Omelia del Patriarca nella S. Messa del Crisma (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 13 aprile 2017)
13-04-2017

S. Messa del Crisma

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 13 aprile 2017)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Cari presbiteri, diaconi, consacrate e consacrati, fedeli laici,

in questa celebrazione crismale siamo al completo della nostra rappresentanza ecclesiale attorno all’altare che è Cristo, il vero ed eterno sacerdote!

Fratelli e sorelle, vogliamo innanzitutto ringraziarLo per il dono del sacerdozio sia quello comune dei fedeli, che nasce dal sacramento del battesimo sia per quello ministeriale che ha origine dal sacramento dell’ordine.

Dopo aver rivolto un pensiero filiale e caloroso a Papa Francesco, saluto con affetto alcuni ragazzi e ragazze che prossimamente riceveranno la Confermazione e che oggi – accompagnati dai loro catechisti, catechiste e parroci, partecipano a questa eucaristia in cui verrà consacrato il Crisma. Carissimi, vi ringrazio della vostra gradita presenza.

Carissimi presbiteri, ora mi rivolgo a voi: il Vescovo e la Chiesa che è in Venezia vi dicono un grazie sincero e cordiale per il dono che, ogni giorno, fate di voi stessi vivendo con fedeltà le promesse sacerdotali fatte il giorno della vostra ordinazione; è questo, per il prete, il modo concreto e realissimo d’amare Gesù, sommo ed eterno Sacerdote.

Gesù a Pietro, il primo degli apostoli, nel momento di confermargli il primato, domanda più volte una sola cosa: “Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?»”. E l’evangelista nota: “Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi»” (Gv 21,17-18).

Un giovane sceglie di essere prete, di fare il prete, per sempre, mettendo in conto di superare i momenti difficili che appartengono alla storia di tutti, alla normalità di una vocazione, solo tramite un amore più grande verso Gesù.

La domanda rivolta duemila anni fa a Pietro, sulle rive del lago di Tiberiade, Gesù la rivolge ogni giorno a tutti coloro che ha chiamato al sacerdozio ordinato; ogni altra motivazione che non sia tale amore più grande, alla fine, viene meno e non regge alla prova dei fatti.

Il nostro augurio reciproco è che, in ciascuno di noi, l’amore verso il Signore si fortifichi giorno dopo giorno; staremo bene noi, le nostre comunità, lo percepiranno anche quanti non vengono in Chiesa. Questo custodire in noi l’amore reale, concreto e quotidiano per Gesù – nella preghiera, nel ministero, nella carità reciproca –  sia la prima forma di evangelizzazione, il nostro primo impegno missionario.

Ogni comunità ha il “suo” prete al quale vuole bene, al quale è legata da affetto particolare; sì, proprio quel prete è percepito come dono del Signore. E così, in una comunità, il prete diventa segno prezioso e concreto della tenerezza di Dio; quel prete o quei preti – nei pochi casi in cui è ancora possibile parlare al plurale – rappresentano la cura paterna di Dio nei confronti dei giovani, degli anziani, dei malati, delle famiglie ferite e sane di quella comunità parrocchiale o collaborazione interparrocchiale. Il prete è un uomo che ha scelto Gesù e, per questo, si dedica a loro e ama Gesù proprio prendendosi cura di loro, così come sono, ogni giorno.

Cari confratelli, voi siete importanti per le vostre comunità e la vostra testimonianza di vita è già di per sé incoraggiamento ed evangelizzazione. Il prete che vive fino in fondo il suo sacerdozio, che è conosciuto come uomo di preghiera, che s’impegna a superare le incomprensioni e le divisioni, che sa chiedere e donare il perdono prima di andare all’altare, un uomo che è a servizio della sua gente e non alla ricerca di una nicchia dove riposare, un uomo che si spende nel ministero, distaccato dai soldi, un tale prete – anche se non avesse doti particolari – ha già assolto la sua missione.

Cari confratelli, ci sorprenderà – quando saremo in Paradiso – vedere quanto il Signore ha fatto nostro tramite, servendosi delle nostre mani, della nostra voce, della nostra umanità per coloro che ci aveva  affidato. Sì, solo in Paradiso – come dice il santo Curato d’Ars – si potrà comprendere la grandezza del sacerdote. Un prete che è sempre prete in tutto quello che dice e fa, in canonica, in patronato, in confessionale, quando spiega la parola di Dio, quando lavora o riposa, è ciò di cui le nostre comunità hanno bisogno.

