Omelia del Patriarca alla S. Messa per i funerali di monsignor Sergio Sambin (Venezia, Basilica Cattedrale di S. Marco - 26 aprile 2018)
26-04-2018

S. Messa per i funerali di monsignor Sergio Sambin

(Venezia, Basilica Cattedrale di S. Marco – 26 aprile 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Cari fedeli, cari fratelli e sorelle,

 

in silenzio, quasi in punta di piedi e nel volgere di poche settimane, don Sergio ci ha lasciati la vigilia della solennità – a lui carissima – dell’evangelista e patrono san Marco, entrando – con la discrezione che continuamente l’ha contraddistinto – nella casa del Padre e stare così, per sempre, con Dio che è eterna felicità.

 

Don Sergio era nato a Venezia, il 16 dicembre 1920, da Luigi e da Celestina Marin; era il decano del nostro presbiterio e con la sua presenza dignitosa e il suo stile sacerdotale s’imponeva e dava decoro alla Basilica di san Marco alla quale era legatissimo.

 

Così, dopo una vita veramente lunga – aveva compiuto pochi mesi fa novantasette anni e presto avrebbe ricordato i sessantotto anni di ordinazione presbiterale -, il Signore l’ha chiamato a sé. In quest’ultimo periodo i ricoveri ospedalieri si erano ripetuti con frequenza, segno che qualcosa si stava incrinando, e l’ultima degenza si era resa necessaria per un più pronunciato indebolimento delle sue già fragili condizioni.

 

Lo ricordo ancora in piedi col suo bastoncino, in coro, per concelebrare il Pontificale nel giorno di Pasqua; l’ufficio di canonico della basilica patriarcale di San Marco coincise, di fatto, con l’ultimo servizio pastorale reso alla Chiesa che è in Venezia.

 

Fu un canonico che onorò tale ufficio con la celebrazione assidua, con il canto delle lodi del Signore e – finché gli fu possibile – esercitando il ministero delle confessioni; fu anche segretario del Capitolo canonicale, intelligente e saggio estensore dei verbali del Capitolo.

 

Don Sergio poté esercitare un lunghissimo ministero, iniziato con l’ordinazione presbiterale nell’ormai lontano 25 giugno 1950 per l’imposizione delle mani del Patriarca Carlo Agostini.

 

Don Sergio è stato uomo e sacerdote di animo limpido, sempre cortese nel tratto, sereno nello sguardo; non si imponeva se non per lo stile umanamente pacato, per la finezza spirituale e l’innato senso della pietà cristiana.

 

La sua morte è stata realmente un sereno addormentarsi nel Signore. Il brano del secondo libro dei Maccabei ci ricorda quanto è “magnifica” la “ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà” (2 Mac 12,45).

 

In ospedale – quando gli avevo fatto visita – sembrava assopito; prima di impartire l’indulgenza plenaria, gli ho sussurrato all’orecchio – come fa ogni prete in queste circostanze – alcune brevi preghiere, l’atto di dolore, qualche giaculatoria… Subito don Sergio si è unito alla preghiera, ripetendo con un filo di voce: ”Sia lodato e ringraziato in ogni momento il Santissimo e divinissimo Sacramento” e “Gesù confido in Te!”.

 

Il morire è, per il cristiano, addormentarsi nel Signore e don Sergio ha fatto la “bella morte” del cristiano. Tale passo l’ha compiuto con vera pietà e la sua preghiera, pronta e spontanea anche nel momento in cui la coscienza era intorpidita, non era frutto di memoria allenata o automatismo psicologico; questa prontezza dice, piuttosto, come la preghiera gli appartenesse e fosse entrata in lui, in modo vero e concretissimo, e come, per lui, fosse riferimento e dimensione continua della vita.

 

Un antico adagio cristiano recita “sicut vita, mors ita” e questo dà gioia, dà forza e serenità a quanti – in ogni momento della vita – si sforzano di pregare e di vivere bene!

 

Qui si scorge, innanzitutto, la fedeltà ad un ben preciso impegno che il presbitero assume nel momento dell’ordinazione, quando gli viene esplicitamente domandato l’impegno nella preghiera: ”Vuoi insieme (col tuo Vescovo) implorare la divina misericordia per il popolo a te affidato, dedicandoti assiduamente alla preghiera, come ha comandato il Signore?” (Dal Rito di ordinazione).

