Omelia del Patriarca nella S. Messa con un gruppo di partecipanti alla “Venice Marathon” (Venezia / Chiesa parrocchiale S. Salvador, 23 ottobre 2021)
23-10-2021

S. Messa con un gruppo di partecipanti alla “Venice Marathon”

(Venezia / Chiesa parrocchiale S. Salvador, 23 ottobre 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Saluto e ringrazio quanti hanno organizzato questo momento e Voi che avete risposto a questo invito presso l’altare del Signore per vivere la celebrazione eucaristica festiva nel contesto di una domenica che, per molti di Voi, sarà segnata dall’impegno, dalla fatica, dalla corsa e anche dalla soddisfazione di cimentarsi in quella che possiamo considerare la gara delle gare

Sì, perché la maratona è, per eccellenza, la competizione della fatica ed è per antonomasia la competizione agonistica; qui poi a Venezia avviene in uno scenario unico.

Siamo felici perché la manifestazione, quest’anno, torna a svolgersi “in presenza”, con il concorso di tanti atleti e con un’evidente carica e voglia di ripartenza che tocca tutti i settori della vita ma anche quelli, importantissimi, della passione per lo sport e il sano agonismo.

La maratona – ricordandone l‘ origine (la battaglia di Maratona tra persiani e ateniesi nel 490 a.C.) – è nata dal desiderio di portare una bella notizia di salvezza e vittoria. E, quindi, tornare a rivivere in modo completo la “Venice Marathon” è certo motivo di gioia e speranza per tutti, anche per la situazione più generale del nostro Paese e del mondo.

Abbiamo ascoltato le letture della XXX domenica del tempo liturgico ordinario. In particolare la prima lettura e il Vangelo ci presentano due situazioni che raccontano un bisogno non solo di liberazione umana e di guarigione fisica ma di vera e reale salvezza che può venire solo da Dio: nella prima lettura (Ger 31,7-9) è evocata la condizione d’esilio che tocca un popolo fragile e afflitto; nel Vangelo (Mc 10,46-52), invece, si presenta davanti a Gesù, lungo la strada, a Gerico, un cieco di nome Bartimeo che invoca pietà.

Non è mai da dare per scontato che chi crede in Dio – magari tra dubbi e fatiche – creda anche nel Dio che interviene nella vita dell’uomo e lo salva, ossia nel Dio che è il Signore della vita e della storia.

Di fronte alla “questione” di Dio c’è l’affermazione “forte” dell’ateo (per il quale Dio non esiste) e quella “debole” dell’agnostico (che non sa, non si esprime e non dà risposte in materia). E c’è anche l’altra affermazione “forte”, quella del credente, per il quale Dio esiste e, per non restare sul vago, crede che Dio abbia a che fare con la sua vita.

Gesù Cristo ci annuncia, allora, Dio che salva l’uomo e lo salva in modo del tutto imprevisto e inusitato, attraverso l’incarnazione (Dio che si fa uomo) e quindi rende l’uomo protagonista; sì, l’umanità di Cristo rende anche noi e la nostra umanità protagonisti! Nella fede e nella rivelazione cristiana Dio e l’uomo sono strettamente intrecciati e si richiamano a vicenda.

Sostenere che Dio esiste è di molti; infatti, per molti tale affermazione risulta pacifica ma è del tutto ininfluente ed incapace di incidere nella vita quotidiana e reale delle persone. Un Dio che esiste, insomma, ma come pura esistenza intellettualmente plausibile e, appunto, per spiegare un mondo che da solo non si spiegherebbe.

Poniamoci, allora, la domanda fondamentale: come Dio entra nella mia vita e mi salva? Ebbene, scopriremo che Dio ci salva considerandoci come persone libere e responsabili.

Il cristiano si percepisce come un “salvato”, tanto che il primo atto – che ci contrassegna come cristiani – è ricevere il battesimo, sacramento che è liberazione dal peccato originale, dalla lontananza da Dio.

In questa celebrazione eucaristica emerge un grido di gioia e un sussulto che si apre al sorriso perché – lo abbiamo ripetuto pregando il salmo 125 – “grandi cose ha fatto il Signore per noi”. E anche chi non fa parte del popolo d’Israele si unisce a questo coro: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.

Che il rapporto tra Dio e l’uomo si svolga in libertà e responsabilità è attestato dal dialogo tra Gesù e il cieco Bartimeo. “Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato»” (Mc 10,51-52).