Abbiamo appena ascoltato il Vangelo di Luca: l’inizio della vita pubblica. Gesù inizia la sua missione là dove era ben conosciuto, appunto, a Nazareth; è un particolare sul quale dobbiamo riflettere e che non va sottovalutato: “In quel tempo, Gesù venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me… »” (Lc 4,16-18).

Poi Gesù, e anche questo va rimarcato, si presenta come Colui che è mandato. Il Vangelo dice: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato… » (Lc 4,18).

Anche noi siamo mandati, pure noi siamo degli inviati, non siamo là dove abbiamo ritenuto di andare noi, di nostra iniziativa, seguendo i nostri progetti, allo stesso modo in cui non predichiamo le nostre opinioni personali; queste due cose vanno sempre insieme.

Le nostre parole e opere vanno oltre i nostri gusti personali e ogni cosa la compiamo poiché Chi ci manda ci ha chiesto di annunciare la sua Parola, non la nostra, e compiere i suoi gesti, non i nostri; siamo mandati, insomma, ad annunciare la Parola di Gesù e a compiere i suoi gesti. Dietro a chi è inviato c’è sempre Colui che manda e la missione consiste, esattamente, nel donare il Signore Gesù in modo fedele alla sua Parola e ai suoi gesti, iniziando da quelli sacramentali.

Attraverso il sacramento dell’ordine, il Vescovo – con la pienezza del sacerdozio – e il presbitero – costituito nel suo grado specifico – sono, a diverso titolo, mandati fra la gente per compiere i gesti di Gesù, capo e sposo della Chiesa e, così, renderLo presente nel popolo di Dio. I diaconi, invece, sono legati in modo particolare al Vescovo e il Vescovo ha imposto loro le mani affinché, nella Chiesa, il servizio si realizzi anche attraverso il ministero ordinato a livello sacramentale.

Nella comunità cristiana tutto nasce dalla fede, ossia dall’ascolto della Parola e, quindi, tutto ha origine dall’annuncio. Lo rimarca l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani dove, con un ragionamento stringente, dice l’essenzialità della missione – l’essere mandati -; nella Chiesa, che è sposa e corpo di Cristo, Gesù è Colui che manda.

Senza gli inviati non può riecheggiare, nella storia, il sì della fede. Ce lo ricorda Paolo nella lettera ai Romani: “…come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?” (Rm 10, 14-15).

Ecco l’urgenza di una rinnovata pastorale vocazionale, rivolta oltre che al matrimonio anche alle speciali forme di consacrazione. Il nostro Seminario è di tutti voi. E una comunità deve interrogarsi se riesce a rigenerarsi.

L’annuncio comporta sempre il farsi carico, con amore e tenerezza, delle persone a cui si reca la buona notizia di Cristo; farsi veramente carico delle persone vuol dire chiamarle a responsabilità, aiutarle ad accogliere la Parola di Gesù come essa è, iniziare un cammino comune di discernimento in cui il Vangelo sta innanzi a tutti e due – al pastore (ministro ordinato) e al fedele (sacerdozio comune) – come invito alla conversione per entrambi. Nessuno dei due, infatti, ha un potere sulla Parola; entrambi, pastori e fedeli, sono di fronte alla Parola che salva e in nessun modo deve esser ridotta al piano del buon senso umano oppure, ancor più, al comodo: ma tutti lo fanno…

Non c’è posto per una “gradualità della legge”; ogni parola del Vangelo, per quanto possa sembrare anche ardua, è in realtà una Parola di salvezza proclamata nella nostra vita che, se accolta con fede, oltre a salvare, reca gioia e non opprime. Una parola che libera come solo la verità ci libera. La Parola di Dio non è un consiglio umano ma l’appello concreto della grazia che liberandoci apre strade nuove al pastore e al fedele. L’invito, allora, è percorrere, con vero discernimento, la “legge della gradualità”, ossia portare, con la grazia del Signore, chi ancora non è in grado, a crescere progressivamente, attraverso la preghiera, la pazienza, la tenerezza, senza fretta, con un vero discernimento soprannaturale.