 

Il testo della seconda lettera ai Corinzi (cfr. 2Cor 4, 14-5,1) è stato scelto poiché lo sguardo del discepolo del Signore – soprattutto se è prete – deve sapersi posare, in modo particolare, non tanto sulle cose visibili ma su quelle invisibili, non sulle cose che durano un momento ma su quelle eterne.

 

L’Apostolo, infatti, scrive: “…convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… Per questo non ci scoraggiamo, ma, anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno… noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” (2Cor 4, 14.16.18).

 

E ormai don Sergio vede ciò in cui ha creduto e sperato lungo tutta la vita; ora vede Colui che è il fondamento e il senso di tutto, sia delle cose visibili sia di quelle invisibili.

 

La vita per il cristiano consiste, allora, nel camminare con gli altri per un tratto di strada, lungo o breve non lo sappiamo, ma lo sa il Signore che per noi dispone per il nostro vero bene. Per don Sergio il percorso della strada terrena è stato – secondo il computo degli uomini – lunghissimo e anche questo è stato un dono del Signore.

 

Dopo questa vita terrena – lunga o breve che sia stata – tutto si ricongiunge e concretizza nel gioioso ritrovare i fratelli e le sorelle nel Signore Gesù, attorno a Dio Padre, per l’eternità. Ancora una volta, qui, si può toccare con mano come la rivelazione cristiana non sia soltanto vera ma, anche, bella e consolante.

 

Dopo la vita terrena – per usare le parole dell’apostolo Paolo -, una volta disfatto il nostro corpo mortale, saremo accolti da Dio e riceveremo da Lui un’abitazione eterna in cielo, non costruita da mani di uomo.

 

Il brano del Vangelo è tratto dal sesto capitolo di san Giovanni (cfr. Gv 6, 51-58) e ripropone la centralità dell’Eucaristia nella vita del singolo discepolo e dell’intera comunità ecclesiale. Nella vita del prete, poi, l’eucaristia riveste un’importanza unica essendo proprio la presidenza dell’eucaristia – a servizio di Dio e della comunità – ciò che qualifica specificamente il ministero presbiterale.

 

Al momento dell’ordinazione, infatti, si viene interrogati se, nella comunione con l’ordine episcopale e sotto l’autorità del successore dell’apostolo Pietro, si vuole edificare il Corpo di Cristo che è la Chiesa. E tale missione, durante il cammino terreno, si realizza in molti modi ma, in pienezza, nella celebrazione eucaristica.

 

Il pane eucaristico è presentato come pegno di vita eterna; il pane che dona la vita nel tempo e nell’eternità. L’eucaristia, pane spezzato per la vita del mondo e di ogni uomo, assume così un valore essenziale e decisivo proprio quando la vita appare irrimediabilmente spezzata. E ciò avviene per tutti gli uomini, nessuno escluso.

 

Così, come Chiesa, con questa celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo nella basilica cattedrale, affidiamo a Gesù – eterno e sommo Sacerdote – don Sergio che è stato, con amore e zelo, con la sua persona e il suo ministero, intercessore innanzi a Dio, in favore del suo popolo, in modo particolare attraverso la celebrazione della santissima eucaristia; offrire all’altare il sacrificio eucaristico è segno reale e vivente dell’unità nella carità del Corpo mistico.

 

La fraterna vicinanza della Chiesa che è in Venezia va a coloro che hanno amato e amano don Sergio. Un pensiero particolare va ai familiari, al nipote a quanti gli sono stati più vicini nei lunghi anni del suo ministero nell’ambito della pastorale parrocchiale e diocesana e a chi lo ha seguito con amore nel tempo in cui le forze fisiche hanno iniziato a venire meno.

 

A tutti dico, con la certezza della fede cristiana che genera la speranza: il Signore Gesù ha vinto la morte, è risorto! E, quindi, non cerchiamo più tra i morti Colui che è il Vivente!

 

Con questa convinzione, attraverso la mediazione materna della Madonna Nicopeia, affidiamo il nostro carissimo don Sergio alla misericordia del Padre che è nei cieli.

 

Sì, confidiamo prima di tutto, nella misericordia infinita di Dio; confidiamo nella “misura più grande” della Sua misericordia.