L’uomo è, quindi, colui che chiede a Dio, attraverso Gesù, la salvezza dalla propria intrinseca debolezza e fragilità. E questo può avvenire nel momento in cui si lascia spazio alle grandi domande sul senso della vita, quelle domande che, oggi, volutamente non trovano spazio in ambito pubblico a causa del pensiero dominante del “politicamente corretto” – una vera e propria censura che prima di tutto è un’autocensura – che “enfatizza” fino allo sfinimento alcuni temi e ne “silenzia” in modo assoluto altri. E la domanda “religiosa”, che è domanda di salvezza, rientra appunto tra quei temi che sono considerati “scorretti” e, perciò, da non trattare.

Eppure la domanda religiosa è componente costitutiva dell’uomo e, facendola emergere, la fede cristiana risponde dischiudendo la paternità di Dio e la fratellanza fra gli uomini, una fratellanza di cui è segno anche il correre insieme la maratona, sullo stesso percorso e avendo la stessa meta, il traguardo dopo la fatidica distanza di 42,195 km. Chi corre la maratona ha provenienze e storie diverse ma diventa immagine emblematica e altamente simbolica della vita.

La storia degli ultimi duecento anni, nei quali il mondo si è allontanato dal Vangelo, ha mostrato che la salvezza – come impresa affidata all’uomo – è destinata a fallire; lo attestano, nel corso del 900, le due più sanguinose guerre della storia e la dittatura nazifascista e quella comunista.

“Che io veda”: le parole del cieco ci riportano al senso ultimo dell’esistenza, al bisogno di vedere non solo ciò che è immediato ma anche il senso ultimo delle cose. Ed è soltanto quando ammettiamo di non vedere bene e di avere bisogno di essere illuminati che possiamo entrare nel novero di coloro che cominciano a vedere.

Poi bisogna, però, seguire Gesù come ha fatto il cieco che non solo è stato guarito ma si è posto alla sequela di Gesù diventandone discepolo: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,52). La strada che percorre Gesù diventa così la sua e la strada di Gesù conduce a Gerusalemme, ossia alla croce e alla risurrezione, il binomio che caratterizza sempre la vita di Gesù e del cristiano.

Non c’è morte senza risurrezione; la morte non è l’ultimo atto della vita del cristiano, contiene già in sé il seme della risurrezione. E, parimenti, non potremo parlare di risurrezione senza la croce e senza la morte: “…se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Gesù va a Gerusalemme, vivrà fino in fondo la sua passione, sino alla morte, e poi il terzo giorno verrà risuscitato dal Padre.

Ritorniamo, ancora, sulla visione di speranza e sull’invito alla gioia che ci viene dalla prima lettura. Il profeta Geremia indica al popolo ebreo in esilio una salvezza certa (il ritorno alla Terra promessa), anche se questa non si è ancora realizzata. E sarà il Signore a “ricondurre” tutti, anche le membra più deboli e menomate (le immagini del cieco e dello zoppo) o quelle fragili (la donna incinta e quella partoriente) attraverso una strada resa finalmente diritta e spianata, che diventa percorribile da tutti.

E qui ritorna alla mente l’opera di Giovanni il Battista che, compiendo le profezie di Isaia, è “voce che grida nel deserto” e invita a preparare la via del Signore raddrizzando i sentieri e colmando ogni asperità di fronte alla salvezza che Dio sta compiendo e che ogni persona potrà vedere e sperimentare (cfr. Lc 3,4-6).

I binomi cecità/vista, esilio/ritorno (o liberazione), croce/ risurrezione trovano compimento pieno in Gesù che, come ci ricorda la lettera agli Ebrei, è “reso perfetto” attraverso la sofferenza e quindi “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,9), unico sommo sacerdote che salva veramente (cfr. Eb 5,1-6). È il Vincitore della morte, il Risorto dai morti, Colui che sconfigge la morte e dona la vita.

Cari amici della Venice Marathon, le immagini e la realtà del camminare (anzi del correre!) verso una meta e lungo la strada è, a voi, ben nota, vi appartiene e ne potete cogliere la grande forza e le infinite suggestioni.

Sappiate, quindi, correre al meglio non solo nei 42,195 km – la distanza della maratona – ma anche nella gara quotidiana della vita. E, come nella maratona, disciplina faticosa e splendida, sappiate essere portatori di liete notizie anche quando esse chiedono di essere rese tali dall’impegno di chi, come il maratoneta, è abituato o abituata a non lasciarsi abbattere dalla fatica del percorso.