Omelia del Patriarca durante la S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore (Venezia / Basilica del Santissimo Redentore, 18 luglio 2021)
18-07-2021

S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore

(Venezia / Basilica del Santissimo Redentore, 18 luglio 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Stimate autorità, confratelli nel sacerdozio, fraternità cappuccina, cari fedeli tutti,

la festa veneziana del Santissimo Redentore ci riporta ad un tempo di grave prova che la città visse quattro secoli e mezzo or sono. La pandemia, che allora si chiamava peste, indusse i veneziani ad impetrare da Dio la grazia della salvezza e la ottennero per l’intervento di Gesù, invocato come Santissimo Redentore.

Così, fedeli al voto allora solennemente promesso e in continuità di intenti e sentimenti, anche quest’anno, tra i primi incerti segni di ripresa, si celebra la festa, ancora però in un tempo di pandemia causata dal Covid 19. Da oltre 18 mesi conviviamo con tale morbo che ci limita pesantemente.

È un tempo di prova che suscita in noi domande continue che emergono dal cuore di chi, credendo, per grazia di Dio, si lascia interpellare dalla fede. Sono domande che si pongono con forza in questa festa del Redentore 2021; riguardano Dio, il mondo, Dio e la storia, con le vicende di quest’ultimo periodo. Ci chiediamo allora: perché Dio ci ha provato in tal modo? Qualcuno potrebbe chiedersi: perché Dio ci ha abbandonati in tali difficoltà? Perché tanti lutti? Perché così tanti vincoli familiari spezzati drammaticamente? Perché tante difficoltà, anche economiche? Perché?

L’orazione liturgica della colletta, con la quale abbiamo iniziato la celebrazione, ci ha fatto pregare così: “O Padre, che nel sangue del tuo unico Figlio hai salvato gli uomini dal contagio del male, custodisci l’opera della tua misericordia, perché il popolo che tu ami attinga i doni della salvezza alla fonte viva del Redentore”. Ci siamo così rivolti a Chi ci ama e dona la salvezza e abbiamo pregato d’essere custoditi per attingere ai doni di salvezza di cui il Cristo Redentore è la fonte viva.

Il Dio che ama e salva, il Dio Redentore, ci è stato presentato nel Vangelo: “Dio (…) ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, (…) non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-17).

Ora, i lineamenti di Dio sono quelli di Gesù Redentore, di Gesù Buon Pastore, come vediamo nella prima lettura (Ez 34,11-16) tratta dal libro del profeta Ezechiele. Qui vanno considerati i verbi e le azioni, innanzitutto: Dio “cerca” le sue pecore (non le lascia sole, non le abbandona), le “passa in rassegna” (sta in mezzo a loro, non è distante o disinteressato), le “raduna” dai luoghi della dispersione, le guida, le “fa pascolare” (in pascoli abbondanti). Poi, Gesù, Buon Pastore e Redentore, “va in cerca” di chi è perduta (per ricondurla), “fascia” le ferite e “cura” le fragilità delle deboli e malate, “ha cura” di tutte le sue pecore.

Per questo nel salmo responsoriale abbiamo pregato: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino… Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sal 22, 1-4).

Nella festa del Redentore siamo chiamati a riflettere sul “di più”, sul tanto “di più”, che ci è stato donato in Cristo. Dio ci salva tramite l’opera del Figlio, Redentore, perché Gesù è l’Unigenito di Dio e, per l’Incarnazione, è il Dio fatto uomo, ovvero il Dio in forma umana.

A volte “riduciamo” il cristianesimo alle sue espressioni e ai suoi successi storici, anzi, misuriamo tutto con i risultati e ciò può anche essere umanamente comprensibile. Vorremmo, insomma, eliminare tutti i pesi e le difficoltà che ci opprimono.

Ma se i risultati non arrivano, allora, i dubbi si moltiplicano: forse Dio non porta a compimento le sue promesse? Ci domandiamo: ma Dio è davvero più forte del male? Tali domande riaffiorano ogni volta che siamo posti davanti all’esistenza del male, dell’odio, dell’ingiustizia, della malattia, della morte, anche a causa della attuale pandemia.

Guardiamo a Gesù Redentore per avere una risposta ed intendere il senso della Sua redenzione e della Sua salvezza, già presenti nella storia ma che, allo stesso tempo, la travalicano.

