Omelia del Patriarca nella Celebrazione eucaristica in rito latino a chiusura delle celebrazioni per il Tricentenario del Monastero di San Lazzaro degli Armeni a Venezia (Venezia, Isola di S. Lazzaro - 9 settembre 2018)
09-09-2018

Celebrazione eucaristica in rito latino a chiusura delle celebrazioni per il Tricentenario del Monastero di San Lazzaro degli Armeni a Venezia

(Venezia, Isola di S. Lazzaro – 9 settembre 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Cari fedeli,

desidero ringraziare il venerato confratello vescovo Levon Zekiyan, Arcieparca di Costantinopoli, Delegato Pontificio per la Congregazione Mechitarista di Venezia e Presidente della Conferenza Episcopale Turca, per l’invito cortesemente rivoltomi.

Volentieri presiedo questa celebrazione eucaristica, in rito latino, in ricordo del terzo centenario della fondazione del Monastero Abbaziale Mechitarista dell’Isola di San Lazzaro.

Mentre ricordo le preziose iniziative liturgiche e culturali che hanno contrassegnato questo anno commemorativo – inaugurato l’8 settembre 2017 – che oggi si conclude, rendo omaggio alla spiritualità e alla cultura del popolo armeno. E, in una celebrazione eucaristica, il modo migliore per farlo è partire dalla sacralità e originalità della liturgia armena.

Prendo spunto dal volume “La spiritualità armena di Gregorio di Narek, curato dall’Arcieparca Boghos Levon Zekiyan: “La liturgia armena – così s’esprime il testo – risale sostanzialmente al V secolo. Infatti, è a partire dalla creazione dell’alfabeto e dalla formazione di una cultura letteraria che le prassi liturgiche anteriori, provenienti dalle aree d’influsso siro cappadoce, cominciarono a configurarsi gradualmente in una unità nuova, che sempre più manifestava i tratti propri e inconfondibili di un rito, non più riducibile all’una o all’altra famiglia vicina dei riti e liturgie. I liturgisti considerano infatti il rito armeno come un rito a se stante, tra le Chiese d’Oriente, accanto alle grandi famiglie siro-caldea, copto-etiopica, bizantina” (Boghos Levon Zekijan, La spiritualità armena. Gregorio di Narek, Editrice Studium, Roma 2005, p.30-31).

In questa testimonianza vediamo, una volta di più, come la liturgia dipenda da una lingua ma, anche, come contribuisca a crearla; infatti, ogni lingua chiamata a misurarsi col Mistero (teologia/liturgia) è spinta ad andare oltre di sé, affinare le espressioni e trovare sfumature nuove a partire dalla fede, “spazio” in cui si esercita sempre l’azione liturgica.

Così la liturgia è sempre preceduta dalla cristologia – è Gesù che dona il suo corpo e il suo sangue – e la liturgia è l’incontro fra il Mistero di Dio che si è manifestato in Cristo e la fede orante di un popolo che fa memoria – memoriale/zikkaron – della Pasqua all’interno di una cultura determinata, di una lingua particolare, di una spiritualità originale.

Se la relazione con Dio viene prima di ogni altra e fonda ogni altra relazione, allora la liturgia – che è forma mistica della preghiera – introduce nel Mistero e costituisce un “unicum” fra Dio e il popolo. Ed è proprio in tale “unicum” che si attualizza (qui e ora) il mistero salvifico di Dio che ha la sua espressione suprema nella Pasqua, segnatamente la Settimana Santa, il Sacro Triduo, la Veglia della Risurrezione.

Tutto, nella liturgia, avviene in rapporto ad una cultura concreta che è fecondata dal Mistero salvifico di Dio. Tutto vive in un preciso momento e luogo: hic et nunc.

Nel Vangelo di oggi – domenica XXIII del tempo ordinario – l’evangelista Marco narra che un sordomuto, non appartenente al popolo ebreo – Gesù sta attraversando il territorio di Sidone -, gli viene condotto.

Gesù lo guarisce ponendogli le dita nelle orecchie e toccandogli con la saliva la lingua. Nel testo non si fa cenno alla fede come condizione previa per compiere il miracolo. L’indicazione è chiara: Gesù precede l’uomo, Gesù è venuto per tutti e il sì dell’uomo viene sempre dopo il sì di Dio.

Dopo la guarigione, i presenti acclamano: “Ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7,37). E queste parole ci riportano al tempo delle origini, quando Dio ha portato a termine l’opera creatrice. Il libro della Genesi annota: ”Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona “(Gen 1,31).

