Omelia del Patriarca nella Messa della VI domenica del Tempo di Pasqua nella basilica della Madonna della Salute con il conferimento dei ministeri ad alcuni seminaristi (Venezia, 17 maggio 2020)
17-05-2020

S. Messa nella VI domenica del Tempo di Pasqua nella basilica della Madonna della Salute con il conferimento del ministero

del lettorato ai seminaristi Lorenzo Manzoni e Matteo Gabrieli e dell’accolitato al seminarista Bogumil Wasiewicz (Venezia, 17 maggio 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

  

 

 

Carissimi seminaristi,

intendo rivolgermi anche a voi in questa celebrazione particolare che entra nelle case di tante persone e conclude, proprio con questa domenica, il tempo di “diaspora liturgica” di cui ha parlato il rettore don Fabrizio Favaro all’inizio della Messa. Riprenderemo poi da domani – a Dio piacendo -, con coraggio e prudenza le celebrazioni con il popolo. Ringrazio insieme a tutti voi Antenna 3, Rete Veneta e Gente Veneta Facebook per l’opportunità che ci hanno concesso in questo periodo.

Domenica prossima per noi veneziani sarà la “Sensa” – l’Ascensione – con lo sposalizio della città con il mare, una grande festa che rinnova non solo una tradizione ma una fede che si incarna nella nostra storia, soprattutto oggi in cui Venezia ed i veneziani sono chiamati – con tutti i veneti, gli italiani e gli altri popoli europei e mondiali – a “riaprire” il Paese; la sfida grande è quella di convivere in sicurezza tornando a produrre un reddito per l’economia della nostra gente.

I nostri tre seminaristi che oggi riceveranno i ministeri del lettorato e dell’accolitato sono un germoglio che ci fa ben sperare per il futuro, sia per la nostra comunità ecclesiale, sia per le terre, i paesi e le città dove andranno ad esercitare il loro ministero.

Vorrei oggi con voi fermarmi soprattutto sulla seconda lettura (1Pt 3,15-18) che è tratta dalla prima lettera di san Pietro Apostolo e di cui richiamo l’inizio: “…adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. a chiunque vi domanderà ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15).

L’apostolo Pietro qui ci ricorda che il discepolo è colui che porta la speranza, perché il Vangelo è speranza, una speranza non astratta speranza affidabile e che sostiene  dà forza al vivere quotidiano; una speranza che noi dobbiamo rendere visibile, testimoniare e raccontare con la nostra vita.

La speranza cristiana, infatti, non è fuggire dal momento presente o sognare qualcosa che non c’è ancora e non si sa mai se ci sarà, oppure ancora ritornare in un passato che comunque non esiste più e non ritornerà più; la speranza del cristiano non si limita neppure alle buone intenzioni, ma la speranza cristiana è tale se si fa gesto, se si fa parola, se si fa proposta. Per dirla col Vangelo: annuncio del Regno di Dio, qui e ora. Questa è la speranza cristiana!

Tutte le altre cose sono delle caricature della speranza cristiana, magari accompagnate da tante belle parole, ma comunque caricature. La testimonianza del silenzio è indolore ed è comoda, ma la speranza di cui parla l’apostolo Pietro è tutt’altra cosa: è ragionevole, è sensata e capace di mostrare le proprie ragioni. Insomma, è una speranza che non gioca con le idee e le parole; è una speranza affidabile, una speranza che cammina per le strade delle nostre città e della nostra storia; una speranza che sceglie di amare ed una speranza anche difficile, ardua, che sta nella vita concreta.

Com’è possibile tutto questo? Il Vangelo di oggi (Gv 14,15-21) ci risponde così: solo il rapporto personale con Gesù ci dona questa speranza di cui oggi noi e le nostre comunità abbiamo necessità più del pane che mangiamo e dell’aria che respiriamo.

Gesù nel Vangelo ci sorprende ancora una volta – come aveva sorpreso la donna samaritana, il cieco nato e Tommaso – in questo incontro e dialogo durante il quale ci chiede di amarlo, affermando che l’amore – questo è il punto – si manifesta nell’osservare i comandi che Lui ci ha dato.

