, curiamo l’omelia e prepariamola soprattutto con la preghiera. Ogni parola può essere parola di grazia, per noi e per gli altri, e di ogni parola detta o taciuta ci sarà chiesto conto. Predichiamo con l’esempio, dovunque siamo mandati, anche negli ambienti più refrattari: nel quartiere più difficile, a scuola, nel mondo del lavoro, negli ospedali, con le persone trasgressive, nell’arduo impegno di favorire la convivenza sociale senza acuire le divisioni, nell’evangelizzazione di strada, nell’affrontare le vecchie e nuove povertà.

Papa Francesco – che ricordiamo con affetto – ci indica le periferie, materiali e spirituali come “luoghi privilegiati” della pastorale. Le periferie sono quegli spazi materiali e spirituali dove sono aperte le ferite profonde degli uomini e delle donne del nostro tempo; sono gli ambienti refrattari all’annuncio cristiano, dove è più difficile pronunciare il nome di Gesù e dove è più necessario farlo.

Ricordo la nuova esortazione apostolica Christus vivit di Papa Francesco, che indica i giovani come risorsa e campo privilegiato del nostro ministero e di cui voglio citare le prime parole: “Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo. Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita. Perciò, le prime parole che voglio rivolgere a ciascun giovane cristiano sono: Lui vive e ti vuole vivo!” (Papa Francesco, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit, n. 1).

Sì, siamo chiamati a testimoniare il Vangelo, persuasi che il nostro mondo ha bisogno di Gesù più di ogni altra cosa, poiché Gesù è il progetto di Dio sull’uomo; è Gesù che contiene in sé la vera umanità, di cui il nostro mondo non sa d’aver bisogno perché non l’ha ancora conosciuto o l’ha già dimenticato.

L’annunzio si fa con la parola, col comportamento e accettando d’esser minoranza, ossia di non contare agli occhi degli uomini. E noi preti siamo chiamati all’annuncio del Vangelo a prescindere dal risultato raggiunto, ossia accettando anche il rifiuto e, se del caso, il disprezzo.

Non dimentichiamo, poi, chi ci ha preceduti sulla via dell’impopolarità e del rifiuto non venendo meno nell’impegno ad annunciare la verità anche quando si deve parlare su temi scomodi che non si vogliono nemmeno sentire enunciare.

Sì, il prete è anche chiamato all’impopolarità che – è ovvio – non va ricercata ma, se necessario, va accettata; i numeri e l’audience non sono il criterio della verità o il criterio di riuscita del ministero o di un ministro (potrebbero, anzi, essere la sua condanna..). E questo lo dice la storia della salvezza che va avanti attraverso il “resto d’Israele”; il Vangelo è custodito proprio da minoranze.

In forza dell’ordinazione, il prete sa di dover rimanere nella comunione ecclesiale; è segno di Gesù come lo furono il Curato d’Ars, nella Francia postrivoluzione e postnapoleonica, don Giovanni Bosco nella Torino risorgimentale e della prima disumana industrializzazione, Filippo Neri e Giovanni della Croce negli anni della riforma protestante e, infine, don Puglisi e don Diana nelle odierne Sicilia e Campania della mafia e della camorra. E tutto perché vollero rimanere fedeli a ciò che erano diventati per sempre con l’ordinazione presbiterale.

Concludo con un breve passo di una più ampia riflessione–preghiera di Karl Rahner, fatta alla vigilia della sua ordinazione presbiterale: “…poi il Vescovo mi imporrà le mani sul capo senza dire neppure una parola. In questo silenzio, simile a quello di una notte di Natale o di Pasqua – dum silentium tenet omnia –, la tua parola onnipotente e l’ardore del tuo Spirito mi trasformeranno in un prete del tuo Figlio, mio Signore. Scenderà su di me il tuo Spirito, il dono di Dio, che non è uno spirito di timidezza, ma uno spirito di forza, di amore, di saggezza (2Tm 1,6-7), lo Spirito – continua padre Rahner – che fa diventare preti, ministri del tuo sacrificio e testimoni della tua parola, lo Spirito che ci strappa da noi stessi e rende la nostra vita parte viva del sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo” (Karl Rahner, Preghiera di un candidato la sera precedente l’Ordinazione presbiterale, in Leonardo Sapienza, Se fossi tu? Antologia di scritti sul sacerdote, Corbo Editore, pp. 243-244).

Sì, cari confratelli nel sacerdozio, noi siamo preti, ossia siamo a servizio del sacrificio di Cristo e della Parola di Dio; è lo Spirito di Verità che ci strappa da noi stessi e rende le nostre vite parti vive del sacrificio di Cristo per la salvezza di ogni uomo. Il nostro sacerdozio sappia essere fedele al sacrificio di Cristo e alla Parola di Dio; tutto il resto verrà come conseguenza.

Come figli poniamoci nelle mani di Maria che, dopo aver accolto la Parola di Dio con il sì dell’Annunciazione, vi rimase fedele fino al Calvario, fino al sacrificio del Figlio. Quando la chiamiamo Vergine fedele mettiamo in luce un tratto tipico della sua fisionomia: la virtù della fortezza nella piena adesione al misterioso piano di Dio, che passa per tutti attraverso la croce a cui ella aderì fino alla fine. Chiediamo, a nostra volta, la forza di rimanere nella Parola di Dio che guidò la Beata Vergine Maria nel cammino della fede e la congiunse intimamente al sacrificio del Figlio.

Cari confratelli e amici, auguri di una Santa Pasqua di risurrezione a voi tutti e alle vostre comunità! Il Signore ci benedica!