Dobbiamo esser convinti che la Parola di Dio, nella sua infinita “verità” e “carità”, risuona per noi qui e ora, sia per il pastore sia per il fedele, ed è Evento che salva se, entrambi, pastore e fedele, dicono il loro sì; quella Parola è la salvezza che chiede d’esser continuamente annunciata, soprattutto se fatica a farsi strada nei nostri cuori.

Paolo dice: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole. Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero“ (2Tim 4,1-5).

Ed è sotto l’azione dello Spirito Santo – che, fin dall’inizio, aleggia sulle acque (cfr. Gen 1,2) – che la Parola di Dio plasma la storia del mondo rendendola storia della salvezza. E questo nell’atto creativo, nelle vicende dell’Antico Testamento, a iniziare da Abramo, negli eventi che hanno per protagonisti i patriarchi, i giudici, i re d’Israele e di Giuda, i profeti; infine, nella pienezza del tempo, è il Figlio nato da donna sotto la legge (cfr. Gal 4,4) che porta tutto a compimento.

Una sintesi mirabile la troviamo nel prologo della prima lettera di Giovanni: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi ” (1Gv 1,3).

Questa parola ha un suo centro, ha un suo sviluppo, ha un suo compimento: Gesù Cristo verso il quale è incamminato tutto l’Antico Testamento, Gesù è il vero e ultimo criterio interpretativo. È alla sua Parola che tutti – pastori e fedeli – devono guardare come popolo di Dio convocato nella fede, nella speranza e nella carità; è proprio da tale Parola che si dischiude il mistero di Dio che salva.

Il dabar ebraico vuol dire evento/accadimento e ha un significato diverso dal logos greco, ossia parola pensata (cfr. Gen 15,1). In tal modo la Parola di Dio viene a noi con tutta l’autorevolezza e la forza che le provengono dall’essere Parola di Dio, Evento che salva. Col sì detto alla Parola di Dio, nel battesimo e nell’ordinazione, siamo diventati – in modi differenti – interlocutori di Dio; due momenti di grazia certamente, ma anche momenti d’assunzione di responsabilità e, nel contesto della pura grazia, di assunzione di diritti e doveri.

Essere servi della Parola, allora, vuol dire innanzitutto crederla, viverla, annunziarla e celebrarla. E, quindi, vuol dire consegnarsi alla Parola e lasciarsi salvare da essa. Si tratta, innanzitutto, di riconoscere nella propria vita tale Parola, dire il proprio sì, ovvero non giudicarla – questa parola è dura, dicevano alcuni discepoli al termine del discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6, 60) -; ricordiamo che è la Parola a giudicare la nostra vita e a chiamarci a conversione. Ogni vera ermeneutica e ogni reale discernimento della Parola di Dio non possono prescindere da tale incondizionata e credente accoglienza altrimenti si finisce per accogliere la Parola, ma nella nostra misura umana.

Tutto va considerato con attenzione, in un clima soprannaturale di preghiera. Vanno ponderate le ragioni e i motivi cristiani ed evangelici; il criterio non è la prudenza umana, il buon senso umano e, tanto meno, dire: tutti fanno così.

Quando si parla di vita cristiana e discernimento spirituale è necessario risalire a Dio e al suo Spirito perché “l’uomo naturale… – scrive san Paolo – non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2,14).

È in questo contesto che va allora considerata la “discrezione”, sulla quale tanto insiste S. Ignazio; la “discrezione” – o discernimento – è una “soprannaturale saggezza” circa i comportamenti spirituali e lo stile della vita dell’uomo; si tratta dello stile cristiano, immensamente lontano da una visione puramente naturale che, seppur umanamente ragionevole, rimane ancora estrinseca alla vera ascetica e alla vera mistica della croce; è qualcosa di completamente diverso rispetto a una scelta di prudenza umana o di mediocrità che, alla fine, conduce alla mondanizzazione del cristianesimo adattandosi a quello che ormai tutti fanno.

L’impegno primo del ministro ordinato è credere alla Parola, è farla propria, è lasciarsi salvare da essa, poi, annunciarla. Richiamo, in proposito, le domande che il Pontificale Romano rivolge al Vescovo, al presbitero e al diacono al momento dell’ordinazione.