Noi pensiamo che amore sia sentimento, sia affetto, sia desiderio, sia amicizia, sia appartenenza ed è vero; è anche questo. Ma Gesù ci colpisce e ci obbliga alla conversione perché ci dice: guarda che mi ami se osservi quello che io ti ho chiesto di essere! (“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” – Gv 14,21). Colpisce che sottolinei – nella pericope del Vangelo che abbiamo appena letto e anche nei versetti subito seguenti che non fanno parte della scelta liturgica – proprio questa obbedienza.

Il motivo è che Gesù vuole che colui che lo ama – il discepolo – sia nella sua persona e diventi nella sua persona una rivelazione di Gesù che è prima di tutto la manifestazione dell’amore del Padre, Colui che ha portato al mondo la parola del Padre. E perciò: chi mi ama osserva la mia parola, osserva i miei comandamenti, si lascia trasformare dalla mia parola e vive i miei comandamenti.

Ricordiamo anche il prologo del Vangelo di Giovanni (Gv 1,1-14): “…il Verbo – il Logos – si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…  Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto”. Il mondo non l’ha riconosciuto, non l’ha amato, non lo ha ascoltato, non ha accolto la sua parola. “A quanti però lo hanno accolto – hanno accolto la sua parola, ossia hanno ascoltato i suoi comandi – ha dato potere di diventare figli di Dio”, quelli che credono nel suo amore. Ecco perché Gesù insiste nell’amore come obbedienza e san Paolo parlerà – nella lettera ai Romani – della fede come obbedienza della fede – “oboedientia fidei” -, quale  autentico distintivo del battezzato.

Carissimi Bogumil, Lorenzo e Matteo, vi lascio ora un pensiero di Giovanni Paolo II perché domani ricorderemo i 100 anni della sua nascita; è un pensiero che lui ha espresso commentando proprio il Vangelo che oggi abbiamo sentito proclamare e cantare dal diacono.

Giovanni Paolo II ha commentato questo brano del Vangelo dicendo: “Esso ci mostra come l’amore sia il pieno compimento della vocazione della persona secondo il disegno di Dio. Questo amore è il grande dono di Gesù che ci rende veramente e pienamente uomini… Quando ci si sente amati si è più facilmente spinti ad amare… è di questo amore che l’umanità, oggi forse più che mai, ha bisogno perché solo l’amore è credibile” (Giovanni Paolo II, Omelia del Santo Padre durante la Visita pastorale ad Ischia, 5 maggio 2002).

Carissimi, sappiate vivere l’amore come ce lo ha chiesto Gesù, osservando, ascoltando, e mettendo in pratica il suo comando, la sua parola; d’altra parte Lui è la parola, il Logos. Sta qui l’imitazione di Cristo nella nostra vita.

Se l’amore è il primo compimento della persona – così ci ha detto san Giovanni Paolo II – e noi siamo pensati dall’eternità da Dio Padre in Cristo, che è il vero uomo, allora comprendiamo come Gesù richieda l’amore che diventa obbedienza a lui, che è la Parola obbediente al Padre in modo da diventare anche noi quella rivelazione di Gesù al mondo, cioè la rivelazione del Padre nella nostra vita.

Gesù da noi non vuole nulla di meno; se c’è questo c’è tutto, se manca questo possiamo essere anche provetti, periti ed esperti in tante sapienze umane ma mancherà sempre il nocciolo, l’essenziale del discepolo: il legame a Gesù Cristo.

La speranza cristiana – soprattutto nei tempi difficili, quando non disperare è già un aiuto che noi diamo agli altri -, questa speranza difficile in tempi difficili, si manifesta come fraternità ossia come camminare insieme agli altri, con gli altri, percorrendo la stessa strada soprattutto se la strada non è facile. E il prete serve la comunità guidandola; la serve, e servire guidando è il posto più scomodo che esista in una comunità.

Il nucleo intangibile della speranza cristiana, allora, è la fede che ama; chi crede che Dio è Padre e che ha donato suo Figlio per salvare il mondo fonda qui il motivo ultimo della sua speranza. Il nostro tempo non ha altro, il nostro tempo non è altro. Si, questo nostro tempo che ci è dato da vivere e non un altro tempo. Questo nostro tempo è il luogo dove siamo chiamati a sperare, cioè a dire e a testimoniare la nostra fede, il nostro amore di cristiani, ossia di coloro che guardano a Gesù che non ha salvato il mondo facendo dei miracoli ma con il dare seé stesso come verità.

