Omelia del Patriarca nella S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2018)
02-11-2018

Commemorazione dei fedeli defunti

S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Ringrazio le autorità per la loro presenza e saluto i presbiteri presenti e i diaconi.

La giornata del 2 novembre è un’occasione per riflettere, per pregare e per fare un sano e radicale esame di coscienza. La morte, infatti, è quella certezza che sta di fronte a tutti, nessuno escluso; sta di fronte all’ateo, all’agnostico, al relativista, al cristiano, all’ebreo, al musulmano. E, d’altra parte, tutto ciò che ha avuto inizio avrà fine; in ogni nascita, anche nella nostra, è già iscritta la fine, la morte.

Così come siamo nati, tutti moriremo, ignoriamo solo il come, il dove, il quando… Circa la data e le circostanze del nostro morire – che solo Dio conosce – noi non sappiamo nulla e ne dobbiamo ringraziare il Signore; è inutile darsi da fare per conoscerle, rimarranno ignote. Cerchiamo allora di non arricchire cartomanti, maghi e tutti coloro che speculano sulle fragilità, sulle paure e sulla poca fede del proprio prossimo.

Il morire – dicevo – fa parte del vivere; è un capitolo della vita e non sorprende che come uno è vissuto morirà. Questo deve riscaldare il cuore a molti e deve preoccupare altri.

Il morire fa parte del vivere ed è già contenuto nel primo istante di vita. Perché allora fare – come molti fanno – la rimozione del pensiero della morte e vivere come se quel momento non dovesse arrivare o non ci riguardasse? Ci sono, insomma, delle vere compensazioni psicologiche (anche inconsce) che entrano in azione e ci portano a rimuovere quel pensiero e a vivere come se non dovessimo mai morire. Dato che il morire è certo perché allora rimuoverlo, lasciarlo al caso e disattenderlo? Intanto, è una vera grazia non conoscere prima il momento della propria morte; pensate se ciascuno di noi conoscesse già adesso, nei dettagli, il giorno e l’ora della sua morte!

Il cristiano è colui che, ogni tanto, in modo sereno, reale, concreto e credente pensa alla sua morte anche perché, per il cristiano, il morire è l’atto più importante di tutta la vita. Dalla morte dipende l’eternità.

Noi pensiamo sempre alla morte come a qualcosa che riguarda gli altri; sappiamo tutti di dover morire ma, alla fine, la cosa sembra riguardare solo gli altri. Il morire, invece, lo si vive in prima persona. Quante volte ci siamo fatti sostituire nella vita e abbiamo mandato un altro… In  quel momento saremo noi, perché il morire avviene sempre in prima persona – ognuno ha la sua morte – e in quel momento si concentra tutta la vita.

Questa è una grande misericordia di Dio, perché chi ha vissuto bene troverà in quel momento tutto il bene che ha fatto durante la sua vita (sicut vita, mors ita); così come è stata la vita per la giustizia di Dio, per la misericordia di Dio, per la paterna bontà di Dio, così sarà anche il momento della morte. Vivere bene – e non arricchire cartomanti o maghi – è, quindi, l’unico modo per prepararsi bene, serenamente e in modo costruttivo alla morte.

Certo, con la morte si entra in un’altra dimensione; entreremo in un’altra modalità d’esistenza, non esisterà più il tempo e non esisterà più lo spazio. Pensate adesso anche solo costruire un discorso a prescindere dallo spazioo dal tempo… è impossibile.

La morte ci proietta in un permanere dell’esistere che prescinde dallo spazio e dal tempo. Noi usiamo delle figure, delle immagini: il banchetto celeste, l’abito nuziale, il cielo… L’errore più grande è considerare queste figure ed immagini come il fine; sono il mezzo. Il cielo rappresenta qualcosa per noi, abituati a vivere sulla terra, qualcosa che libera, qualcosa che illumina, qualcosa che dice agilità, qualcosa, che dice dominio delle realtà terrestri…

E allora dire che i nostri morti sono in cielo vuol dire che hanno raggiunto il Risorto. Non è tanto Gesù che è salito al cielo, è il cielo che indica qualcosa della realtà della risurrezione, della vita eterna, del Paradiso e su questo punto – a differenza di quella che è la situazione dell’agnostico, del relativista o dell’ateo – la fede cristiana accetta la luce della Pasqua.

La comunità cristiana ed il discepolo sanno che quando si muore si muore in Cristo e morire, per il cristiano, è entrare semplicemente nella Pasqua di Cristo, l’unico che ha vinto la morte e che è risorto. Così per il cristiano la morte non è cadere nel nulla ma entrare nella pienezza della vita e provare quella agilità che i Vangeli della risurrezione attribuiscono al Risorto che si fa riconoscere quando vuole e poi sparisce, entra nel cenacolo a porte chiuse, si accompagna con i due pellegrini di Emmaus e sparisce nel momento in cui lo riconoscono.

La risurrezione, la vita eterna, è il cuore stesso della fede cristiana; con il battesimo – quell’umile segno che Dio offre a tutti – si entra nella morte e risurrezione di Cristo, si entra nella sua Pasqua. Ed allora parlare della morte per il cristiano vuol dire parlare della Pasqua, della risurrezione e qui la liturgia celebrata bene, con sobrietà, con semplicità e con onestà, dice quello che la riflessione intellettuale anche dei più grandi teologi riesce solo ad intravvedere.

Ricordo che la Chiesa ci dà l’opportunità – sino al 9 novembre, iniziando da oggi – con la visita ai cimiteri di poter lucrare l’indulgenza plenaria, sulla quale varrebbe la pena riflettere e pensare per liberarla da tante banalizzazioni e anche da tante distorsioni.

L’indulgenza plenaria è un atto di carità verso i nostri morti, verso coloro (soprattutto) con i quali siamo legati da doveri di giustizia e di carità; è un atto di carità che non può essere compiuto se non da chi si impegna ad amare in modo perfetto ed ecco perciò la necessità della confessione, del ricevere l’eucaristia, di professare la propria fede, di recitare la preghiera del Signore, il Padre nostro, e di soffermarsi in preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre; è un gesto semplice ma molto impegnativo perché se manca la volontà di distaccarsi anche dalla forma più lieve di male il nostro dono si riduce e, per alcuni, potrebbe ridursi a tal punto da non realizzare più nulla. La liturgia e i suffragi sono questioni di fede.