L’evangelista Marco ci vuol dire che Gesù ricrea l’uomo e, nell’uomo, ricrea il mondo e tale nuova creazione – la conversione del cuore – ha sempre una ricaduta sociale. Sì, la conversione della persona ha sempre una ricaduta sociale.

Ci troviamo nella piccola e bellissima isola di San Lazzaro, per ricordare la presenza di una comunità religiosa portatrice e testimone della storia e spiritualità di un intero popolo. L’isola – che sorge a poca distanza dal centro storico della città – dal XII secolo fu destinata a lazzaretto a cui si deve, quindi, il nome di San Lazzaro.

Era l’8 settembre del 1718 quando l’Abate Mechitar – il Consolatore  (1676-1749) – e i suoi monaci presero possesso dell’isola che, ormai, da tempo versava in stato di abbandono; l’obiettivo, oltre al restauro dei vetusti edifici, era costruirne di nuovi, recuperando anche spazi da trasformare in un giardino in cui tutto richiamasse il bello, l’armonia, l’ordine.

Pochi anni prima, nel 1711, sotto il pontificato di Clemente XI, la Congregazione veniva approvata dalla Santa Sede e prendeva come regola quella di Benedetto, il patriarca del monachesimo occidentale, che sostituiva quella di Antonio, il patriarca del monachesimo orientale. Così la Congregazione, anche per questo, può esser considerata “ponte” fra Oriente e Occidente. Fu richiesto che i novizi fossero tutti di nazionalità armena e Mechitar assunse la carica di Abate. La congregazione fu denominata: Congregatio monachorum Antonianorum Benedictinorum Armenorum.

Finalmente, terminati i lavori, i monaci (nel 1740) poterono darsi allo studio ed educare i nuovi discepoli. L’isola si trasformò in centro di alta cultura e scienza, destinato a mantenere viva lingua, letteratura, tradizioni, preghiera e canti armeni; insomma, la storia del popolo armeno.

Vale la pena ricordare che l’isola nel IX secolo ospitò monaci benedettini e nel XVII secolo accolse i frati domenicani espulsi dall’isola di Creta. Poi, come già accennato, nel 1716, Mechitar visitò l’isola che il 26 agosto 1717 fu donata dalla Repubblica di Venezia a un gruppo di monaci armeni fuggiaschi da Modone. Così Mechitar trovò riparo con i suoi monaci proprio a Venezia dove dal secolo XIII esisteva una comunità armena, con una sua chiesa dedicata alla S. Croce, a San Zulian.

Alcuni padri furono lasciati a Modone per custodire i beni della comunità ma l’esito della guerra fu sfavorevole alla Repubblica e la distruzione del convento, da parte dei Turchi, fece perdere ogni speranza di un possibile ritorno a Modone.

Intanto a Venezia, alla comunità che prima abitava in un edificio a San Martino, fu assegnata in perpetuo l’isola di san Lazzaro; era l’8 settembre 1717. L’8 settembre: una bella data mariana che così funge felicemente da pietra miliare nella storia della Congregazione Mechitarista.

Come quasi tutte le principali feste mariane, anche questa è d’origine orientale. Nella Chiesa latina l’avrebbe introdotta il santo Papa Sergio I che era originario della Siria (fine sec. VII). All’inizio doveva essere la festa della dedicazione dell’attuale basilica di sant’Anna in Gerusalemme che la Tradizione indica come l’umile dimora di Gioacchino e Anna, lontani discendenti di Davide, genitori di Maria Santissima.

La preghiera della colletta chiede in occasione della Natività della Beata Vergine Maria i doni dell’unità e della pace in quanto la sua maternità – il Natale – ha segnato l’inizio della salvezza. Il contenuto ultimo di ogni autentica festa mariana rimanda sempre a Gesù.

Ascoltiamo la preghiera di colletta: “Donaci, Signore, i tesori della tua misericordia e poiché la maternità della Vergine ha segnato l’inizio della nostra salvezza, la festa della sua Natività ci faccia crescere nell’unità e nella pace. Sì, la festa della Natività di Maria – appena celebrata – doni a tutti unità e pace e la sua maternità segni sempre, e di nuovo, l’inizio della salvezza.

Tutti coloro che amano la cultura, la spiritualità e la liturgia armene sappiano ricavare da esse nuova linfa affinché – in un mondo sempre più secolarizzato – si possa vivere la vera misura dell’uomo, oggi più che mai necessaria. E la Vergine Madre ci aiuti a pensare, a vivere e ad agire in autentica fedeltà al Vangelo di Nostro Signore!