Redenzione e salvezza hanno una loro caratteristica propria che dobbiamo imparare; infatti, se commettessimo l’errore di ridurre la salvezza e la speranza cristiana a conquiste umane, allora rimarremmo presto delusi e confusi.

Guardiamo al Redentore, alla Sua vita, per acquisire lo spessore sapienziale necessario al nostro modo di vivere, sentire, progettare, parlare, agire.

Forse non abbiamo ancora riflettuto a sufficienza sul fatto che la vita di Gesù di Nazaret, il Redentore, è stata tutt’altro che una sfilata sul red carpet della vita o un trionfale cursus honorum. Non è stata una vita segnata da successi o notorietà, non è stata una passerella; pensiamo ai 30 anni della vita nascosta e silenziosa – si potrebbe dire “anonima” – di Gesù, a Betlemme e a Nazaret, anni trascorsi in famiglia e nella bottega di falegname di Giuseppe.

Possono essere preziosi in tal senso alcuni passaggi della seconda lettera di Pietro, di provenienza romana e che per noi veneziani è oltremodo significativa, poiché tale scritto rimanda all’apostolo Pietro, vicino al quale troviamo la figura del nostro protettore l’evangelista Marco, segretario di Pietro, di cui la nostra città custodisce i gloriosi resti mortali.

Ebbene, la seconda lettera di Pietro risponde – soprattutto nell’ultimo capitolo (il terzo) – alle obiezioni e ai dubbi di chi fatica a credere alle promesse di Dio e vorrebbe convincere gli altri a fare altrettanto. Ed invece esorta a restare saldi nella fede: “…davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi… Fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia. La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza” (2Pt 3,8-9.14-15).

Di fronte a Dio che è l’eterno c’è la nostra “fretta”; vogliamo vedere tutto risolto. Ciò si spiega col nostro essere nel tempo e, soprattutto, con la nostra poca fede. Siamo, così, invitati a stare nella storia ma anche ad entrare in sintonia con Lui partecipando, nella fede, alle sue caratteristiche divine e, quindi, lasciandoci interpellare dalle virtù teologali: la fede, la speranza e la carità.

Certo, il male che sembra – e sottolineo il verbo “sembra” – trionfare, la violenza, l’odio, le ingiustizie, la morte, rimangono le grandi obiezioni nei confronti di Dio e della storia della salvezza, ma Dio ha inaugurato il tempo della benevolenza, del perdono e della riconciliazione, non quello del regolamento dei conti.

E di questo tempo della misericordia e del perdono noi siamo i primi beneficiari; noi viviamo la storia che non scorre nell’ “assenza” o nel “ritardo” di Dio bensì nella celebrazione della sua infinita pazienza, attestante il Suo amore misericordioso per noi, e della Sua strenua volontà di offrire a tutti la possibilità di convertirsi.

La salvezza e la speranza cristiana nascono da un evento, da un fatto reale: la Pasqua di Gesù, il Risorto. La salvezza e la speranza cristiana non sono un’utopia perché sono “garantite” e assicurate dall’evento Gesù, il Figlio di Dio, il Redentore, ossia il Buon Pastore che salva e che è, insieme, uno dei Tre (la Trinità Divina) e uno di noi, il vero uomo.

Il cristianesimo è fede nella risurrezione: o porta in sé questa carica escatologica che entra nella storia e si proietta oltre la storia o, semplicemente, non è. Ecco perché il cristiano realmente tale è, anche, al termine della vita o nell’atto del martirio, un uomo che ha e sa di aver futuro.

Una critica che abitualmente viene rivolta ai cristiani è questa: annunciate tante belle cose ma, poi, non accade, nulla di tutto ciò e da duemila anni il mondo va sempre allo stesso modo, se non peggio, non è cambiato nulla… E la conclusione a cui arriva tale ragionamento è che la fede è una menzogna da cui liberarsi e così vivere come se Dio non fosse.