Ricordiamo tutti il dialogo drammatico di Gesù con Pilato: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità…». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?»” (Gv 18,37-38) . C’è quindi per il cristiano – soprattutto nei tempi dell’emergenza e della sofferenza – la necessità di narrare a chi soffre il Vangelo.

Il Vangelo si traduce anche in un pensiero sociale, che coincide con l’annuncio che Dio – in Gesù – salva salvando la storia. Scriveva Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus: “…non c’è vera soluzione della «questione sociale» fuori del Vangelo e, d’altra parte, le «cose nuove» possono trovare in esso il loro spazio di verità e la dovuta impostazione morale [l’eticità, il bene]” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n.5).

È proprio questo che ci sta dinanzi ora nel momento della “riapertura” e della convivenza con Covid-19. Tutti dicono: non sarà più come prima! Sarà vero? E, se le cose devono cambiare, bisogna far tesoro degli errori che abbiamo fatto. Dalle nostre vittorie – lo dico a voi in modo particolare cari seminaristi – impariamo poco; è dalle nostre sconfitte che un uomo e una comunità, imparano molto.

Il cristiano deve compromettersi e adoperarsi perché la sua speranza non sia fuga in un futuro che non c’è o in un passato che non c’è più; ci sta dinanzi una visione sociale, economica del mondo del lavoro, delle tutele dei più deboli, del rispetto per l’ambiente, qualcosa a cui dobbiamo mettere mano. E bisogna insieme ripensare politicamente – non partiticamente – quei fondamentali da cui dipende la nostra vita e che hanno fatto sì che la pandemia ci sorprendesse e ci trovasse impreparati, come è avvenuto.

Le comunità cristiane devono ripensare non solo gli stili di vita ma ciò che li produce; vanno riequilibrati e forse anche ribaltati i rapporti tra l’economia e la politica, tra il mercato e la democrazia, tra la libertà individuale e la solidarietà, il bene comune. E qui troviamo quei principi che, da sempre, fanno parte dell’insegnamento cristiano perché nascono dal Vangelo e nascono dalla ragione.

Un principio fondamentale è la centralità della persona. Non sono le merci o la produzione che stanno al centro, tantomeno la finanza, ma la persona e la persona considerata fragile e vulnerabile; bisogna investire prima di tutto sulla persona, elemento portante di un sistema.

Perché Covid-19 ci ha colpito così duramente? Perché al centro non c’erano le persone, specialmente le persone fragili, ma c’era la finanza e l’economia. Ecco perché dicevo che bisogna riequilibrare economia e politica, mercato e democrazia, libertà individuale e solidarietà. Bisogna investire, prima di tutto, sulla persona che è l’elemento portante del sistema.

Pensiamo poi a quelli che sono morti da soli, perché la struttura sanitaria non è stata in grado di garantire altro e di più… Perché Covid-19 ci ha potuto segnare così tanto e così profondamente? Perché il sistema globale planetario aveva messo al primo posto l’economia, la finanza, il consumo, la produzione piuttosto che la persona nella sua struttura fragile.

Insieme e dopo la centralità della persona, e come conseguenza di questa centralità, ci sono quindi la solidarietà e la sussidiarietà perché, insieme, questi due fattori non creano uno Stato assistenziale ma sociale: il bene comune.

In tutto questo, carissimi, si traduce la speranza cristiana, una speranza amica dell’uomo e che nasce dal Vangelo, che sa inginocchiarsi e pregare perché sa che poi tutto dipende da Dio ma Dio, molte volte, le cose le lascia alle nostre gambe, alle nostre mani, alle nostre labbra e alle nostre teste.

Rileggiamo, dunque, in questa prospettiva quello che san Pietro ci ha detto all’inizio della seconda lettura di oggi: “…adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. a chiunque vi domanderà ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Una fede e un amore che non sappiano esprimere una speranza affidabile non sono la fede e l’amore del cristiano; il cristiano è portatore di una visione, che si ispira alla sua fede, che non è astrazione ma diventa scelte storiche.

Carissimi Bogumil, Lorenzo e Matteo, vi state preparando a diventare preti. Oggi ricevete i ministeri del lettorato e dell’accolitato e vi state preparando a diventare preti in un tempo non facile ma, proprio per questo, è un tempo di grazie particolari. Sappiate domani essere preti all’altare, in confessionale, nel quartiere, a scuola, nelle fabbriche: è questo che Dio attende da voi!