 

Al Vescovo si chiede: “Vuoi predicare con fedeltà e perseveranza il Vangelo di Cristo?” e, poi, ancora: “Vuoi custodire puro e integro il deposito della fede secondo la tradizione conservata sempre e dovunque nella Chiesa fin dal tempo degli Apostoli?” (Pontificale Romano, p. 42).

 

Al presbitero, invece, si domanda: “Vuoi adempiere degnamente e sapientemente il ministero della parola nella predicazione del Vangelo e nell’insegnamento della fede cattolica?” (Pontificale Romano, p. 112).

 

E, al diacono, infine, ci si rivolge con queste parole: “Vuoi, come dice l’Apostolo, custodire in una coscienza pura il mistero della fede, per annunziarla con le parole e le opere, secondo il vangelo e la tradizione della Chiesa?” (Pontificale Romano, p.158).

 

Al ministro ordinato, quindi, è richiesta una piena e fedeltà alla Parola, una fedeltà che si dà nella comunione ecclesiale. Comunione con la Chiesa di oggi, ossia comunione “nel” tempo – sincronica – che, a sua volta, richiede la comunione con la fede apostolica, ossia con Gesù stesso; è questa la comunione diacronica, ovvero “attraverso” il tempo. Garanzia ultima di tale comunione con Gesù non può essere la registrazione dei fatti e delle parole che lo riguardano – richiesta del tutto antistorica -; piuttosto è la testimonianza della Chiesa, come insegna il Concilio Vaticano II, nella costituzione Dei Verbum, ove si parla di Scrittura, tradizione, magistero e fede del popolo di Dio, pastori e fedeli (cfr. nn. 7-10).

In Amoris laetitia Papa Francesco indica l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo: “I presbiteri hanno il compito di «accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo…“ (Papa Francesco, Esortazione apostolica Amoris laetitia, n. 300).

Cari fratelli e sorelle, diciamo oggi il nostro grazie al Signore per i doni del sacerdozio battesimale e ministeriale e chiediamo che ci renda testimoni fedeli e gioiosi della Sua Parola; un grazie a chi, attraverso il ministero ordinato, è chiamato a essere, in modo particolare, servo e ministro della Parola di Dio. Il suo impegno sia annunciarla in Gesù, con la sua autorità, la sua carità, la sua tenerezza. Autorità, carità e tenerezza che si plasmano sulla verità che fa liberi, come ricorda Giovanni nel suo Vangelo: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32).

Rivolgiamo ora un ricordo affettuoso ai confratelli presbiteri che non sono presenti per motivi d’età o di salute; ho cercato di raggiungerli personalmente in questi giorni, fatelo anche voi. Un ricordo tutto particolare e orante, infine, per i nostri confratelli che vivono momenti di affaticamento spirituale e vocazionale. A tutti dico: mettiamo con più fiducia e amore ogni sofferenza e ferita nelle mani del Signore, perché là dove siamo deboli si manifesti la sua forza e grazia; Lui può sanare e salvare tutto!

Come Maria, madre dell’eterno e sommo sacerdote, anche noi sappiamo custodire nel nostro cuore con gioia la sua Parola in modo integro (cfr. Lc 2,19.51). A Lei affidiamo la prossima Visita Pastorale perché la benedica e renda un vero momento di grazia per tutta la nostra Chiesa ad iniziare dal prezioso tempo della sua preparazione.

E la consegna della lettera pastorale “Incontro al Risorto” vuol essere il primo atto della Visita affinché, da subito, sia preparata e vissuta nelle nostre comunità, alle quali chiedo di portare tutta la mia stima, il mio affetto e ricordo nella preghiera.

Infine, con vera gioia, invito tutti sabato 22 aprile – alle ore 15.00 -, in San Marco, per l’ordinazione diaconale di Gianluca Fabbian e ringraziamo il Signore del dono che, con questa ordinazione, fa alla sua e nostra Chiesa.

Cari amici, ringraziamo in questa Eucaristia il Signore perché ci ha dato il dono della vita e del battesimo, perché ha chiamato alcuni di noi al ministero ordinato, perché in tutto e in tutti siamo immagini fedeli di Gesù e della sua Parola.