Ai cristiani, perciò, è chiesto – oggi più che mai – di annunciare la presenza di Dio in questo mondo con parole e comportamenti conseguenti, propri di chi è nel mondo ma non aderisce alla sua logica. Invece, non di rado, proprio noi cristiani smarriamo tale sapienza e prospettiva escatologica. Sì, siamo portati a ridurre la salvezza alla storia, il tutto alla parte e viceversa quando, piuttosto, dovremmo imparare a vivere nel solco di una fede, di una speranza, di una carità che hanno un volto e un nome: la persona di Gesù, il Redentore.

Il Novecento ci ha fatto toccare con mano e in modo tragico – pensiamo ai grandi totalitarismi che l’hanno segnato – cosa significhi mettere da parte Dio, non credere e non vivere più avendo innanzi a noi la prospettiva della salvezza o speranza cristiana. Nietzsche aveva annunciato “la morte di Dio” e, subito, dovette inventarsi il “superuomo” e la “volontà di potenza” per recuperare un senso, un futuro, che era venuto meno decretando la “morte di Dio”.

Ma, accanto ai totalitarismi del Novecento, non meno pervasivo è il relativismo – a volte dissimulato, altre volte più evidente – figlio di un pensiero che non ammette l’accesso al vero e al bene. Tutto, allora, diventa liquido e precario, incominciando dall’uomo e dalle relazioni umane.

Anche la tendenza o deriva del “politicamente corretto” –  che domina nella comunicazione, nel linguaggio e nei diversi ambiti del sociale – rientra in una visione antropologica complessiva che porta anche qui a non attribuire più significato e gusto alla realtà, impoverita di ogni accenno e riferimento alla verità e al bene.

Se si mette da parte Dio, in realtà, non si abolisce Dio ma piuttosto l’uomo. La nostra stessa libertà se non ha un senso, una direzione, uno scopo che la porti a pienezza, alla fine è inutile, dà nausea, non è più significativa e praticabile. Che cos’è la libertà senza un senso, senza una direzione, senza un fine? Senza un essere liberi “per”, per qualcuno, per qualcosa?

Ma questo senso, questa direzione, questo fine, cosa può essere se non l’amore? È l’amore che genera l’uomo sul piano divino ed umano, l’amore di Dio e l’amore sponsale che è fecondità. L’amore è ciò di cui l’uomo è sempre alla ricerca, da bambino, da adulto, da anziano. Non bastano ricchezza, successo e potere che, infatti, non riescono a dare compiutezza alla vita dell’uomo il quale, solo se si sente amato e ha qualcuno da amare, avverte che ciò che umanamente sembrava “finito” e “impossibile” diventa carico d’infinito, di possibilità e di realtà.

Abbiamo bisogno – come recita la colletta – di quell’amore eterno che ci ama da sempre; abbiamo bisogno di sentirci ripetere che siamo amati da sempre e per sempre; abbiamo bisogno di essere custoditi e di attingere nuovamente alle fonti vive e vere della salvezza e della speranza; abbiamo bisogno di sentir riecheggiare il “per sempre”

Più che di filosofie o etiche a cui fatichiamo a dare fondamenti condivisi, abbiamo bisogno di tornare a fissare lo sguardo su una persona: il Signore Gesù, il Santissimo Redentore. È Lui la sintesi e la testimonianza eterna dell’amore di Dio per l’umanità; è Lui la possibilità credibile e affidabile, per gli uomini e le donne di oggi, di ritrovare un significato pieno e bello per la vita e la storia, sapendole “leggere” ed assumendole fino in fondo ma, nello stesso tempo, andando oltre la dimensione storica che non ci appaga e soddisfa proprio perché finita.

Bisogna che la speranza cristiana sia risorsa reale nella nostra vita – per un nuovo umanesimo, per una nuova antropologia – così da permetterci di stare nella storia come persone salvate, come persone redente in Gesù.

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Con la Madonna della Salute torniamo al Redentore, perché la Santa Vergine riflette sulla Chiesa la luce del Redentore. La luna fa luce di notte, quando il sole è tramontato e prima che sorga il nuovo giorno; anche Maria, come la luna, illumina coloro che attraversano la notte della fede o sono nella sofferenza e ci accompagna con la Sua presenza dolce e materna affinché ritorniamo a guardare il Redentore e ad invocarlo, senza stancarci e con fiducia, perché ci doni uno sguardo aperto, sapiente e di speranza sul futuro, ci guidi nel tempo e nelle scelte che ci stanno davanti e ci custodisca nella misericordia e nella pace.