Omelia del Patriarca nella S. Messa con il mondo dell’Università per l’inizio dell’anno accademico (Chiesa dei Tolentini / Venezia, 24 ottobre 2018)
24-10-2018

S. Messa con il mondo dell’Università per l’inizio dell’anno accademico

(Chiesa dei Tolentini / Venezia, 24 ottobre 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

 

Saluto cordialmente i direttori generali dell’Università di Ca’ Foscari e dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, i docenti, il personale amministrativo e tecnico, gli studenti.

Un ringraziamento particolare a don Gilberto, ai sacerdoti che s’impegnano nella Pastorale universitaria e a tutti coloro che collaborano con loro.

Abbiamo appena ascoltato il Vangelo secondo Luca (cfr. Lc 12,39-48) che ci esorta alla vigilanza, ovvero a vivere l’attesa e a prepararci all’incontro col Signore.

I discepoli di Gesù, infatti, sono uomini e donne che portano in sé la speranza e guardano a Cristo nell’attesa d’incontrarlo.

I cristiani dovrebbero, quindi, essere uomini e donne che portano vivo in sé il senso del tempo, ne percepiscono l’importanza perché ne riconoscono il valore e, insieme, si colgono come coloro che vanno oltre il tempo pur senza prescindere da esso.

Noi siamo il nostro essere ma, anche, il tempo che ci plasma e modifica. E questo avviene quotidianamente, momento dopo momento. Così il tempo viene percepito come “passato”, di cui conserviamo la memoria, “futuro” che avvertiamo come attesa o speranza e, infine, “presente” di cui sperimentiamo l’estrema fluidità, lo scorrere incessante, qualcosa che – proprio nell’istante che stiamo vivendo – ci sfugge. Sì, l’istante “impalpabile” che rende possibile il nostro vivere e il nostro relazionarci, e che ci sfugge, è il “presente”.

Una domanda s’impone: chi sono io che fatico così tanto a possedermi? E perché, esattamente nell’istante in cui dico “ecco, vi sono riuscito”, tutto mi sfugge? Quello che finalmente raggiungo, in realtà, è già passato e, inesorabilmente, lo trovo alle mie spalle.

Il tempo è quel dono che noi riceviamo insieme all’essere e che, a nostra volta, partecipiamo agli altri. Quanto spesso, quotidianamente, ricorre nel nostro vocabolario il richiamo al tempo, nelle circostanze e nei modi più disparati: “non ho tempo”, “vedo se ho tempo”, ”tempo permettendo”, “il tempo è denaro”, “dai tempo al tempo”, “il tempo è galantuomo”, “ogni cosa a suo tempo”, “il tempo è tiranno”, “il tempo corre” e, in forma simile, “indietro non si torna”.

Sono espressioni che esprimono la dimensione antropologica del tempo. Sì, perché il tempo assume un significato psicologico nella vita degli uomini. Il tempo non è, prima di tutto, un fatto meccanico e non è il mero scorrere delle lancette sul quadrante dell’orologio; al contrario, il tempo assume una valenza umana-psicologica per cui un minuto può sembrare un’eternità e un intero giorno, al contrario, un istante!

Il tempo, quindi, è abitato dall’uomo, è “umanizzato”; il nostro io plasma il tempo, lo vive ma è pur vero il contrario, ossia che il tempo ci plasma e ci segna.

Le rughe del nostro volto, i capelli che diventano bianchi, l’esperienza che – nelle diverse stagioni della vita – ci fa vedere e vivere le stesse cose in modi differenti.

Il tempo segna l’essere in modo importante, così importante da appartenere alla stessa struttura dell’uomo. L’uomo è un essere storico; in tal modo non sorprende se il tempo entri a far parte, a pieno titolo, della struttura antropologica soprannaturale dell’uomo (ma su questo torneremo).

L’uso che noi facciamo del tempo rivela molto della nostra persona: noi dipendiamo e siamo, anche, il tempo che ci rimane dinanzi, poiché non aver più futuro vuol dire smarrire il senso del proprio presente, non aver più presente e talvolta vuol dire, addirittura, cadere nella disperazione.

Ogni uomo è figlio del suo tempo, ne rimane condizionato nel bene e nel male; il nostro tempo ci sostiene ed è per noi una costante opportunità ma, anche, ci condiziona, ci limita e ci impedisce.

Noi entriamo nel tempo, facciamo parte del tempo, riceviamo molto dal tempo in cui viviamo e, a nostra volta, doniamo molto ad esso e agli uomini e donne del nostro tempo.

Poi, nella vita di ciascuno di noi, il tempo non è infinito: è contato e – come insegna il Vangelo – non ci è possibile accrescerlo e diminuirlo anche di un solo istante (cfr. Mt 6,27).

Queste considerazioni sul tempo – che è, insieme, dono e responsabilità – costituiscono una vera opportunità per riflettere all’inizio del nuovo anno accademico perché il dono prezioso del tempo deve essere, per ognuno, motivo di discernimento e di un serio esame di coscienza.

Ma ora, prima di concludere, ci soffermiamo sulla connotazione che il tempo assume per la rivelazione cristiana; qui è proprio la caratterizzazione “cristologica”, o meglio “cristica”, che plasma il tutto di un significato nuovo.

Riprendiamo le stesse parole che il Signore, rivolge ai suoi discepoli e che noi abbiamo ascoltate nel Vangelo odierno: “Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo… A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Lc 12, 39-40.48).

Il Figlio dell’uomo è il protagonista del grande giudizio finale in cui si dice che il rapporto con Dio è qualcosa di tremendamente serio, perché l’unione con Dio si misura sulla possibilità di una separazione vera, reale, definitiva da Lui; altrimenti tutto avverrebbe “per gioco”.

Di fronte al peccato, riconosciuto e confessato, c’è il perdono. Sì, c’è il perdono donato sempre e a tutti, in modo pieno e totale. Ma ad una condizione: che il peccatore accolga l’amore di Dio e la sua misericordia e questo non avviene in modo automatico ma piuttosto nel sì della conversione. L’espiazione è la serietà dell’amore dell’uomo di fronte alla serietà dell’amore di Dio che, realmente, muore nell’umanità di Cristo.

Le due parole pronunciate e ripetute da Gesù durante il giudizio universale sono: “benedetti” e “maledetti” (cfr. Mt 25, 31-46). E il Vangelo risuona vero in ogni sua parola e in ogni sua pagina; se così non fosse, allora, sarebbe falso in ogni sua parola e in ogni sua pagina.

Le parole “benedetti” e “maledetti”, “fuoco eterno” e “Regno”, non sono dette a caso o per scherzo; sono proferite da chi ha dato la vita perché ogni uomo potesse essere “benedetto” ed entrare nel “Regno”.

Sì, il valore dell’uomo si coglie nella scelta che diventa definitiva, che si compie per sempre e, nella quale, si rifrange qualcosa dell’eternità di Dio di cui l’uomo è immagine.

Carissimi, con queste riflessioni sul tempo, pensando alla grazia che è Gesù nella nostra vita quotidiana, iniziamo il nuovo anno accademico.